Continuano a chiamarli “danni collaterali” e
continuano a farne a centinaia e migliaia. Ma quei danni hanno nomi come
Mohammed, Ali, Noor, Pari. Uomini e donne, ragazzi e ragazze. Bambini. Dai
settant’anni (chi li supera fra gli afghani rappresenta un’eccezione) a chi di
anni ne ha appena uno o pochi mesi. Muoiono sotto le bombe, ma per i generali
del North Atlantic Treaty Organisation,
i liberatori, i poliziotti del mondo “l’inciampo” come quello che fa bombardare
dai propri caccia un ospedale di Medecins
sans frontières a Kunduz, nell’area settentrionale d’un Paese soggetto da
quattordici anni alle proprie attenzioni, è un’inezia. Cosa sono nove morti,
fra i civili, anzi fra civili già feriti e lì ricoverati, di fronte a una
missione di sicurezza geopolitica? I media devono tralasciare certe notizie,
quelli amici o embedded non le considerano importanti. Infatti negli ultimi tre
anni, seguendo la linea del presidente Obama hanno parlato esclusivamente di
exit strategy e di riduzione del numero dei militari. Non si cita affatto
alcuna riduzione di simili “danni collaterali”, cioè dell’uccisione di gente
comune, che seguita a sopravvivere e morire sotto le bombe delle fazioni in
lotta. Come e più di trent’anni or sono.
Le tragiche cronache locali da giorni
riferiscono della prova di forza talebana sull’importante snodo viario del nord
Afghanistan, delle difficoltà di risposta dell’esercito di Ghani,
dell’indispensabile intervento di terra e aria dei militari Nato per
riprendersi qualche centinaio di metri quadrati in centro città e non dare la
sensazione di diffusa impotenza. Della propaganda forzosa con cui Tolo tv e altre fonti divulgavano note
non veritiere sul “completo controllo
della città da parte dell’Afghan National Army”, mentre i talebani tengono
tuttora sotto tiro zone periferiche di Kunduz, due dei tre accessi da cui erano
entrati in città lunedì scorso e impediscono l’utilizzo dell’aeroporto. Si son
viste anche immagini di guerriglieri alla guida di ambulanze, probabilmente per
il trasporto di propri feriti. Perciò la mezz’ora di ferro, fuoco ed esplosivo
- sì, trenta minuti trenta - con cui la Nato ha colpito e devastato l’ospedale
in questione potrebbe rappresentare una punizione verso quei medici che
ovviamente soccorrono ogni vittima di conflitti a fuoco, talebani compresi. E’
già successo a MSF, com’è accaduto a Emergency e Gino Strada ha pubblicamente
rivendicato quella pratica.
Cosa scontatissima per un dottore, ma per questo
genere di conflitti non conseguenziale. E la cosa fa onore a Strada, al suo
staff, a quello dei Medici senza Frontiere o di altre strutture sanitarie che
strappano alla morte feriti di guerra. Ripetiamo: si tratta di un’ipotesi, che
andrebbe indagata. Però nessuno dei generali dell’occupazione che ora si chiama
Resolute Support ammetterà mai un simile
piano. E nessuno potrà investigare, soprattutto le istituzioni afghane (governo
e magistratura) tenute a guinzaglio dai protettori d’Oltreoceano responsabili di
questa perpetua, oppressiva, presenza. Noi che ne scriviamo abbiamo – un po’ come
il Pasolini sullo stragismo italiano - il sospetto; ci mancano le prove. Seppure
prove fondate di cinismo e disumanità - altro che missioni di pace - sono state
le operazioni Enduring freedom e Isaf che di vittime, solo civili, ne hanno prodotte
a decine di migliaia. E si preparano a riaprire il buco nero della morte dal
cielo, visto che il controllo del territorio che la Nato sta facendo coi suoi
uomini prevede esclusivamente avieri o i piloti di terra, orientatori di droni.
E’ l’ennesimo sporco intervento già corso, cui partecipano anche reparti
italiani, ma non se ne parla.
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