Dopo due mesi di proteste represse nel sangue di
quattrocento vittime il discusso primo ministro iracheno Adel Abdul Mahdi
lascia l’incarico. Lo fa a seguito della predica del venerdì della massima
autorità sciita del Paese, l’anziano ayatollah Ali Sistani, che ha “suggerito”
al Parlamento di riconsiderare quel mandato. Forse una spinta ulteriore giunge
anche dal furore con cui gruppi di dimostranti il giorno precedente hanno
assaltato e incendiato il consolato iraniano a Najaf. Una furia geopolitica
della gioventù sunnita che non sopporta l’ingerenza dei consiglieri iraniani nei
confronti d’un governo a trazione sciita. In realtà Mahdi non appartiene a
quella cinghia di trasmissione che in passato aveva prodotto come guida
nazionale al-Maliki. Mahdi avrebbe dovuto mediare e proporre riforme, ma ormai
testimonianze lo indicano prigioniero di consiglieri cooptati direttamente da
Teheran, con l’uomo di ferro iraniano, il generale Soleimani, a far da sponda
fra le due nazioni per tutto l’anno in corso. Eppure, per ora, il timore d’una
spaccatura etnico-confessionale deve aver percorso la mente di un’autorità che
conta nella copiosa componente sciita della società irachena: Muqtada al-Sadr,
che col suo partito sosteneva il governo. Sadr, dopo la prima settimana d’una
protesta che portava in strada anche i suoi ragazzi, s’era smarcato
dall’appoggio a un Esecutivo sempre più traballante che ha cercato prima il contenimento
della piazza, usando l’arma di promesse
vaghe, poi è passato all’uso delle armi per conservare un potere contestato su più
fronti. Quello economico delle carenze addirittura alimentari, oltre ai servizi
e al lavoro. Quello delle libertà
personali e collettive praticamente inesistenti, congelate da una politica divisa
fra clan e ingerenze di potenze regionali, fino all’utopistica speranza giovanile
d’un domani diverso da quanto è invece rimasto bloccato dall’occupazione
statunitense all’attuale caos, che da tempo costituisce l’elemento più
apprezzato dagli Usa in Medio Oriente.
Non era solo la componente sciita, organizzata nel
partito Sairoon, a sostenere l’impasse incarnato da Mahdi; anche i kurdi dell’amministrazione
regionale nel nord iracheno lo volevano. Sicuramente irretiti dalla promessa di
risolvere a proprio favore la questione delle quote estrattive del petrolio e
dei proventi delle vendite in quella parte del Paese. Ma dalla ricchezza del
sottosuolo le finanze nazionali, da anni, non forniscono conforto ai molteplici
bisogni della popolazione che vive stremata in un sistema corrotto. Parecchi
analisti ribadiscono che trovare un’alternativa di premierato oggi appare impossibile. Una delle soluzioni poteva essere
indire nuove elezioni e vedere se uno dei blocchi politici più consistenti
fosse uscito dai seggi con appoggi maggiori tanto da lanciare un governo forte.
Però con le città in rivolta, e il rischio di scontri interconfessionali ed
etnici, l’ipotesi tramonta. Le cronache hanno fatto notare che proprio le
ripetute presenze del responsabile della sicurezza iraniana a Baghdad - da lui
giustificate come supervisioni per la sicurezza del suo Stato, in effetti
agitato da contestazioni nel mese di novembre - avevano incrementato la linea
durissima del governo sui manifestanti. Con decine le uccisioni nei giorni scorsi,
anche facendo uso di cecchini, proprio com’è accaduto in alcune località
iraniane. Intanto impazzano notizie, mezze notizie, informazioni segrete che
sono rimbalzate sino ai grandi media internazionali su operazioni giocate,
ciascuno sul suo versante dai “tutori” della situazione irachena: l’Intelligence
statunitense e quella iraniana. Entrambe in azione nel gestire a proprio favore
l’orizzonte dintorno. Conservando il caos per Washington e orientando il vicino
e un tempo nemico establishment di Baghdad verso una sorta di tutela da parte
iraniana, un po’ come accade per la Siria. E prima che l’Iraq, che pure dal
2003 non conosce pace e ha vissuto in casa il dramma Daesh, non scivoli in un
simile fratricidio. Ma si tratta di tutele pericolose, animate da interessi di
parte. Quelli che ricorrono dalla caduta di Saddam Hussein, che in fatto di
manipolazione e oppressione del popolo ne aveva fatte tante e sporche.