Nel Belpaese dei tutti resistenti e dei troppi cuori neri, ricordare i partigiani è da sempre operazione sopportata più che supportata. Anche dagli addetti ai lavori con cariche ufficialissime e blasonate. Troppa ingerenza del partitismo che deve sopravvivere e convivere, perché l’esistenza prosegue e l’Italia sempre deve ricomporsi nell’unità delle ipocrisie. All’epoca rinasceva antifascista con tanti fascisti dentro, mica solo fra le Forze della forza, ovunque. E per un Gentile passato per le armi, tanti teschi neri si ritrovarono graziati, promossi, sostenuti nella Repubblica nata dalla Resistenza. Finanche Graziani. Si potevano invertire i destini del maresciallo e del filosofo, ne avrebbe guadagnato in parte la Cultura, rigida e inamidata sì, ma con la maiuscola. Invece largo alla canaglia, quella più becera e quella in doppiopetto diventata presto bombarola, sotto la guida dei nostri protettori d’Oltreoceano che gli trovava un lavoro, da sgherro o da spia, ché ben gli riusciva. Poco più tardi se ne preparava l’impegno primario: essere i ‘gladiatori’ nella Guerra Fredda, ovviamente sul versante anticomunista. Ma i partigiani - che il 25 Aprile 1945 erano diventati (sulla carta) 250.000, con altri 400.000 che pretendevano di esserlo - mentre furono meno della metà, centomila o poco più, d’ogni colore politico certo, pur con la preponderanza garibaldina - quei partigiani, dicevamo, che perseguivano gli ideali belli rimasero in pochi. Al di là dei nomi noti, di qualche padre nobile d’una Costituzione restata carta, in tanti conobbero esclusione, indifferenza, oblìo. La prima dimenticanza – voluta – dell’Italia nuova, era quella di non fare i conti col passato fascista, con la mentalità sopraffattrice, vischiosa, opportunista. Forse avrebbe potuto essere rieducata, nonostante e ben oltre l’amnistìa togliattiana, invece non se ne fece nulla. Il mondo correva, la vita continuava ed era grama per tanti, anche per chi aveva rischiato la pelle in montagna e in città, per chi non era finito come Romolo Jacopini e Dante Di Nanni. I partigiani, le partigiane di quelle giornate dure e splendide, rientravano nell’anonimato, senza alcun potere, senza nessuna pretesa, da semplici cittadini come doveva essere, ma in troppi casi da cittadini marchiati, emarginati, costretti a nuove clandestinità. Affrontavano la realtà da generosi. Coi volti emaciati e sfibrati dai trascorsi mesi di lotta, coi sorrisi increduli d’avercela fatta, coi pugni stretti. Con la dignità più alta davanti a una nazione matrigna che già li tradiva.
C’è poi l’annosa contesa con l’Etiopia sulla gestione delle acque del Nilo, ne è coinvolto anche il Sudan. Le dighe fatte costruire da Addis Abeba e l’enorme da poco inaugurata - Grand Ethiopian Renaissance Dam - sul Nilo Azzurro sta riducendo il flusso d’acqua a disposizione dei Paesi a valle attraversati dal grande fiume. La diatriba fra le parti coinvolge da tempo l’Assemblea Generale dell’Onu, il suo Consiglio di Sicurezza e la stessa Unione Africana che poco hanno potuto vista la rigidità di ciascun contendente. Finora, dunque, nessun accordo, gli egiziani si richiamano a patti coloniali (1929) e post (1959) in base ai quali Il Cairo si appropriava di oltre il 60% delle acque. Gli etiopi ovviamente disconoscono quei patti e con la mega diga, per ora funziona all’80% delle potenzialità, si stanno garantendo uno straordinario impianto idroelettrico che ne risolve le necessità energetiche. A loro dire un riequilibrio, visto che sul fronte dell’energia l’Egitto può contare dei giacimenti di gas scoperti nel Mediterraneo e lucrarci su. Ma accanto al flusso delle acque il sistema produttivo agricolo egiziano da decenni non riceve impulsi né sostegni. Quello del fellah (contadino) è diventato un mestiere per disperati. La lobby militare ha diversificato i suoi affari, preferisce importare derrate e vendere metano, sebbene per estrarlo dalle proprie Zone Economiche Esclusive, di cui la riserva Zohr è la cassaforte più preziosa, ha bisogno dell’intervento tecnologico dell’Eni. Poi ci sono investimenti nei resort vacanzieri sul Mar Rosso, le joint-venture con ditte edili saudite per la creazione di città nel deserto, come New Cairo la nuova capitale a cento chilometri dall’attuale, i residence previsti in pieno centro del Cairo, sull’isola di Warraq, dove gli sfratti e le demolizioni di abitazioni povere devono fare spazio a Horus, un avveniristico hub per il turismo di lusso. Sono le contraddizioni in cui si dibatte un Paese che sfiora i cento milioni di abitanti e torna a fare i conti con cogenti bisogni di cibo, come nel secolo scorso. Per questo il governo avanza richieste al Fondo Monetario Internazionale: 11 miliardi di aiuti, prevalentemente alimentari, mentre le casse statali tengono alte le quote per gli armamenti: nove i miliardi di euro impiegati per fregate Fremm e sistemi elettronici forniti dall’Italia, quasi quattro per i Rafale francesi.
Primavera di sangue in Afghanistan. Dopo la scuola del quartiere hazara Kabul due giorni fa, sei morti diciassette feriti, oggi giungono notizie di altri tre attentati. A Mazar-e Sharif, capoluogo della provincia di Balkh, dove le voci ancora precarie sono allarmanti. Alle cinque vittime conteggiate in un primo momento se ne aggiungono altre, troppe. Si parla di trentuno cadaveri. Lo annuncia un dispaccio del distretto ospedaliero Ali Sina-e Balkhi che cita anche ottantuno feriti. Tutti quei corpi straziati pregavano nella moschea Seh Dokan. Bomba anche nella provincia di Kunduz, mancano informazioni dettagliate su persone e cose colpite. Una terza esplosione si è verificata ancora una volta nella capitale, fortunatamente senza uccidere nessuno, si contano due bambini feriti. E’ il disegno mortuario dell’Isis-Khorasan che prende corpo. Dopo aver orgogliosamente rivendicato le Ied seminatrici di morte a Dasht-e Barchi di martedì scorso le milizie afghane dello Stato Islamico si attribuiranno le odierne stragi, lanciando un duplice messaggio. In prima battuta alla travagliata popolazione cui dicono: abbiate timore, non sentitevi al sicuro con l’Emirato talebano, aderite al sogno del Califfato che non ha confini e non è affatto tramontato. L’altro avvertimento è ai miliziani al potere: possiamo colpire e destabilizzare la comunità che volete governare come e quando vogliamo. La sanguinaria linea di confronto fra i due schieramenti è vecchia di almeno un quinquennio, quando i taliban ortodossi attaccavano il governo fantoccio di Ghani e i dissidenti, che iniziarono a utilizzare la sigla del Khorasan, si contendevano a suon di esplosioni fette di territorio afghano. Tanto per dimostrare chi controllava e cosa, s’imponevano ai governatori ufficiali che ricoprivano cariche ma non gestivano alcun potere. I loro reparti dell’Afghan National Army erano attaccati in continuazione, per sbarcare il lunario e salvare la pelle dovevano restar chiusi nelle caserme, province e vie di comunicazione erano sotto la vigilanza dei nuclei talebani e in alcuni casi degli uomini del Khorasan. Nella corsa alla frantumazione del feticcio di uno Stato senza Stato la galassia talebana maggioritaria ha avuto la meglio, Akhundzada aveva aggregato anche il turbolento clan Haqqani e Mohammad Yacoob, il figlio del mullah Omar. Dopo la presa di Kabul ha fatto di più: ha assegnato a quest’ultimo il ministero della Difesa e quello dell’Interno a Sirajuddin Haqqani. Uomini di fuoco non solo ideologico, soggetti preparati sul campo e determinati. Eppure dallo scorso novembre la sicurezza per le strade delle città afghane è precaria. Nel Paese non c’è più guerra, ma neppure pace, il controllo del territorio che aveva angosciato i governi filoccidentali oggi diventa l’incubo dell’Emirato. Minato probabilmente dall’interno, dagli ex fratelli talebani che seguono una diversa via, se utopica come quella conosciuta fra Siria e Iraq è tutto da verificare. Certamente disgregatrice, sicuramente costellata di morte d'incolpevoli civili.
Nella prima mossa da premier non più del Punjab ma dell’intero Stato, Sharif ha guardato all’Oriente vicino, vicinissimo, quello travagliato della storia recente. Così ha sorriso a Narendra Modi ringraziandolo per le congratulazioni ricevute dopo l’incarico. Nel caos internazionale, che dai conflitti bellici in Ucraina riverbera tensioni economiche mondiali, cercare sponde prossime gli deve sembrare più semplice che azzardare partnership globali. Diviso fra Russia e Cina, la prima per l’energia, l’altra per i capitali d’impresa, il Pakistan continua a gravitare per questioni di sicurezza sotto lo scudo americano. E il grido del premier disarcionato, reale o inventato che sia, è rivolto contro gli Usa che avrebbero favorito un ricambio di vertice a Islamabad. Nell’oceano dei giganti della politica Shehbaz ha teso la mano a quello meno strutturato, ma così prossimo da potersi forse intendere su una questione antica e annosa che aveva provocato tre guerre (1948, 1965, 1971): il Kashmir. La soluzione pacifica per quella terra cui chiama il neo primo ministro pakistano rappresenta sicuramente un’àncora per lui che vuole impostare la leadership sul dialogo. Anche il fratello Nawaz si faceva immortalare mano nella mano con Modi negli incontri del 2014. Quelli, però, erano gli esordi del capo di governo indiano, che, anno dopo anno, sono diventati meno tranquillizzanti per la crescente influenza dell’hindutva sul Bharatiya Janata Party. Questo radicalismo, come altri nazionalismi globali, punta sulla conflittualità non lasciando spazio ad alcuna diplomazia. Sharif da buon affarista sa che il business è più agevole con la pace e punta alla distensione con Delhi. Però Modi è in scadenza di mandato e un politico in predicato di sostituirlo, Yogi Adityanath, il monaco appena riconfermato guida nell’Uttar Pradesh, non è affatto un predicatore tranquillo.
Insomma due versioni differenti contraddittorie, mentre il fratello Omar dichiarava che procuratore e autorità di sicurezza fino a sabato scorso sostenevano di non sapere dove fosse l’uomo. Alcune settimane dopo la sparizione di Hadhouse e la dichiarazione del fermo poliziesco la famiglia era a conoscenza del ricovero presso il nosocomio per 45 giorni. I parenti si sono anche rivolti a Esmat Sadat, capo del partito di cui Ayman era membro. Il fratello Omar ha consegnato al leader una documentazione che è stata girata al magistrato. Inoltre amici della famiglia hanno rivelato che gli Hadhouse hanno richiesto in più occasioni di far visita al ricoverato, ma inutilmente: la richiesta veniva sempre respinta. Fino alla recente telefonata che annunciava l’avvenuto decesso. Uno dei pochi organi d’informazione ad aver diffuso il caso è Mada Masr, mentre il Consiglio Nazionale dei Diritti Umani del Cairo ha tenuto un incontro nel quale ha raccolto le poche informazioni ricevute dagli organi di sicurezza e giustizia competenti. Sul cadavere sarebbe stata predisposta un’autopsia, però non si sa di più e se accerterà realisticamente cos’è accaduto al ricercatore. Intanto la rete informale sui social si dispera e denuncia: queste le accorate domande di un’attivista su Facebook: “Perché? Perché è stato trattenuto? Chi l’ha nascosto e perché? Chi l'ha ucciso? Perché avrebbero dovuto ucciderlo? Perché l'hanno nascosto? Abbiamo saputo solo che l’avevano ricoverato in un ospedale psichiatrico senza ordinanze del tribunale; perché avrebbero dovuto farlo? Ayman era un grande scienziato sociale, un fantastico ricercatore e analista. Il suo lavoro sull'innovazione sociale ed economica è stato sorprendente e basato sulle prove. È stato una risorsa enorme per le comunità accademiche egiziane e internazionali”.