mercoledì 31 agosto 2016

Siria, ucciso il vice Al-Baghdadi

Abu Mohammed Adnani, uomo di fiducia di Al-Baghdadi e stratega dell’attacco all’Occidente attraverso azioni d’assalto e attentati suicidi ha cessato di vivere. Lo annuncia l’agenzia Amaq,  fonte attendibile del Daesh, e l’ammette anche il Pentagono. Adnani è stato ucciso con un’operazione aerea ad Al Bab, località sita nell’area di Aleppo, a seguito d’informazioni raccolte con un accurato lavoro d’Intelligence. Nato nel 1977 a Banash, in Siria, era una figura di spicco della gerarchia jihadista, ed era in questa fase impegnato in prima persona alle porte di Aleppo per contrastare il molteplice fronte che cerca d’espugnare quel che resta della città: in terra i ribelli dell’Esercito libero, e l’esercito lealista, più le incursioni dell’aviazione di Asad e quelle russe dal cielo. Fra i suoi molteplici compiti c’era anche quello di comunicatore dell’Isis. Tant’è che la stessa agenzia Amaq invita i supporter dello Stato Islamico a lanciare un’ulteriore campagna di minacce all’Occidente utilizzando i social media. La presenza nei luoghi di ritrovo virtuale del web era stata uno dei piani messi a punto con particolare attenzione da Adnani, aveva fruttato un sempre maggior seguito fra sostenitori della branca jihadista di Al Baghdadi e prodotto un reclutamento di miliziani. Ma soprattutto aveva incrementato l’effetto domino di attentati compiuti dai cosiddetti ‘lupi solitari’ che cercano e praticano la strage nei “territori dei Crociati”, come hanno dimostrato i casi di vari attacchi fra Belgio, Francia, Germania usando le tecniche e gli strumenti più diversi. Le Intelligence che studiano le mosse dell’Isis attribuivano ad Adnani la paternità del progetto del mese di fuoco durante il Ramadan che ha mietuto vittime non solo in Europa, con la strage di Nizza, ma negli Usa con l’attentato al night club di Orlando e le sanguinarie bombe di Baghdad.
Con l’eliminazione nello scorso mese di marzo del più antico fra i teorici del gruppo, Abdul Mustafa al Qaduli, e del comandante militare, Omar Shishani, alla cerchia storica di Al Baghdadi restano altre due figure iper oltranziste: Abu Mohammed Al-Shimali che s’occupa dell’organizzazione logistica, con punte soprattutto sull’ormai non più semplice terreno di città e metropoli occidentali, e Abu Omar Al Tunisi, il reclutatore di attentatori suicidi che continua a fare proseliti non solo in Paesi fortemente disagiati. Come mostrano gli attentati negli aeroporti di Bruxelles e Istanbul per destare minori sospetti i kamikaze devono vivere in loco e sembrare cittadini comuni. Certo rispetto alla fase d’attacco e d’espansione anche territoriale sviluppatasi nell’estate 2014 tramite l’occupazione d’una vasta area siriana, la creazione dello Stato Islamico con capitale a Raqqa, l’introduzione d’un controllo militare e socio-politico, con un rapporto oppressivo e intimativo ma anche interlocutivo verso la popolazione, ovviamente maschile, l’attuale momento del Daesh non è del tutto propositivo. Il sogno del grande Califfato diffuso dalle loro mappe di propaganda che s’estende dal lontano Medioriente (compresa l’India e alcune regioni cinesi) per tutta la penisola arabica, Corno d’Africa, l’intero Maghreb fino ai Paesi subsahariani, con l’aggiunta europea della penisola iberica e dei Balcani, rimane appunto un sogno. Però, oltre a restare tuttora radicati nei due stati in dissoluzione (Siria, Iraq), i seguaci di Al Baghdadi sono stabilmente presenti in Algeria, Libia, Egitto, Nigeria, Arabia Saudita, Yemen, Cecenia, Afghanistan, Pakistan. Direttamente o con miliziani locali con cui hanno stabilito alleanze tattiche più che reclutative, ma come accade in alcune aree fortemente destabilizzate (Libia) o in condizione di conflitto permanente (Afghanistan) l’influsso jihadista non è di poco conto. Egualmente prosegue il terrore diffuso dai lupi solitari. Eliminarne l’attuale esperto reclutatore, non vuol dire stroncarne l’attività. Come probabilmente accadrà per Adnani: l’Isis si darà un nuovo stratega. Chi sorride e chi piange proseguono una guerra nient’affatto scontata.


giovedì 25 agosto 2016

Talebani mordi e fuggi a Kabul

Chi controlla cosa - Prosegue la sfida del ‘mordi e fuggi’ talebano concentrato ora su Kabul. L’abbiamo detto: si tratta d’una sfida rivolta agli occupanti della Nato tutori del locale governo e all’Isis impiantato di recente in Afghanistan tramite gruppi di talib dissidenti. A ciascun avversario i clan maggioritari dei turbanti mostrano i muscoli, facendo intendere che presente e futuro del controllo del territorio è nelle loro mani. Così un nucleo guerrigliero s’è infilato nel tardo pomeriggio di ieri nell’Università americana sita a Darulaman Road, una delle arterie di scorrimento della capitale, a un paio di chilometri dall’Ambasciata Russa. Si tratta comunque del centro cittadino, sebbene distante ancora cinque-sei chilometri dalla “città proibita”, il settore super blindato dove sorgono il nuovo palazzo presidenziale e alcuni ministeri, il quartier generale dell’Isaf e le maggiori ambasciate, a cominciare da quella statunitense. Questa è un’area controllatissima, che in ogni caso ha già subìto attentati talebani tramite bombe e kamikaze. L’azione di ieri puntava a evidenziare i limiti del sistema di sicurezza afghano, propagandato con enfasi dal piano della Casa Bianca e dal Resolute Support del Pentagono, e colpire simbolicamente il luogo dove la presidenza Ghani forma la casta dei nuovi amministratori filo occidentali.
Ceto dirigente - Tutto ciò dal punto di vista talebano. Uomini della Cooperazione internazionale sostengono che anche vari giovani ricercatori non organici ai piani governativi frequentano il campus, ma le logiche di ciascuno sono diverse. Però non si può negare che Ghani abbia incrementato, rispetto al più tribale Karzai, l’impegno nel creare una nuova leva manageriale da inserire nel disegno d’una governance filo occidentale, contro cui si scaglia la rabbia talebana. L’azione di ieri è stata più dimostrativa che militare, i miliziani hanno compiuto un raid, senza soffermarsi a lungo in scontri a fuoco con le truppe dell’esercito sopraggiunte a difesa della struttura. Ciò nonostante le vittime sono state dodici, fra cui sette studenti. L’attacco segue un altro avvenimento accaduto in loco il 9 agosto scorso, quando due docenti di quell’Università, uno statunitense e un australiano, sono stati rapiti. Il sequestro non è stato rivendicato da nessuna fazione politica e potrebbe rientrare nella sempre più frequente attività criminale, diventata uno degli affari del disastrato Paese: sottrazioni a scopo d’estorsione ai quali si dedica la manovalanza d’impostori e signorotti della guerra al servizio di figure più importanti. Molte delle quali, sappiamo, sono direttamente coinvolte con l’attuale politica nei ruoli di parlamentare e ministro.
Industria del sequestro - L’industria del sequestro aveva nei mesi scorsi (9 giugno) fatto registrare quello di un’impiegata dell’Ong Aga Khan Foundation. Prima di lei, il 28 aprile s’era verificato a Jalalabad il ratto di Jane Wilson, una lavoratrice di un’Ong australiana. La Wilson è una sessantenne impegnata con l’associazione Zardosi che promuove lavoro d’artigianato. Sempre ad aprile cinque operatori di Save the Children erano stati crivellati di colpi dopo un sequestro nella provincia di Ghazni di cui si può pensare non fosse stato pagato il riscatto. Insomma alle difficoltà oggettive come in ogni territorio di guerra, s’aggiunge questo nuovo fronte che da due anni fa dire agli attivisti rivoluzionari locali che la presenza di stranieri impegnati nella solidarietà alla popolazione e nell’informazione è da evitare perché altamente rischiosa. Di questo genere d’industria si servono, dunque, la criminalità comune e politica di vecchio stampo e probabilmente anche gruppi di talebani, o almeno una parte di loro, che hanno aggiunto nuovi commerci al consolidato e lucroso business della droga. Uno s’aggancia allo sfruttamento del sottosuolo che da una decina d’anni a questa parte ha prodotto accordi fra l’establishment politico e aziende mondiali. Lo sfruttamento del sottosuolo coi minerali delle “terre rare” di cui si nutre l’hi teach mondiale aveva creato accordi fra multinazionali e governo.

Sfruttamento straniero - Nel 2007 Karzai aveva messo a disposizione della China Metallurgical Group un’enorme area a sud-est di Kabul, nella provincia di Logar, dove è stata scoperta una straordinaria vena di rame. L’azienda pagava 2,9 miliardi di dollari per trent’anni di sfruttamento. Nella zona, Mes Aynak, sorgevano templi buddisti, ricerche archeologiche iniziate nei primi anni Settanta avevano portato alla luce testimonianze risalenti all’età del bronzo e vestigia di successivi monasteri. Gli insediamenti furono abbandonati attorno all’VIII secolo dopo Cristo; ovviamente nessuno tutela questo patrimonio artistico che rischia d’essere travolto dagli scavi minerari ufficiali. Sui quali s’innesta l’affarismo di trafficanti di rame di frodo, criminali o talebani. Costoro in altri casi applicano il più sbrigativo sistema della tangente da richiedere alla ditta che fa scavi e trasporti sul territorio controllato dai turbanti d’ogni risma. Perciò la Cina ha avanzato a Ghani richiesta di protezione ed è di fatto preoccupata per un controllo del territorio non garantito dalle autorità. Ma l’interlocutore è inaffidabile: sono le stesse Istituzioni a vacillare se, com’è accaduto nei giorni scorsi, il premier Abdullah ha esplicitamente attaccato il presidente di gestione fallimentare nella conduzione di governo. Così la tregua-armata fra i due, imposta dagli Usa due anni fa per evitare conflitti fra schieramenti, può incrinarsi. I talebani lo sanno e proseguono scorribande dimostrative e operative.

martedì 23 agosto 2016

Siria, i molti nemici della guerriglia kurda

Nella Siria fatta a fette, dissanguata da una guerra che ha tranciato mezzo milione di vite e creato milioni di profughi, finiti lontano o appena oltre confine, l’intreccio della distruzione non placa il suo corso. Come i micro conflitti infilati nell’inseguìto caos totale per ricreare un Medio Oriente comunque asservito. Sorgono alleanze di comodo, strumentalità con cui la geopolitica rilancia macabre danze su gente stremata che resta attaccata alla vita con fili sempre più labili. Oppressori e liberatori s’inseguono come le tattiche di chi dà e toglie, con corridoi umanitari e bombardamenti proposti in alternativa, una comune medicina per speranze preconfezionate da interessi di parte. C’è un nemico comune: il Daesh ma i suoi oppositori combattono fra loro guerre di posizioni per avvantaggiarsi su avversari di ritorno. L’ultimo caso si vive a Hasakah, area orientale a sud di Nusaybin, dove le Unità di protezione del popolo, i reparti kurdi che difendono l’esperienza del Rojava, hanno conquistato il territorio scacciando i jihadisti. Ma si sono trovati i lealisti dell’esercito siriano, che combattevano l’Isis su un fronte attiguo, a insidiargli la liberazione dell’area con tanto di colpi di mortaio e operazioni aeree. Agenti russi hanno cercato di mediare senza esito positivo e da una tacita intesa fra le parti si passa a una contrapposizione armata. Da alcune ore c’è una tregua, ma durerà?
Anche nella località di Manbij, egualmente liberata dalla guerriglia kurda sono giunti colpi di mortaio, avvertimenti turchi stavolta, perché Ankara assimila questi combattenti agli odiati omologhi del Pkk contro cui ha riaperto da un anno le ostilità sul territorio interno. Secondo dichiarazioni ufficiali di Ankara l’iniziativa doveva preparare un’offensiva dell’Esercito siriano libero, i ribelli moderati da anni sostenuti dallo Stato turco, che deve riversarsi su Jarablus, località a ridosso del confine tuttora in mano alle milizie del Daesh. Nell’intreccio di scontri, veti e alleanze di comodo, appare palese l’interesse diffuso nel voler colpire la bandiera del Rojava. I cui uomini e donne armati praticano con meticolosa coscienza la difesa dell’area dove vive la propria gente. Sgraditi per il loro caparbio disegno ai grandi del mondo e a chi nella regione ha creato nel tempo interessi clanisti (dinastia Asad) o vuol stabilire controllo e ingerenze dal rimescolamento dei confini (Erdoğan, ma anche il governo iraniano). Nelle guerre dirette o per procura, nello scempio di cui è vittima il popolo siriano con le sue etnìe, rimangono i flash di emozione profonda, già visti nella liberazione di Kôbane dall’incubo dei miliziani neri. Restano le foto del rassicurante sorriso d’una combattente kurda che imbraccia il mitra e abbraccia una bimba piangente. Resta il nero d’un burqa avvinto a una mimetica vestita al femminile. Immagini d’una speranza che non vuole morire.


Egitto, Sisi si risveglia mondiale


I direttori dei tre maggiori quotidiani egiziani (Al-Ahram, Al-Akhbar, Al-Gomhouria) si sono raccolti attorno a lui, proprio come accade ai grandi statisti o come invitano a fare i satrapi. In ogni caso Sisi ha riproposto, in un’intervista durata ore, il passo felpato con cui s’era presentato nella stagione del suo posizionamento legalitario sulla scena politica del Paese. Era la tarda primavera del 2014 e godeva di un’elezione plebiscitaria. Ieri ha discusso di politica estera a tutto tondo, toccando i punti che, semestre dopo semestre, hanno evidenziato le contraddizioni della sua amministrazione.
Rapporti col Cremlino – La preoccupazione maggiore del presidente egiziano riguarda la presenza turistica russa sul Mar Rosso che, dopo l’attentato all’airbus di un anno fa, aveva visto l’interruzione del flusso vacanziero nella regione. Per il forte impatto degli introiti turistici sull’economia nazionale Sisi auspica una ripresa dei voli e del lavoro delle agenzie, un passo che potrebbe seguire l’accordo in via di definizione con Mosca per la costruzione di una centrale nucleare a El-Dabaa sulla costa mediterranea, a poco più di 100 km in linea d’area da Alessandria.
Rapporti con la Casa Bianca – Da oltre un anno sono ripresi gli aiuti militari che l’amministrazione Obama aveva sospeso dopo il golpe bianco dell’estate 2013 e i massacri degli attivisti della Fratellanza Musulmana. Anche in questo caso non si guardano le infinite violazioni di diritti con arresti indiscriminati, torture, assassini (nel biennio del repulisti di Sisi i Regeni sono stati centinaia denunciavano Ong come il Nadeem Center e gli stessi documenti stilati delle Nazioni Unite). Ma il sopraggiungere dell’Isis anche nelle latitudini nordafricane giustifica il ripristino dei rifornimenti militari. Così Sisi annuncia trionfante che “i rapporti fra Egitto e Stati Uniti sono strategici e sono stati incrementati”. 
Rapporti con Palazzo Chigi – Il presidente-generale ha ringraziato Matteo Renzi per la prassi accomodante sul caso Regeni. In effetti, dopo le iniziali richieste di chiarimento che sposavano il desiderio di giustizia dei familiari del ricercatore, il premier italiano e il ministro Gentiloni hanno abbassato la guardia e gli sguardi. L’ipotesi di rottura diplomatica è svanita, gli affari commerciali fra i due partner proseguono nonostante il mistero sia tutt’altro che risolto. Il presidente egiziano è passato dal basso profilo alla rimozione della questione, a fronte di depistaggi e omertà palesati dai suoi collaboratori più stretti, Abdel Ghaffar, il ministro degli Interni, su tutti. All’epoca dell’assassinio (primi di febbraio 2016) apparivano ipotesi di lotte intestine a Intelligence e Polizia locali che avrebbero usato la vicenda per strattonare e ricattare il presidente. Congetture mai dimostrate. Al di là delle parole di circostanza dagli apparati del Cairo non sono mai giunti elementi utili ai magistrati italiani. Le recenti rivelazioni secondo cui il sindacalista degli ambulanti con cui Regeni era in contatto è un informatore dei mukhabarat, confermano i diffusi sospetti su come l’omicidio sia un affare di Stato. Nei comme
nti di ieri Sisi come sempre fa la Sfinge, aggiunge solo una frecciata alla stampa locale non omologata che ha continuato a tenere aperta una storia da cancellare.
Sul vicino Medio Oriente – Inviando dopo un quindicennio il proprio ministro degli Esteri, Sameh Shoukry, in visita a Tel Aviv Sisi ha sottolineato come l’Egitto conservi per la questione israelo-palestinese salda e costante la posizioni di due Stati per due popoli. Certo, le autorità di Ramallah e Gaza City devono cercare una linea di collaborazione, come la Comunità Internazionale deve porsi in maniera costruttiva sul tema di un’equa convivenza. A tal proposito ha rivelato che Putin sarebbe disposto a sponsorizzare nuovi colloqui di pace fra Abu Mazen e Netanyahu a Mosca.
Sui Paesi del Golfo – Sisi ha definito “solido, forte e non esclusivamente finanziario” questo rapporto con aiuti che dai tempi della presidenza Morsi non sono mai venuti meno. Con l’Arabia Saudita è sorta una diatriba sui confini marittimi segnati nel Mar Rosso dalle isole Tiran e Sanafir, a lungo amministrate dall’Egitto e passate dallo scorso aprile al regno saudita. Ne sono seguiti proteste con arresti. Sisi ha ribadito che le isole sono sempre state territorio saudita e i circa settant’anni di amministrazione egiziana non segnavano pretese. Con questo ha indicato anche alla propria Alta Corte Costituzionale, che si sta interessando del tema, un’evidente mossa di realismo politico. I petrodollari profumano sempre e servono. Il Parlamento avrà l’onore di ratificare con un voto i confini marittimi di cui lui stesso ha discusso col re Salman mesi addietro. E tanto deve bastare.
Sulla Turchia – Mano tesa alla Turchia erdoğaniana “non c’è alcuna inimicizia fra i nostri popoli”, sebbene la defenestrazione di Morsi e la persecuzione dei militanti della Fratellanza Musulmana avevano raffreddato i rapporti sino a rischiare una crisi diplomatica. Oggi il premier turco Yıldirm afferma di voler rilanciare relazioni amichevoli fra i due Paesi. All’idea Sisi sorride.
Su Siria, Libia, Yemen e l’Alto Nilo – Giostrandosi diplomaticamente con due grandi del Mondo, entrambi interessati alle aree di crisi, il presidente egiziano si dice convinto che Mosca e Washington s’adopereranno per risolvere situazione intricatissime come quella siriana. Flessibilità, ma anche salvaguardia delle diversità presenti fra etnìe e religioni saranno garantite dal buon senso, a patto di sradicare i gruppi radicali che operano per la disgregazione. E il suo pensiero corre alla Libia con cui l’Egitto confina e di cui spera di non ereditare ancor più ampie infiltrazioni jihadiste. Per questo la cooperazione militare con le potenze mondiali e con gli eserciti locali, come l’esercito nazionale libico, risultano irrinunciabili. In Yemen gli accordi coi sauditi prevedono un proprio contributo aereo, perché la flotta è impegnata a vigilare sulle zone a rischio a Suez e nel Mar Rosso. La dissonanza energetico-ambientale  con l’Etiopia sulla costruzione dell’enorme diga Renaissance, che può mettere a rischio il flusso dell’acqua del Nilo Azzurro verso le terre egiziane, è vista da Sisi con fiducia, si cerca collaborazione con Adis Abeba e Khartum. Seppure da sempre il Cairo è ritenuto l’usurpatore delle acque del grande fiume. 

lunedì 22 agosto 2016

Hande Kader, l’assassinio d’un simbolo

Nella Turchia morente per stragi o per il tiro al bersaglio di sicari di partito e di Stato, non poteva mancare l’assassinio della trans. Per il maschilismo sempiterno, il perbenismo censore, la proiezione criminale che usa e abusa, distrugge e getta via. Così il cadavere mutilato e bruciacchiato di Hande Kader è stato rinvenuto in una zona bene della Istanbul dai cento volti. Hande era una trans molto nota nel Paese, assurta a simbolo di un movimento Lgbti (lesbian, gay, bisexual, transgender, intersex). L’avevano fotografata mentre s’opponeva agli idranti della polizia quando a giugno provava a manifestare contro la repressione poliziesca del Gay Pride. L’avevano fermata e malmenata. Come altre attiviste chiedeva libertà per le proprie scelte sessuali e dignità per la persona, e rivolgeva queste richieste a un regime ossessionato dal pensiero unico nel pensare, parlare, pregare, comportarsi, vestirsi. Hande era scomoda per la caparbietà con cui inseguiva il desiderio diventato volontà d’esprimere e vivere il proprio mondo. La sua eliminazione è di per sé un omicidio politico, specie in un sistema che insegue con foga modelli uniformanti e vuole imporli a tutti.

Ma questo sistema non veste solo il minimalismo degli spezzati presidenziali o il velo che da contrassegno si trasforma in imposizione di ritorno rispetto ai precedenti dogmi kemalisti. Rappresenta un’idea criminale e violenta ampiamente diffusa nelle società che puntano il dito sulle altrui vergogne, che divulgano omologazione e supremazia sessuale tramite i propri brand, di cui l’Occidente e certi “made in” vanno fieri. Non è un caso che nella graduatoria dell’infamia assassina, monitorata negli ultimi sette anni, la Turchia preceda con 41 omicidi di trangender l’Italia che ne segna 33. Se poi s’inseguono le tristi cronologie del femminicidio i numeri vanno in tripla cifra. Ieri lungo l’Istikal Caddisi di Istanbul duecento attiviste del movimento Lgbti chiedevano giustizia per quest’ennesimo misfatto, che è si regime ma pure di popolo. Di quella grossa fetta di popolo maschio e maschilista che ritiene gli altri generi inferiori a sé e comunque li utilizza. Erano duecento, determinate ma solo duecento. Forse anche perché fra gli oppositori di Erdoğan, ogni tipo d’oppositore, queste battaglie sono ritenute secondarie rispetto ad altre lotte. E, come da noi, risultano meno importanti. Come le vite delle tante Hande che se ne vanno.

domenica 21 agosto 2016

Gaziantep, nozze di sangue

S’infila nelle nozze l’esplosivo del terrore, insanguina i sorrisi della sposa, i balli, la cerimonia dell’henné, una tradizione nei matrimoni kurdi. Fa altri cinquantuno morti e una novantina di feriti in quel gioioso incontro familiare che era anche festa comunitaria di popolo a Gaziantep. L’esplosione s’è sentita in buona parte della città che supera il milione di abitanti, a 60 chilometri dal confine siriano, divenuto luogo di smistamento di miliziani jihadisti che vanno e vengono dalle devastate aree del conflitto siriano. Viaggiano singolarmente o in piccoli gruppi, si mescolano anche fra i profughi, che sono un’infinità, riuniti pure in questa zona in campi di raccolta. Fra le vittime dell’ennesima strage registrata in Turchia, tanti, tantissimi bambini che, danzando, circondavano gli sposi. Mentre inquietante avanza l’ipotesi che ad azionare l’esplosivo posto in una cintura da kamikaze sia stato un adolescente, mescolato al gruppo dei danzatori. Il sospetto sull’Isis l’ha lanciato in un intervento ufficiale il presidente Erdoğan che non ha perso occasione per riprorre la tesi d’un Paese sotto attacco da più parti “Non c’è differenza fra i 70 martiri che il Pkk ha prodotto nell’ultimo mese colpendo personale della sicurezza, il tentato golpe dei Feto che ha fatto 240 vittime e l’attentato di queste ore a Gaziantep”. E ha ricordato come ci sia chi insinua terrore etnico fra le varie comunità della Turchia.

Le dichiarazioni del partito di governo, che ha parlato tramite un suo parlamentare Samil Tayyar, ricordando come proprio oggi si teneva un incontro sulla sicurezza fra presidente, premier Yıldırım e alcuni ministri, avvalorano l’ipotesi d’un attentato di matrice jihadista, come quello che aveva colpito l’aeroporto di Istanbul a fine giugno, facendo 44 vittime. L’intento palese è anche quello d’innalzare ulteriormente il senso d’angoscia della popolazione, limitarne la presenza in strada com’era già accaduto nell’attentato contro le manifestazioni di piazza a Suruç e Ankara nella scorsa estate. Colpire una festa di matrimonio mira a limitare la presenza pubblica della gente, a respingerla in casa, un po’ come accade a Kabul in cui non si sta sicuri neppure nelle sale degli hotel dove possono tenersi cerimonie pubbliche o private. I sospetti sulla matrice del Daesh, intenzionato a colpire i kurdi che nel Rojava con le Unità di difesa del popolo combattono i miliziani neri, riguardano l’impegno politico dello sposo, indicato come un militante dell’Hdp. Il suo matrimonio raccoglieva fra gli invitati membri locali e simpatizzanti della formazione politica invisa all’Isis, come pure all’Akp. Gli sposi sono entrambi scampati all’ordigno che, pur artigianale, ha seminato tanta morte. Ma forse dopo questa strage, la gioia di future unioni non potrà più rimbalzare nei canti e nei balli di strada.

mercoledì 3 agosto 2016

Turchia, Bilal e gli affari erdoğaniani

Figli di papà - L’avevano definita la “Tangentopoli del Bosforo”, mica solo i media occidentali che, già tre anni or sono, volevano togliersi qualche sassolino dalle scarpe che l’allora premier turco calpestava col suo smaniare su troppi fronti. La definivano così anche i quotidiani d’opposizione interna: Cumhüriyet, spina nel fianco del governo Akp, il gülenista Zaman, il repubblicano Hürriyet che ora, tacitati per arresti, soppressioni, mutazioni editoriali e genetiche certe inchieste e notizie non possono più farle circolare. Ci finirono dentro papà famosi i cui rampolli erano implicati in operazioni finanziarie che destarono non pochi sospetti ad alcuni giudici. Baris, Salih, Oguz e soprattutto Bilal hanno cognomi pesanti che implicavano i ministri degli Interni Muammer Güler, dell'Economia Zafer Cağlayan, dell’Ambiente e Urbanistica Erdoğan Bayraktar, mentre Bilal amato secondo figlio maschio della famiglia Erdoğan trascinava nell’inchiesta nientemeno che il primo ministro di Turchia. Quando lo scandalo scoppiò il ‘sultano’ era in visita ufficiale in Pakistan, ma egualmente attivò lo staff su due fronti: l’istituzionale, introducendo un ampio rimpasto governativo che, oltre ai tre politici di governo, condusse alla sostituzione di altre sette ministri; il repressivo con cui furono epurati  400 uomini in divisa, fra poliziotti e militari, sospettati di prestare il fianco a un’iniziativa che, per Erdoğan, aveva come mandante l’acerrimo nemico Gülen.

Tutti gli uomini del presidente - Coinvolti nell’intrigo anche Mustafa Demir, sindaco dell’islamissimo quartiere di Fatih a Istanbul, Suleyman Aslan, direttore dell’Halkbank e un faccendiere turco-iraniano, Reza Zarrab, sposato con la nota cantante nazional-popolare Ebru Gundes. Costui verrà fermato a Miami nel marzo 2016 per vicende riguardanti un tentativo di elusione delle sanzioni economiche contro l’Iran; e durante il dibattimento i locali pm scoprirono che Zarrab aveva donato 4,5 milioni di dollari a una struttura di beneficienza avviata dalla first lady turca Emine Erdoğan. L’intreccio attorno al premier, perciò, s’ampliava nonostante lui cercasse di confermare i sospetti del complotto antigovernativo. Intanto i magistrati di Ankara che avevano avviato l’inchiesta si ritrovarono già ai primi del gennaio 2014 rimossi dall’incarico; essi stessi compirono un “viaggio” all’estero, chi in Germania, chi in Armenia, anticipando con una sorta di fuga reprimende peggiori da parte del potentissimo e rancoroso leader islamista. Da quel momento il boomerang accusatorio contro i giudici fu “attentato alla sicurezza dello Stato”. Prima di venire epurati i giudici turchi, gülenisti, kemalisti o indipendenti che fossero, parlavano di corruzione per tangenti intercorse fra imprenditori turchi, uomini del governo, l’istituto bancario Halkbank. Quest’ultimo era cresciuto nel ranking turco, dopo aver iniziato a sostenere gli interessi petroliferi iraniani che cercavano di aggirare l’embargo sul nucleare imposto dalla Comunità internazionale.

Amici e nemici - Negli affari della modernizzazione turca, che hanno avuto nel Bosforo un vero pilastro nell’ultimo quindicennio a direzione Akp, si misuravano tanti capitalisti del Musiad (la Confindustria islamica) tutto filava liscio finché il leader dell’Akp non iniziò a punire qualcuno. Il clan Uzan, imprenditori nei settori energetico, edilizio, mediatico - evidenziati da un odierno articolo su La Repubblica - avevano rotto un patto non scritto fra chi s’occupa di affari e chi di politica, seppure con guadagni per la propria famiglia come i segreti erdoğaniani stanno mostrando. Cem Uzan, col passo compiuto nel 2002, praticò una sorta di lesa maestà: gettarsi nell’agone politico con un partito, che pur non superando la soglia di sbarramento riportava il 7,5%, proprio alle elezioni che consacravano la salita dell’Akp al potere. Partito in quel frangente diretto da Gül (poi diventato Capo di Stato) visto che su Erdoğan pesava ancora un’interdizione disposta dalla Corte costituzionale, comunque qualche mese dopo l’ex sindaco di Istanbul, totalmente riabilitato, prendeva le redini di partito e governo. E iniziava le sue vendette: l’Uzan Group si vide sequestrare dallo Stato oltre 200 società su 278. Pur colpita la potente famiglia, che ha tuttora in piedi cause e controversie in patria e ha esportato un pezzo del suo businness in Francia, con Murat Hakan firmò la querela che aveva avviato l’inchiesta giudiziaria nel dicembre 2013. 

Intralcio giudici - In quelle faccende Bilal entrava come un faccendiere speciale. Usava i suoi studi, meticolosamente americani, con laurea presso l’Indiana University, per riprenderli nel 2006 con un dottorato di ricerca presso la Johns Hopkins University di Bologna (una delle tante università private statunitensi sparse per il mondo), però quella frequenza s’interruppe. Riprese nell’ottobre 2015, quando la tempesta della denuncia al padre premier e presidente era in corso, seguita dalla sua rabbiosa reazione contro gli avversi Uzan e quei magistrati turchi che avevano avviato l’inchiesta sulla cosiddetta “Tangentopoli del Bosforo”. Seppur tutto fosse stato tacitato in patria, due pubblici ministeri italiani (Scandellari e Cavallo), due donne, hanno voluto scavare fra alcuni elementi di quella denuncia e dei conti segreti degli Erdoğan. La famiglia, fra l’altro, negli spostamenti all’estero s’avvale di un’altra figura: la figlia Sümmeye che aveva ricevuto un incarico in Relazioni Estere nel partito di papà, e s’è recentemente unita in matrimonio con l’ingegnere e imprenditore Selcuk Bayractar, che alcuni osservatori già vedevano cooptato nel governo. Cosa finora non accaduta. Le pm italiane, oltre alle intercettazioni utilizzate dai colleghi turchi (dove il padre Recep Tayyip e il figlio Bilal parlano di denaro), registrazioni ritenute false dal presidente turco, puntavano a verificare i proventi di centinaia di milioni di euro a disposizione dello Bilal specializzando emiliano. Cifre da capogiro che, secondo indiscrezioni diffuse da agenzie e Servizi moscoviti, provenivano da commerci petroliferi che l’uomo di Ankara realizzava con gli uomini di Raqqa. Trasportando il greggio sulle navi cisterna acquisite dalla BMZ group, di proprietà del rampollo di famiglia. Quelli erano, comunque, ancora i mesi del braccio di ferro fra Recep Tayyip e Vladimir. Il futuro è tutto da scrivere, come sempre alla luce del realismo politico.