venerdì 30 ottobre 2015

L’odore del sangue sulle elezioni turche

L’odore del sangue e l’ossessione dei numeri offuscano le elezioni di domenica. Il sangue, frutto di stragi e repressione, si vede di continuo, tanto il clima socio-politico turco è infiammato e rischia di degenerare in un conflitto diffuso. I numeri sono uno spettro, sia quando si macchiano di rosso con le 32 vittime degli ordigni di Suruç e le 102 di Ankara, oppure gli oltre cento militari colpiti a morte dalla riattivata guerriglia kurda e le centinaia di civili kurdi fatti bersaglio da una controguerriglia che l’esercito turco rivolge agli abitanti dei villaggi del sud-est. Sia quando si presentano come cifre istituzionali, apparentemente innocue, perché per esse si scatena la bagarre elettorale d’un Erdoğan attore, anziché presidente imparziale. Il suo sogno di potere, diventato livore, si proietta sui 46 milioni di elettori degli 85 distretti, sui 550 seggi del Meclis, sui 367 che ne servono per cambiare di colpo la Costituzione, o i 330 che porterebbero a un referendum popolare. E ancora i 327 scranni che l’Akp aveva nel 2011 quando, col 49,8%, veleggiava verso la maggioranza assoluta, scesi a 258 alle elezioni dello scorso giugno. Mentre gli 80 deputati del partito nazionalista e soprattutto gli 80 conquistati dal Partito democratico del popolo ne frustano l’ambizione di dominio e ridimensionano un progetto che un anno fa pareva già compiuto.
Più d’un istituto demoscopico mostra sondaggi che non sbloccano un quadro politico finito in surplace, almeno per chi vuole governare in solitudine. Ciò che il presidente ha auspicato, per il “bene del Paese”, ancora ieri durante un intervento pubblico per la 92° celebrazione della Repubblica. L’Akp guadagnerebbe qualcosa, 2-3% anche a danno dei ‘disturbatori’ dell’Hdp, formazione accreditata comunque dell’11-12% e perciò in grado d’usufruire d’una nutrita pattuglia parlamentare. C’è chi prevede addirittura un’ennesima elezione perché le sabbie mobili dell’ingovernabilità proseguirebbero a paralizzare il panorama ufficiale. Il premier Davutoğlu vorrebbe  evitare ricorsi straordinari all'urna, ma se l’ostracismo alle coalizioni dovesse perdurare l’ipotesi potrebbe materializzarsi. Con molte incognite su economia e stabilità, visto il caos crescente dentro e fuori il Paese. Certo, l’identità che lega ancora un consistente numero di voti kemalisti ai partiti repubblicano e nazionalista è dura a morire. Già alle consultazioni di giugno il travaso elettorale ha preso la via inversa: in parecchi hanno abbandonato l’Akp, scegliendo Chp e Mhp, nonostante i tre anni nei quali Erdoğan, più di chiunque altro nel suo schieramento, si sia accanito nel lanciare quell’autoritarismo che tanto ricorda i golpe del passato e che tanto piace ai Lupi grigi.
Ordine e legalità autoritaria, dunque, con cui si vogliono tacitare le idee balzane dei giovani di Gezi Park, ogni velleità democratica della nuova opposizione targata Hdp (che però risulta aggregante e vincente), la libera stampa, quella vicina a gruppi di potere socio-culturale come la Cemaat gülenista, divenuti acerrimi nemici, oltre a perseguire il terrorismo, con la particolarità di bollare con quest'etichetta chiunque contesti tale programma. Per essere attrattivo verso i fanatici della disciplina il "modello islamico" ha cercato di sostituire lo scontro col laicismo, di cui è permeata la tradizione turca novecentesca, con un mix di secolarismo in salsa ottomana che pone comunque al centro l’identità nazionale turca. Però il laboratorio politico del sultano prevede temi che poco piacciono agli elettori storici repubblicani e nazionalisti, uno di questi è il presidenzialismo, già introdotto in maniera strisciante fuori dalla Costituzione con la tendenza a far prevalere il potere esecutivo su quello legislativo e giudiziario, come dimostrano i colpi di testa e di mano erdoğaniani. Divisiva anche la questione kurda sulla quale i kemalisti duri e puri non transigono. Per loro la patria turca non prevede minoranze, chi è sopravvissuto a pogrom e stermini deve abbassare lo sguardo, omologarsi, obbedire in silenzio.
Invece sulla questione kurda nel 2005 Erdoğan aveva mostrato una delle mosse più realiste (assieme al  contradditorio liberismo economico mutuato da Özal) d’un iniziale riformismo dell’Akp. Çözüm Süreci, il processo di pace, è una condizione senza la quale la Turchia non può continuare a vivere. Perché se è vero che il Pkk non può controllare militarmente tutte province del sud-est, nonostante la supremazia elettorale del partito filo kurdo (Bdp e ora Hdp che in alcune aree raccoglie fino all’89% di consensi), è altrettanto vero che in quelle terre l’esercito di Ankara non può avviare una guerra totale. Sebbene molti recenti massacri di civili abbiano riportato indietro la storia di oltre vent’anni. La complessa unicità della questione kurda, che si riflette sulla vita nazionale, sta vedendo articolazioni varie. Dagli sviluppi dell’autonomia confederale richiamati dalla mappa di Öcalan, alla linea pacifista di Demirtaş diventata pericolosissima per Erdoğan perché aggregante elettoralmente e ostativa al progetto presidenzialista. Resta il combattentismo attivo che si decide a Qandil, secondo la classica segretezza della lotta armata, i famosi colloqui nel supercarcere di Imrali servivano per bloccarla, poi tutto s’è fermato. Ma senza una soluzione del problema kurdo la Turchia finisce nel bivio fra paralisi e caos. E il buio del passato diventa incubo.

mercoledì 28 ottobre 2015

Erdoğan, la guerra ai media

Mattinata d’occupazione a Istanbul al quartier generale della Koza İpek Holding’s media (quotidiani Bugün e Millet, più Bugün Tv e Kanaltürk). La polizia è giunta in forze alle quattro del mattino, s’è introdotta nell’edificio che ospita le redazioni, ha oscurato i canali televisivi (“cari telespettatori non sorprendetevi se fra poco vedrete la polizia nei nostri studi” annunciava il conduttore), impedito l’uscita dei giornali. Applicava un’ordinanza del tribunale che pone la struttura sotto la “tutela” di Turkuvaz Media Group, un editore filogovernativo che diventa fiduciario, e di fatto censore, del gruppo concorrente accusato di sostegno al terrorismo. I cronisti ancora presenti nelle redazioni sono diventati ostaggio degli agenti in borghese, mentre a quelli accorsi in sostegno veniva impedito l’accesso nel luogo di lavoro. Quando la tensione è salita sono stati bersagliati con gas lacrimogeni e urticanti e cannonate d’acqua assieme a decine di cittadini radunati per protesta sotto la sede. Mahmut Tanal, un avvocato del partito repubblicano, ha provato a mediare col capo dell’antisommossa presente in strada, non c’è stato nulla da fare. Agli scontri, peraltro sedati dopo non molto, sono seguiti fermi e arresti.
Il conflitto con l’apparato mediatico vicino al movimento gülenista Hizmet è in atto da tempo, ma non è l’unico perché nel mirino di Erdoğan c’è ormai ogni voce d’informazione che si smarca dal coro d’appoggio e propaganda al suo sistema di potere. Il recente rilascio del direttore del quotidiano Zaman, Bulent Kenes, è solo un diversivo, visto che l’attacco alla libertà di stampa è totale e senza precedenti. Ovvero riporta alla Turchia piegata dalla tipologia di dittatura militare e fascistoide del buio trentennio Sessanta-Ottanta. L’hanno sottolineato alcuni deputati del partito repubblicano che denunciavano la totale illegalità dell’azione poliziesca anche nei loro confronti, visto che gli è stato comunque impedito l’accesso all’edificio della holding dove s’erano recati per osservare quanto stesse accadendo. “Questo è stato di polizia” ha tagliato corto il parlamentare del Chp  Barış Yarkardaş. Mancano quattro giorni all’apertura delle urne e il partito di maggioranza (Akp), che ha evitato volutamente qualsiasi tentativo d’accordo con altre formazioni, sceglie di giocarsi il tutto per tutto. Punta a recuperare terreno, per quanto i sondaggi non gli siano favorevoli. Dicono che rischia di subire un ulteriore calo di consensi dopo la flessione dello scorso giugno che l’ha privato di quegli ottanta deputati (ottenuti dall’Hdp, che riunisce filo kurdi e sinistra) con cui ambiva di trasformare la nazione in Repubblica presidenziale.

Il piano erdoğaniano sembra sfuggire di mano al presidente, lanciato in un’escalation di autoreferenzialità autoritaria. Ai suoi acuti repressivi o, come ritengono vari commentatori, in sintonia con essi, s’aggiungono le trame oscure che diffondono terrore. La repressione, di cui la quotidianità è costellata con persecuzioni e divieti, trova nella libertà d’espressione un bersaglio macroscopico, ma cerca vittime egualmente in oppositori e avversari politici: dai kurdi, guerriglieri e pacifisti alla Demirtaş, ai gruppi marxisti armati e non, agli ex alleati seguaci dell’autoesiliato imam Gülen. L’abisso della paura introdotta dalle bombe sposta lo scontro sul terreno psicologico, lo trasferisce su un livello nel quale solo la coscienza socio-politica unita alla forza d’animo di attivisti e militanti, votati peraltro a diventare bersagli, può tenere. Uno scontro impari, perché punta a creare defezioni fra i cittadini che reclamano democrazia e un’azione politica normale, basata sul dibattito, la dialettica, la critica. Nel delirio d’onnipotenza che caratterizza la sua azione Erdoğan cerca d’impedirlo. A ogni costo. Polarizza e spacca il Paese, non combatte il terrore, cavalca i timori, chiede una delega per andare avanti da solo contro tutti.

Migranti senza tempo

Non ha età la voglia di vita. E non teme distanze e disagi. Bibihal, centocinque primavere - per lei è proprio il caso di dirlo - ha percorso coi familiari prima i quattromila seicento chilometri che l’hanno condotta dall’afghana Kunduz (la città invasa dai talebani e bombardata dagli americani un mese fa) sino a Istanbul. Quindi più di mille per approdare alla frontiera serbo-croata. E non bastano, perché il traguardo che la famiglia Uzbeki si pone è la Svezia, perciò il cammino sarà ancora lungo. L’indomabile nonnina ammette d’aver avuto male alle gambe, d’essere caduta e avere qualche ferita, ma nel complesso di star bene e sentirsi liberata dall’incubo della guerra. In tanti tratti, per via, il nipote diciannovenne, novello Enea, se l’è caricata sulle spalle. Comunque il percorso più defatigante è compiuto e la famiglia spera di non rivedere i caccia statunitensi volare e sganciare bombe. Tutto il gruppo che, come altri afghani, ha conosciuto lutti sogna solo un'esistenza serena, lontano dal conflitto infinito che mantiene prigioniera la propria terra.

giovedì 22 ottobre 2015

Anno Santo, il cammino di vari pellegrini

Guardiamo questi piedi. Il procedere scalzo di chi nel desiderio di andare ha smarrito anche le scarpe. Oppure le ha gettate nei trasbordi fra terra e mare, per non scivolare dai barconi, per muoversi in acqua senza affondare. Un passaggio che sfiora la morte; faticoso, incertissimo, vissuto fra dolore e speranza. Un passaggio che dura mesi e anni con una meta che sembra  irraggiungibile, con alcuni amici e figli crepati per via. Se non camminassero su una lingua di bitume, se il cotone di Genua fosse più antico potrebbero retrodatarsi sino al Medioevo, quando certi percorsi diventavano sacri ai pellegrini della Francigena.
Fra la migrazione per fame e quella per fede la seconda potrebbe essere un diversivo se in taluni casi non fosse anche l’unica possibilità di salvezza per il corpo e per l’anima. Perché la fede, l’etnìa, le idee sono tornate a essere oggetto di persecuzione e tanti sono i migranti richiedenti aiuto e rifugio. Appaiono smunti, laceri, sofferenti come tanti pellegrini dei secoli andati, che dopo migliaia di chilometri s’accampavano presso la soglia di Pietro senza avere l’obolo per acquistare alcuna indulgenza. A loro bastava partecipare a una speranza di vita, come fa ora quest’umanità in fuga in cerca d’un angolo di Paradiso sulla Terra.

Di fronte al rito in cui s’è trasformato l’Anno Santo, per precise responsabilità ecclesiastiche e gerarchiche, già contrasta, e contrasterà ancor più, il cammino di chi s’avvia alla festa della Cristianità col passo del turista. Potrà anche venire da Compostela, faticare per migliaia di chilometri, ma avrà un altro sudore. Gli mancheranno quegli ormoni che la paura e l’incertezza riservano a quest’altri viandanti. Più vicini, più simili ai francigeni dei secoli passati, non solo nei panni laceri ma nella ricerca di un’identità che la moderna società riserva. Riserva, comunque a tutti, e forse qui le diverse provenienze ed esperienze potrebbero incontrarsi e ritrovarsi. Se il pellegrino ungherese non respingerà quello siriano.

mercoledì 21 ottobre 2015

Suicidio Sutton, il giornalismo che infastidisce il potere


La vicenda della giornalista inglese Jacky Sutton, ex volto della Bbc e direttrice dell’Institute for war and peace reporting, trovata morta (suicida sostiene la polizia turca) in un bagno dell’aeroporto internazionale Atatürk di Istanbul, è tutta interna al conflitto di destabilizzazione mediorientale che si combatte anche sul fronte della controinformazione e disinformazione. La cinquantenne era una reporter navigata. Aveva avuto esperienze su reali fronti di guerra in Iraq e Afghanistan, seguìti non da embedded nei compound o negli alloggi messi a disposizione dalla Nato, ma attraverso la rete pacifista e quella della guerriglia resistente. Doveva recarsi nei territori kurdi e, secondo la ricostruzione delle indagini, avrebbe perso un aereo verso quella destinazione (Erbil). Avrebbe dovuto acquistare un nuovo biglietto ma non aveva denaro sufficiente (versione degli investigatori), sebbene sul suo corpo siano stati trovati 2300 euro. Da lì il folle gesto d’impiccarsi coi lacci delle scarpe (sic) al quale nessuno dei colleghi e di chi l’ha conosciuta crede. Molti ricordano l’umanità della Sutton, la sua determinazione femminile, la serietà professionale, la competenza approfondita con un dottorato nel Centro di studi islamici australiani. Non era afflitta da problemi personali o depressione.
Il sospetto è che il suo sia l’ennesimo omicidio volto togliere di mezzo le figure sgradite del giornalismo investigativo e di quello che s’avvicina alle componenti in lotta contro i progetti d’un potere che ridisegna angoli del mondo. La Turchia erdoğaniana è uno di questi sistemi. Da almeno un biennio sta lanciando un attacco senza esclusione di colpi nei confronti dei media, e alle maniere forti (censure, carriere stroncate, arresti) può far seguire anche azioni losche, mirate a rimuovere l’ingombrante presenza dei cronisti scomodi. Metodi già usati da autocrati, il caso Putin è noto, che odiano l’informazione alla stregua di qualsivoglia manifestazione di dissenso verso la propria personalizzazione del comando. L’organismo nel quale Sutton era impegnata negli ultimi anni promuoveva il giornalismo nei luoghi di guerra e aveva già dovuto piangere una vittima: il direttore Ammar al-Shahbander, ucciso nello scorso maggio da un’auto-bomba a Baghdad. Lei aveva preso il suo posto e c’è chi ha pensato di imitarne anche l’uscita di scena. Il Direttore esecutivo dell’istituto ha chiesto al governo di Ankara un’indagine approfondita e trasparente, ma il suo appello finora non è stato supportato da note di Downing Street.

Elezioni egiziane, primo turno ai Sisini

L’hanno chiamata Per amore dell’Egitto. La guida Sameh al-Yazal, ex capo dei Servizi segreti. Appoggia il piano del presidente al-Sisi che, come il panorama degli autocrati tornati in auge nel Medio Oriente post primavere, vuole una nazione prostrata e obbediente ai suoi voleri. Ovviamente questa lista vince il primo turno elettorale egiziano sopravanzando di molto gli islamisti del Nour party, cui s’erano uniti i copti. Conteggi e verifiche sono in corso, ma il cartello che unisce vari partiti pro regime dovrebbe raccogliere non meno di 60 seggi nei governatorati dell’Alto Egitto e del Delta del Nilo. Il successo può servire per alcune modifiche costituzionali (la Carta è stata riscritta nel 2014 a piacimento del presidente golpista) così da limitare ancor più le funzioni parlamentari a vantaggio del Capo dello Stato. Finora Sisi non ha spinto per quest’obiettivo, ma l’avanzamento di forze amiche che attuerebbero il disegno (contro se stesse, visto che si tratta di partiti e di eletti) può garantire ritocchi sostanziali. Come la cancellazione dell’approvazione parlamentare sulla scelta del premier operata dal presidente oppure sulla misura dell’impeachment, che in talune circostanze può essere rivolta al Capo di Stato. Voci critiche hanno annunciato che, dopo aver tenuto l’Assemblea del popolo congelata per tre anni, la lobby militare e i suoi sodali politici cercano di azzerarne ogni autonomia legislativa.
Dalla presa ufficiale del potere nel giugno 2014, Sisi ha emanato oltre 200 decreti presidenziali su argomenti d’ogni genere, sebbene la stretta su: sicurezza, libertà di stampa e d’organizzazione politica sia rimasta in cima ai suoi provvedimenti, come ben sanno attivisti dell’opposizione islamica e laica, giornalisti, blogger e intellettuali scomodi. Esenti da queste strettoie e per nulla toccate dal pugno di ferro militare e poliziesco le forze salafite, che fra l’altro offrono la base teologica a certo jihadismo antisistema. Anche analisti molto morbidi nei confronti dell’uomo forte egiziano non hanno potuto esentarsi da notare simili circostanze, avanzando sospetti sull’utilità del salafismo alla presunta laicità del progetto politico di Al-Sisi. Non è un segreto che esso piace molto alla dinastia Saud che continua a elargire petrodollari per sostenere un’economia tuttora claudicante anche nella voce delle entrate turistiche. Il volano produttivo della cintura tessile del Delta del Nilo è in ribasso da oltre un decennio, il nuovo business legato all’ampia area estrattiva scoperta dal pozzo mediterraneo Zohr (fino a 850 miliardi di metri cubi di gas da sfruttare) è tutto da avviare, mentre il via vai di navi sul raddoppio del Canale di Suez produce entrate per le compagnìe delle Forze Armate che riversano ben poco alla società. Così i dati recenti dicono che a settembre l’inflazione è salita al 9.2% rispetto ai mesi estivi (7.9%), s’era tenuta bassa dopo un’impennata dovuta agli aumenti del prezzo del carburante registrati a metà 2014.
I primi commenti lanciati dal cartello elettorale vincitore ribadiscono gli entusiasmi dei partiti protagonisti (Free Egyptian Party, Conference Party, Wafd) intenzionati a superare divisioni. Tutti candidamente sostengono di non avere ideologia (gli avversari sottolineano come il loro ideale sia l’affarismo) ma di mobilitarsi per sostenere l’unica via politica praticabile che non può prescindere dalla componente militare. Insomma una riedizione del ‘modello Mubarak’, com’è stato commentato da più parti che, non a caso, è sostenuto da ex uomini del raìs. In prima fila ci sono Mohamed Farag Amer e Mohamed Zaki al-Sewidi, affaristi, e l’ingegnere Sayed Gohar, tutti ex parlamentari di quel National Democratic Party  messo fuori legge dalla “rivoluzione” del gennaio 2011; era fuorilegge il partito non i politici che dopo una breve vacanza si sono rilanciati. Poi c’è la componente degli uomini noti, tramite i media come il giornalista Mustafa Bakry e Ossama Heikal, già impegnato nel ministero dell’Informazione. Oppure grazie allo sport: l’ex calciatore e ministro  Taher Abu Zeid. I filo presidenziali contano anche un pentito: l’ex membro della Fratellanza Musulmana Sameh Eid, che ha cancellato il passato aderendo al Conservative Party. Col suo giro di walzer ha ottenuto il doppio risultato di evitare la galera e proseguire l’attività politica, addirittura in Parlamento. Ultimo particolare, nient’affatto secondario: la media dei votanti del primo turno oscilla fra il 20 e il 25%. Nelle elezioni del 2012 aveva votato il 62% degli elettori. Anche su questo terreno l’Egitto riguarda all’era Mubarak, che trionfava col 97% del 10% che si recava alle urne: amici e sodali. Anzi, nemmeno tutti.

lunedì 19 ottobre 2015

Ubaid (Solidarity Party) “L’unione del popolo afghano può garantire un futuro contro il governo del terrore”


Obama ha ordinato ai reparti americani di restare in Afghanistan per tutto il 2016. Cosa ne pensa il vostro partito?
Siamo coscienti che gli americani resteranno sulla nostra terra, hanno interessi geostrategici ed economici. Basti pensare che le nuove basi sorgono in aree che loro hanno affittato da privati o dallo Stato per novant’anni. Se dovesse andar male le prossime tre-quattro generazioni di miei compatrioti dovranno fare i conti con questo panorama.

Qual è la valutazione che Hambastagi dà dell’anno di presidenza Ghani cogestita con Adbullah?
Nonostante Kerry (il Segretario di Stato Usa che s’è speso per questa soluzione, ndr) lo definisca un governo di unità nazionale, l’attuale è un governo fantoccio, come i due precedenti di Karzai. Non può privarsi del sostegno finanziario e militare occidentale. Noi lo definiamo “governo del terrore” perché negli ultimi mesi la situazione della sicurezza è peggiorata con lo stillicidio di attentati, la crescente aggressività talebana cui s’aggiunge quella dell’Isis. L’economia è inesistente, la povertà aumenta e soprattutto i giovani non vedono futuro. A loro diciamo: uniamoci per inseguire un programma di pace e democrazia.

Ma unirsi a chi?
C’è poco all’orizzonte. Per un progetto comune si devono rispettare almeno tre obiettivi: opporsi all’occupazione straniera, lottare contro il fondamentalismo politico e religioso, ottenere diritti. So che nel contesto afghano questa sembra una folle utopia, eppure la nostra piccola esperienza è indicativa. Il partito Hambastagi è sorto undici anni fa per iniziativa di attivisti rivoluzionari e intellettuali. Eravamo in seicento concentrati a Kabul e Jalalabad. Pochi, pochissimi. Oggi contiamo trentamila militanti presenti in venti province. Riusciamo a organizzare manifestazioni contro l’occupazione cui, nonostante il timore di attentati, partecipano migliaia di persone. L’informazione che forniamo sul web è seguitissima, risultiamo 16^ di una graduatoria afghana ma ci precedono  solo  i grossi motori di ricerca come Google, Yahoo, You Tube oppure social network alla Facebook. Sono fiducioso.

I talebani sono più presenti di voi, operano in 24 delle 34 province del Paese
Sì, anzi ultimamente in venticinque. S’allargano sempre più e rappresentano l’altra proposta rivolta ai giovani. Gli chiedono di combattere al loro fianco per una società tradizionale e confessionale. Ecco, l’odierno Afghanistan è di fronte a questo bivio: accettare passivamente l’occupazione e lo sfruttamento occidentali o finire fra le braccia dell’insorgenza talebana. Noi diciamo di cercare un’alternativa laica e democratica a entrambi questi progetti disfattisti.

Temete più i talib dissidenti del Khorasan che guardano al Daesh, oppure il gruppo storico ora gestito da Mansour o ancora i vecchi fondamentalisti come Sayyaf ed Hekmatyar?
Sono tutti pericolosi nella loro essenza fondamentalista. Magari possono risultare differenti alcuni metodi più o meno efferati con cui seviziano le vittime, penso alle decapitazioni attuate dai miliziani del Daesh che mentre  sgozzano filmano i loro crimini. Di recente ci sono stati allentamenti sul comportamento oppressivo rivolto alle donne che talvolta vengono lasciate circolare anche da sole (nell’ultimo biennio lo stesso governo dava ampio spazio a costumi restrittivi, ndr). Si tratta comunque di mosse create ad arte per illudere la popolazione sulla bontà dell’attuale approccio fondamentalista. Sayyaf ed Hekmatyar rappresentano un’enorme minaccia non per l’intera regione. Tanti degli attuali miliziani dell’Isis, dentro e fuori l’Afghanistan, provengono da esperienze fatte coi due signori della guerra e i loro partiti (Islamic Party, Hezbi-e Islami, ndr). Ora anche il Daesh è presente nella nostra vita quotidiana: il governatore della provincia di Ghazni ha acconsentito che l’Isis aprisse un ufficio nella zona per fare proselitismo. Da Kabul non sono sopraggiunte reazioni.

Parlando di politica del terrore, cosa ci dite di gruppi paramilitari come i Marg, di cui s’è scritto nei mesi scorsi?
Fortunatamente non li ho visti in azione, ne ho sentito parlare. Sono elementi ben addestrati che lanciano attacchi all’Isis e anche alle forze talebane. Marg in persiano significa morte, e costoro non fanno sconti ai nemici. Chi sia a finanziarli non è chiaro, quando le cose sfumano in genere ci son dietro le Intelligence, se pakistana o d’altra sponda non mi sento di dirlo.

Sicurezza, economia, giustizia, diritti: le promesse tradite delle missioni Nato; quali settori sono maggiormente mascherati e manipolati dalla politica e dall’informazione locali?
Tutti i settori elencati sono peggiorati negli ultimi anni: continuiamo a subire occupazione, oppressione e morte, i talebani sono presenti in 25 province e creano enormi problemi di sicurezza, la corruzione è una piaga endemica cui contribuisce la politica occidentale che offre patenti democratiche ai gaglioffi che ci governano, abbiamo politici peggiori di quelli italiani (ride). Ma l’aspetto che viene maggiormente manipolato è la questione femminile, offerta ai media stranieri con un volto migliorativo e tranquillizzante, che invece è un falso assoluto. La vulgata afferma che da noi le donne possono lavorare e studiare. Bugie. La realtà è quella apparsa nella vicenda di Farkhunda, massacrata in strada per tre ore di seguito senza che nessuno la difendesse.

L’emancipazione politica afghana è bloccata più dalla presenza militare statunitense o dal business del sottosuolo cinese e occidentale?
L’occupazione americana è l’ostacolo maggiore; nonostante dicano di offrire un fondamentale contributo al nostro domani, gli Stati Uniti non hanno mai creato alcun servizio. Non costruiscono strade, né case, né dighe, né ospedali, e distruggono quelli realizzati da altri, com’è accaduto alla struttura di Medici senza frontiere. Non conosciamo fabbriche né università create da Usa e Unione Europea, i cui politici visitano i propri militari e le leadership locali. Hanno costruito e reso operativo solo quello di cui hanno bisogno: basi aeree per controllare e bombardare.

I vostri campi d’azione - con la preziosa attività rivolta alla gente tramite scuole, orfanotrofi, rifugi - si sono ristretti. Il rapporto con la popolazione ne risente?
Sì, purtroppo la crescente situazione di conflitto limita parte del lavoro sociale, per motivi di sicurezza. Ma, come ho detto, i riscontri organizzativi del partito sono lusinghieri, ormai veniamo ben identificati dalla gente. Anche i media prestano attenzione alle nostre iniziative, non parlano più di generiche proteste di cittadini, citano la nostra organizzazione. Ci viene anche richiesta una presenza nei dibattiti televisivi, perché su taluni problemi non si può ignorare il lavoro che facciamo. Ci auguriamo di poter continuare.

Siete impegnati contro l’imperialismo statunitense, siete solidali coi kurdi di Kobanê per l’affermazione d’una nuova soggettività politica basata sull’autodeterminazione, ma qualcuno vi accusa d’essere  anticomunisti. Come rispondete?
E’ strano ascoltare questo. Il governo afghano, i fondamentalisti, i militari Nato ci chiamano comunisti. Certo noi non ci definiamo tali, ci collochiamo in un’area democratico-progressista. Se un giorno ci accorgeremo che il riferimento ideologico marxista può adattarsi alla lotta e agli obiettivi che ci poniamo, potremo inserire questo termine nel programma. Sicuramente non ci consideriamo anticomunisti, è la prima volta che lo sento in Europa! I contatti internazionali con la sinistra europea (Die Linke, l’italiano Sel, comunisti olandesi e svedesi) ci fanno bollare come sovversivi. Gli unici ad aver usato quest’espressione sono dei fuoriusciti afghani risiedenti in Canada che ci accusano di opportunismo. A loro diciamo di venire a lavorare politicamente in Afghanistan anziché esprimersi sui computer a migliaia di chilometri di distanza.

Ma i partiti della sinistra vi offrono qualche sostegno?
Economico no. Questo lo riceviamo solo da talune Ong di vero volontariato. Otteniamo solidarietà politica, che in alcuni casi può risultare utilissima. Quando nel 2012 Karzai aveva bloccato la nostra registrazione come forza politica, tutte le lettere di protesta inviate a lui e all’Onu da varie organizzazioni (della sinistra e comuniste) tedesche, spagnole, italiane, pakistane sono servite per farlo recedere dall’iniziativa. Anche questo è un aiuto alla nostra causa. 

Ahmed Ubaid, è nato a Kabul 32 anni fa. Durante il periodo della guerra civile afghana è riparato coi familiari in Pakistan. Ha trascorso alcuni anni nel campo profughi di Peshawar. Rientrato nel suo Paese dopo il governo talebano s’è dovuto misurare con l’occupazione occidentale. Ha lavorato a lungo con Hawca, ong afghana impegnata nella creazione di rifugi per donne violentate e maltrattate, diventandone vicepresidente. Da due anni ha abbracciato ufficialmente la politica entrando nel direttivo del Partito della Solidarietà, di cui è membro. Per quest’impegno pubblico nel 2014 è stato anche arrestato dall’allora amministrazione Karzai.

domenica 18 ottobre 2015

L’Egitto vota, mubarakiani in prima fila


Gli egiziani ritrovano le urne elettorali. Il generale-presidente Sisi gliele aveva promesse e poi interdette in due occasioni per ragioni di sicurezza interna. Le riconcede con i tradizionali due turni: 18-19 ottobre e 22-23 novembre, e dal voto s’aspetta l’ennesimo consolidamento al regime, personale e della lobby militare che l’ha condotto nella posizione che ricopre. E’ con lui la metà della popolazione egiziana, favorevole al golpe di luglio 2013 e al sanguinosissimo epilogo delle stragi della moschea Rabaa nel successivo mese di agosto. Da quel momento tristissimo il Paese è entrato in una spirale repressiva che ha fatto quasi duemila vittime fra gli attivisti della Fratellanza Musulmana e dei gruppi laici, ne ha condotto decine di migliaia in galera, continua a veder spargere sangue di civili e militari per l’insorgenza di attentati e guerriglia sostenuta da gruppi anche filo Isis, come i miliziani di Ansar al-Maqdis presenti nel Sinai, e pure in alcune grandi città compresa la capitale. Un’instabilità che ha preoccupato tutte le potenze impegnate fra il Mediterraneo e il Golfo.
Le novità d’un sistema elettorale ritoccato riguardano la futura formazione del Parlamento (sciolto d’autorità nel giugno 2012 dalla Corte Suprema su “consiglio” dello Scaf). I 596 membri dell’Assemblea verranno eletti per il 75% con liste di deputati indipendenti, ai candidati dei partiti spetterà il 20% e un 5% di rappresentanza è offerta a minoranze (copti, donne, disabili). Il ruolo dei partiti viene ridimensionato a vantaggio di singoli candidati, soprattutto coloro che possono permettersi di finanziare un comitato di sostegno elettorale (e magari istituire forme di acquisto del voto). Infatti alcuni magnati e businessmen dell’epoca Mubarak sono stati attivi nella formare proprie liste. Questi candidati possono avere successo in base alla proposta di tematiche locali, che s’occupano dei mille problemi vissuti dalla popolazione, e delle conseguenti promesse di soluzioni adeguate che sicuramente investiranno i propri affari. I tycoon non mancano neppure nelle stesse propriamente politiche come accade all’immarcescibile Ahmed Shafiq (ora leader del Fronte Egiziano) che perse il ballottaggio alla presidenza contro l’islamista Mursi nel giugno 2012.
Le restanti liste sostenute da partiti sono: Per amore dell’Egitto di Sameh al-Yazal, un altro conservatore, e Chiamata salafita sostenuta da al Nour e dai copti (salafiti e cristiani insieme per entrare in Parlamento). I grandi assenti, che continuano a praticare il boicottaggio, sono i Fratelli Musulmani, e altre formazioni islamiche moderate come Egitto forte di Aboul Fotouh, politico dissidente dalla Fratellanza e ormai autonomo già da tre anni. Boicottano le urne anche i salafiti di Hizb al-Watan. Nel primo turno, che sta registrano uno scarso afflusso ai seggi, si vota in 14 governatorati fra cui Giza (alle porte del Cairo, da sempre roccaforte della Brotherhood), Alessandria, Mar Rosso, Marsa e nell’Egitto profondo:  Aswan e Luxor. Tredici i governatorati coinvolti a novembre con in testa la popolosissima capitale e le calde aree di Port Said, Suez, Ismailia, Nord e Sud Sinai. La limpidezza del voto non è mai stata una prerogativa della nazione, sono previsti osservatori e proprio lo staff presidenziale è impegnato a offrire un’immagine tranquillizzante sia per un regolare accesso ai seggi, sia per operazioni di voto e scrutinio. Chi boicotta sostiene che si tratta dell’ennesimo show di falsa democrazia, mentre il jihadismo può cercare l’attentato dimostrativo.