venerdì 22 aprile 2022

Egitto, il bisogno di pane l’acquisto di armi

Sarà il grano proveniente dai campi indiani dell’Uttar Pradesh, Madhya Pradesh, Punjab, Haryana, Bihar, Gujarat a sfamare, fra gli altri, gli egiziani? Il mese scorso il prezzo del pane (aish) è salito a 11.20 pound egiziani al chilogrammo (0,57 dollari), imbarazzato il primo ministro Madbouly ha sostenuto che davanti alle carenze di approvvigionamento causate dal conflitto in Ucraina gli aumenti diventavano inevitabili. Gli ultimi dati sulle importazioni egiziane risalgono al 2020, l’anno dell’avvìo della pandemia di Covid-19. Per un alimento base come il frumento le cifre s’aggiravano su 1.8 miliardi di dollari annui per l’acquisto dalla Russia e 600 milioni di dollari dall’Ucraina, gran parte di queste importazioni non sono proponibili per l’anno in corso. I cereali rappresentano un elemento base della nutrizione del popoloso Paese arabo che risulta fra i maggiori  importatori di grano al mondo. La guerra in Ucraina mette in crisi anche le scorte dell’olio di girasole, fornite in buona parte da Kiev. Tali notizie circolano sulla stampa estera, quella interna sceglie di non trattare l’argomento, ma la popolazione ha sotto gli occhi carenze, aumenti dei prezzi e un’inflazione salita al 20% con tanto di lamentele per via. Certo nessuna protesta in atto, tanta la paura di finire immediatamente fermati e arrestati, com’è accaduto alle ultime lotte di lavoratori. L’accresciuto acquisto d’un prodotto base che vedeva fino a qualche decennio addietro l’Egitto autosufficiente pone sotto i riflettori le contraddizioni economiche degli ultimi regimi del Cairo. Già dai tempi di Mubarak l’agricoltura risultava abbandonata a se stessa. Le Forze Armate tenutarie ed esse stesse imprenditrici di ampie zone fertili attorno al Nilo si erano rese protagoniste di lottizzazioni selvagge a fini speculativi. Noti gli episodi in cui erano coinvolti i rampolli del raìs e il generale dell’aeronautica Shafiq, che nel 2012 si misurò con Morsi perdendo la corsa alla presidenza.


C’è poi l’annosa contesa con l’Etiopia sulla gestione delle acque del Nilo, ne è coinvolto anche il Sudan. Le dighe fatte costruire da Addis Abeba e l’enorme da poco inaugurata - Grand Ethiopian Renaissance Dam - sul Nilo Azzurro sta riducendo il flusso d’acqua a disposizione dei Paesi a valle attraversati dal grande fiume. La diatriba fra le parti coinvolge da tempo l’Assemblea Generale dell’Onu, il suo Consiglio di Sicurezza e la stessa Unione Africana che poco hanno potuto vista la rigidità di ciascun contendente. Finora, dunque, nessun accordo, gli egiziani si richiamano a patti coloniali (1929) e post (1959) in base ai quali Il Cairo si appropriava di oltre il 60% delle acque. Gli etiopi ovviamente disconoscono quei patti e con la mega diga, per ora funziona all’80% delle potenzialità, si stanno garantendo uno straordinario impianto idroelettrico che ne risolve le necessità energetiche. A loro dire un riequilibrio, visto che sul fronte dell’energia l’Egitto può contare dei giacimenti di gas scoperti nel Mediterraneo e lucrarci su. Ma accanto al flusso delle acque il sistema produttivo agricolo egiziano da decenni non riceve impulsi né sostegni. Quello del fellah (contadino) è diventato un mestiere per disperati. La lobby militare ha diversificato i suoi affari, preferisce importare derrate e vendere metano, sebbene per estrarlo dalle proprie Zone Economiche Esclusive, di cui la riserva Zohr è la cassaforte più preziosa, ha bisogno dell’intervento tecnologico dell’Eni. Poi ci sono investimenti nei resort vacanzieri sul Mar Rosso, le joint-venture con ditte edili saudite per la creazione di città nel deserto, come New Cairo la nuova capitale a cento chilometri dall’attuale, i residence previsti in pieno centro del Cairo, sull’isola di Warraq, dove gli sfratti e le demolizioni di abitazioni povere devono fare spazio a Horus, un avveniristico hub per il turismo di lusso. Sono le contraddizioni in cui si dibatte un Paese che sfiora i cento milioni di abitanti e torna a fare i conti con cogenti bisogni di cibo, come nel secolo scorso. Per questo il governo avanza richieste al Fondo Monetario Internazionale: 11 miliardi di aiuti, prevalentemente alimentari, mentre le casse statali tengono alte le quote per gli armamenti: nove i miliardi di euro impiegati per fregate Fremm e sistemi elettronici forniti dall’Italia, quasi quattro per i Rafale francesi.     

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