mercoledì 11 settembre 2024

Banca Mondiale, sguardo benevolo sull’Emirato afghano

 


Un rapporto della Banca Mondiale sull’attuale situazione dell’economia afghana quasi promuove l’emirato talebano rispetto alla nazione guidata da un elemento che proprio l’agenzia specializzata dell’Onu aveva formato: Ashraf Ghani. In virtù di tale orientamento un altro palazzo di Washington - la Casa Bianca - spinse Ghani verso la presidenza, visto che l’epoca del clan Karzai si concludeva sotto l’effetto di intrighi personali e familiari (scandalo della  Kabul Bank e morte violenta d’un fratello narcotrafficante protetto dalla Cia). Correva il 2014 e per la cronaca il percorso presidenziale di Ghani fu travagliato. Sebbene il suo ceppo tribale, gli Ahmadzai, avessero il benestare di altri clan pashtun, il rivale Abdullah Abdullah - padre pashtun, madre tajika - alla prima elezione gli diede filo da torcere, calamitando le preferenze dell’etnìa tajika alla quale apparteneva un Signore della Guerra considerato un eroe nazionale: Ahmed Massud. Ghani, nonostante il pedigree griffato Banca Mondiale e il benestare di Obama, trovò difficoltà nel praticare quella modernizzazione del Paese a suon di progetti pubblici e privati (dal Qosh Tepa Canal al gasdotto Tapi), alcuni proseguiti dopo il suo abbandono, altri congelati per interferenze internazionali. Forse per iper realismo, forse per disperazione nell’ultima fase della sua seconda presidenza Ghani cercò un contatto diretto coi turbanti, anche perché gli Stati Uniti brigavano per la propria ‘exit strategy’, ma il Gotha talebano lo snobbò. Loro trattavano coi suoi padroni, non tanto la Banca Mondiale quanto lo Stato Maggiore e la presidenza statunitensi; al “fantoccio di Kabul” non riconoscevano nulla. Gli concessero solo una precipitosa fuga dall’Arg, nel quale loro s’insediavano. Lui volò prima in Uzbekistan poi negli Emirati Arabi. E mentre in un video preregistrato spiegava i motivi di quella scelta “… non volevo dare ai taliban la soddisfazione di umiliare un presidente afghano”, venivano rivelati alcuni aspetti del fulmineo addio: un set di valigie della dimensione d’un divano in cui aveva stipato milioni di dollari. Accaparramenti forse superiori a quelli del predecessore-usurpatore. Con simili premesse non ci sarebbe da stupirsi se l’economia interna, che pure sotto la spinta dell’embargo occidentale tuttora in atto ha conosciuto una fase di travaglio per l’intero 2022, mostri un orizzonte piatto. 

 

Eppure scrive la Banca Mondiale: nonostante la mancanza di domanda di beni e servizi nei settori pubblico e privato, sebbene i consumatori si mostrino riluttanti verso gli acquisti in previsione di ulteriori cali di prezzi (nel primo anno di governo l’Emirato aveva imposto una riduzione del costo dei generi alimentari per limitare la sottonutrizione della popolazione) si registrano opportunità di lavoro per centinaia di migliaia di persone nel settore minerario, agricolo, infrastrutturale, artigianale, puntando anche sull’occupazione casalinga. Quest’ultima, nel caso di filati e tessuti coinvolge la manodopera femminile, bloccata all’esterno dalle famigerate norme restrittive della ‘legge islamica’, ma operativa fra le pareti domestiche. Così i dati dell’esportazione a fine 2022 con 1,9 miliardi di dollari risultavano ben superiori al quinquennio 2016-21 (0,8 miliardi). L’aumento ha riguardato i settori alimentare e tessile, mentre l’esportazione di carbone registrava un calo, tutti i flussi commerciali erano rivolti principalmente al Pakistan. Ovviamente la cessazione delle ostilità ha favorito un rilancio della produzione agricola in varie province e l’intento di taluni ministeri sensibili in materia di sicurezza, pur tollerando e coprendo l’andirivieni di talebani pakistani in conflitto col proprio governo, ha cercato d’imporre ai ‘fratelli di fede politica’ un comportamento che non inficiasse le relazioni mercantili con Islamabad. Se da una parte nel 2023, e anche nell’anno in corso, le importazioni e le necessità afghane risultano elevate a seguito della cospicua diminuzione degli aiuti umanitari (che a fine 2021 avevano creato un’emergenza per la sopravvivenza di milioni di cittadini), dall’altra le autorità mantengono  uno stretto controllo sulla fuga di capitali, prevenendo il contrabbando di dollari, davanti alle difficoltà interne di coniare nuova moneta che porta a sopravvalutare l’afghani. Altra nota favorevole: dal marzo 2023 al marzo 2024 il servizio preposto alle entrate fiscali è aumentato del 9%, grazie a ciò risultano aumentati i salari d’un tipo d’occupazione statale ancora assai diffusa, quella della sicurezza fornita da polizia, esercito, Intelligence. 

 

Dopo l’encomio la Banca Mondiale lancia un allarme: questo modello di spesa risulta insostenibile, serve al governo ma non genera proventi, un andamento ben conosciuto dalle presidenze del periodo pre-talebano sulle quali piovevano una quantità spropositata di miliardi dirottati in gran parte sulla sicurezza. Si suggerisce un cambio di passo, sebbene così facciano tutti a Ovest e a Est. Riprende fiato - e denaro - poiché i turbanti non l’hanno lasciato cadere, il progetto del canale Qosh Tepa, che deviando le acque del fiume Amu Darya può irrigare vasti terreni agricoli. Uzbekistan e Turkmenistan, che finora usavano una buona fetta della portata idrica dell’Amu Darya e che dovrebbero rinunciare all’esclusiva, non hanno finora contrastato la ripresa dei lavori stimati attorno ai 70 milioni di dollari. Rispetto al ventennio 2001-2021 privo di opere pubbliche, l’iniziativa diventa un fiore all’occhiello dell’Emirato, tanto da pompare una propaganda che dice: meno fondi rispetto all’epoca della ‘Repubblica democratica’ ma molti investimenti su sicurezza e servizi. Lo conferma anche Washington. Su un particolare prodotto degli altopiani afghani, il papavero da oppio, bisognerà vedere se prevarrà la stretta ideologica dei tempi del mullah Omar che ne vietava la coltivazione o il compromesso con un mercato che ovunque nel mondo fa salire la richiesta. Per tutto il 2022 e 2023 il governo ha vietato la semina, gli agricoltori e le casse statali hanno perso 1,3 miliardi di dollari di entrate. Gli esperti del settore ricordano che dopo la lavorazione la pasta di oppio si conserva egregiamente, dunque chi aveva scorte dei raccolti precedenti al nuovo corso governativo li ha immessi sul mercato. I rapporti degli anni passati - non solo della Banca Mondiale, ma dell’agenzia anti droga dell’Onu (Unodc) – rammentano come almeno il 15% del Pil afghano derivava dalla produzione e commercio di oppiacei, per qualsiasi governo è difficile rinunciare a queste entrate. Insomma nella ‘quasi promozione’ che l’istituzione di Washington fa della gestione economica di Akhundzada e soci c’è la considerazione che un riconoscimento internazionale dell’Emirato, lo stop alle sanzioni, lo svincolo delle transazioni bancarie, un ripristino di aiuti umanitari in cambio della fine di restrizioni su lavoro e istruzione per le donne e un forte ridimensionamento di spesa per esercito e polizia incrementerebbero ulteriormente la salute economica afghana. Proprio così. Alla Banca Mondiale basta questo.

giovedì 5 settembre 2024

Sisi-Erdoğan, tempo di abbracci

 


Stretti come non mai, non solo nel caloroso saluto all’aeroporto di Ankara, i presidenti egiziano Al Sisi e turco Erdoğan si sono rivisti dopo l’apertura fra i due Paesi sancita dalla visita al Cairo dello scorso febbraio che già cancellava dodici anni di polemiche e ghigni ostili. In mezzo la fase delle “primavere arabe”, la loro repressione che ha visto la lobby militare egiziana imporre un proprio uomo, cancellando nel sangue la parentesi della presidenza Morsi, con l’aggiunta della persecuzione della Fratellanza Musulmana e d’ogni raggruppamento politico interno. Erdoğan, che in un primo periodo aveva tuonato contro la sopraffazione subìta dai militanti islamici e chiuso i rapporti con la grande nazione araba, ha nel tempo modulato gli orientamenti esteri. Dal fronte siriano, che lo contrapponeva ad Asad appoggiando i rivoltosi islamisti, compresi gruppi jihadisti pro Isis, a quello libico dove fra truppe regolari e mercenarie l’appoggio alle bande interne ha visto un’altalena di competizione-accordo-concorrenza riguardo a conflitti e alleanze con le strategie estere di Putin. La linea turca cerca di non mollare l’influenza nel Mediterraneo orientale e nel vicino Medioriente, dove la recente guerra di Gaza che coinvolge il sud del Libano ha prepotentemente rimesso al centro la forza regionale iraniana. Sisi, dopo aver consolidato con uccisioni-sparizioni-carcerazioni il controllo interno, s’è proposto fuori di casa come guardiano dell’infuocata area attorno alla Striscia. E’ stato accontentato dall’Occidente aderendo al blocco autoritario regionale che ha nei progetti sauditi ed emiratini - progetti a 360° compresi quelli securitari e militari - un perno utile alla linea di controllo anti iraniana. Nel gioco delle parti fluttuante e dinamico, la Turchia, erdoğaniana e bahçeliana, senza voltare le spalle alla Nato cerca di far sopravvivere  un’alleanza di governo, offrendo l’immagine d’una nazione potente che piace alla maggioranza dei concittadini. Dunque, meno ideologia e più sostanza. Che per le strettoie economiche vissute nell’ultimo triennio, fra formule anti inflazione eterodosse su cui s’è incaponito il presidente, ha necessità di ripresa. Negli ossequi e sorrisi di circostanza dei leader ci sono accordi commerciali, investimenti energetici (attorno al giacimento Zohr), i sempre presenti armamenti (i droni da guerra Bayraktar) e nuove rotte di trasporti e turismo. Piccoli fiati se si guarda la macro economia, ma ai due sta bene così, per passare dai dieci ai quindici miliardi di dollari d’affari nel prossimo quinquennio. Augurandosi lunga vita biologica e politica. Fra l’altro, visto che tutto scorre e cambia, se mai ne dovesse avere bisogno Erdoğan riceverà i buoni uffici dell’omologo egiziano per inserirsi nell’assise dei Brics, che all’iniziale adesione del 2009 di Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica, da cui l’acronimo, ha visto aggiungersi Egitto, Iran, Arabia Saudita, Emirati Arabi, Etiopia. Proprio così: quel che la geopolitica blocca, la geoeconomia sdogana. Mentre il fronte europeo e il suo membro più illustre, la Germania, che si lecca ferite economiche e d’instabilità elettorale, possono meditare sui grandi rifiuti posti per oltre un decennio da Angela Merkel,  e di recente dai suoi epigoni, all’ingresso turco nella Ue.    

martedì 3 settembre 2024

L’altro Israele impotente e connivente

 


Nella meticolosa e reiterata cronaca sul malessere di centinaia, migliaia, decine di migliaia e forse più israeliani verso il governo Netanyahu, la stampa liberal di quel Paese e di ulteriori sponde, ripropone l’immagine dell’altro Israele che s’oppone all’uomo dal ghigno e dal muscolo sempre tesi un po’ contro tutti: i palestinesi considerati terroristi, gli americani tutori inaffidabili, certi alleati e ministri di casa, parecchi concittadini. L’attuale Primo Ministro, che dal 1996 di esecutivi ne ha inanellati ben sei, viaggia sul vento elettorale che vede il suo partito (Likud) vincere e rivincere consultazioni e formare alleanze governative sempre più feroci e oltranziste a braccetto delle componenti più retrive della Knesset. Del resto talune forze un tempo vicine all’ineffabile Bibi, come Israel Beitenu del moldavo Lieberman - suo pluriministro di Esteri, Difesa, Trasporti, Infrastrutture, Affari Strategici - fra le proprie strategie meditavano ed esplicitavano quella ‘pulizia etnica’ verso la componente araba della regione, dentro e fuori Israele. Con tale disegno parecchie figure politiche, militari e anche intellettuali concordano. Però chi osa definire razzista quel progetto riceve immediatamente il marchio di antisemita, come peraltro accade a qualsiasi critica rivolta a Israele. Indubbiamente nello Stato ebraico che la maggioranza vuole per i soli ebrei, esistono voci di dissenso, contro Netanyahu, contro il Likud e magari contro l’operato dell’Idf e del Mossad, ma sono voci della strada, senza responsabilità né eco politiche. 

 

Fra esse le grida più roboanti e disperate in questi mesi sono quelle dei parenti dei prigionieri in mano a Hamas sulla cui sorte pesano gli accordi di scambio che solo in rarissimi caso hanno raggiunto il buon fine della liberazione. Queste persone urlano e denunciano le nefandezze del premier, riempiono le vie di Tel Aviv, ricevono solidarietà per il tormento dei propri cari, recriminano sull’insensibilità del primo cittadino d’Israele, chiedendo la liberazione di fratelli e sorelle ostaggi d’un tragico braccio di ferro. Quasi mai allungano lo sguardo sulla strage che il proprio Stato compie sui due milioni di ostaggi inermi che abitano la Striscia. Tale paradosso è l’immagine di Israele. Anche chi contesta il governo in carica lo fa per interessi diretti: per i parenti che rischiano la vita o per il pericolo corso dalla giustizia piegata a interessi politici, nel caso della riforma proposta nei mesi scorsi. Quasi nessuno ha criticato la linea incarnata anno dopo anno, decennio dopo decennio da ciascuno dei trentasette governi di Tel Aviv sulla questione palestinese, che significa spoliazione dei diritti d’un altro popolo fino alla sua totale oppressione. E’ storia conosciuta anche dai bambini, perché coinvolge soprattutto bambini. Espulsi coi genitori da terra e case, soggiogati, umiliati, straziati con massacri che tanto somigliano ai pogrom che la Storia ebraica giustamente addita e non vuol dimenticare. Fra i bambini d’un tempo ci saranno stati Haniyeh e Sinwar, diventati combattenti (terroristi per la stampa mainstream) in funzione del passato che hanno conosciuto. 

 

Eppure il doppio binario e la doppia morale non albergano solo nelle strategie dell’Israele di governo, e in tal senso destra e sinistra non hanno differenze se si pensa da dove venivano Golda Meir e Moshe Dayan fino a Rabin e chi l’ha seguìto, oggi che il laburismo interno è ridotto al 3% dell’urna. E’ il medesimo altro Israele che polemizza con Israele a non sapere come smontare le mostruosità costruite in cent’anni e più di sionismo, e ora anche di sionismo religioso, e militarismo, colonialismo, discriminazione razziale, fondamentalismo confessionale, aberrazioni sulle quali molti contestatori di Netanyahu soprassiedono guardando altrove. In questa fase guardano sgomenti i propri morti, gli ultimi arrivati con le feroci esecuzioni di Hamas che risponde col terrore al terrore diffuso dal nemico. In questa spirale l’altro Israele annaspa due volte. La prima, perché non riesce a imporre nulla all’Israele maggioritario che offre a fanatici come Ben-Gvir leve di comando sulla Sicurezza nazionale, che istituzionalizza un ministero per insediamenti che il mondo considera illegali. La seconda, perché a piangere il giovane Hersh, giungono a frotte di amici dell’area meridionale di Gerusalemme dove il ragazzo, descritto dalla mamma come “gentile, paziente, curioso”, viveva. Animo nobile ma come altri impotente. Lui non conoscerà Givat Shaked, la nuova colonia che s’appresta a soffocare Beit Safafa, l’ultima delle trecento dove Israele toglie aria e vita ai palestinesi di Cisgiordania. I suoi familiari e amici a lutto, avranno sotto gli occhi l’ennesima infamia, ma ricorderanno solo quella inflitta al proprio caro. E i racconti di morte e sopravvivenza conosceranno sempre un’unica ragione, la propria. Sostituendo fra loro i Netanyahu.

domenica 1 settembre 2024

Poliomielite a Gaza, quale futuro?

 


La recente conferma d’un caso di poliomielite riscontrata in un neonato della Striscia di Gaza vede i responsabili degli aiuti umanitari disponibili all’avvìo di una campagna di vaccinazione di massa nell’area. La campagna stessa potrebbe realizzarsi nell’arco di un paio di settimane, ma necessita di un totale cessate il fuoco che Israele non consente. Il segretario generale delle Nazioni Unite Guterrez ha dichiarato in queste ore che “il vaccino per la poliomielite è la pace e un cessate il fuoco definitivo. Ma intanto una pausa dalla poliomielite è d’obbligo”. Eppure tutto resta bloccato. La malattia è particolarmente contagiosa, la diffusione avviene per via oro-fecale con ingestione d’acqua e cibi contaminati o con la saliva e le classiche micro goccioline emesse tramite starnuti e tosse di soggetti ammalati e portatori sani.  Consentirne una diffusione nella Striscia significa introdurre un’ennesima bomba, assieme a quelle che da undici mesi piovono dal cielo, su una popolazione affamata, stremata, vagante in un esile spazio di macerie senza fogne e condutture d’acqua potabile distrutte, come ogni cosa, da Israel Defence Forces. E questa bomba sanitaria insiste anche sui confini egiziano e israeliano. A meno che il governo Netanyahu mediti anche questo genere di afflizione per “sradicare” Hamas e chi gli vive attorno. La polio, flagello virale a carico del sistema nervoso centrale che può condurre alla morte o lasciare gravi menomazioni motorie, ha un’incubazione rapida, da una a tre settimane, e non conosce cure. L’unica soluzione è il vaccino al quale contribuirono gli studi dei virologi Sabin e Salk. Attualmente due sono i Paesi dove continua a mietere vittime e tarare persone, soprattutto bambini nei primi anni di vita: Afghanistan e Pakistan. 

 

Nel primo serie campagne di vaccinazione risultavano difficili e travagliate a causa della guerra civile degli anni Novanta e della successiva instabilità conflittuale fra truppe Nato e insurrezione talebana, e ben poco aiuto giungeva da premier-fantoccio come Karzai e Ghani. Nel triennio dell’Emirato talebano la situazione non è cambiata. Il Pakistan, pur fra mille contraddizioni, ha varato dal 2013 un impegno per debellare la malattia. Non c’è ancora riuscito. Fino allo scorso dicembre risultavano distribuite trecento milioni di dosi, eppure il virus resiste. Nel 2015 si registravano 366 casi conclamati, scesi fino a una decina negli anni seguenti. Ma, ad esempio, nei primi otto mesi del 2024 i contagi risultano 16 e ovviamente ci sono contesti non monitorati. Le gocce salvavita degli addetti alle vaccinazioni non hanno vita facile. E neppure i somministratori, oltre cento di loro sono stati uccisi da gruppi talebani. Si sono registrate violenze e opposizioni, da quelle ideologiche di fondamentalisti che sostenevano come nel liquido ci fossero alcol o contaminazioni di cibo suino, alle ire di padri che in Occidente chiameremo ‘no vax’. A metà strada fra il sospetto e l’ignoranza un certo peso continua ad averlo il ricordo della falsa campagna anti-epatite promossa da organismi che facevano capo alla Cia, che nel 2010 battevano diverse aree alla ricerca di Osama bin Laden. Così si disse. E quella diceria, vera o falsa che fosse, ha tuttora eco e presa su certi strati di pakistani refrattari a cure sanitarie. I luoghi di confine - da Peshawar, città da decenni sede di decine di campi profughi e centinaia di migliaia di rifugiati, non solo afghani, a Torkhlam, ma pure a Levante Lahore - vivono maggiori condizioni di contagio dell’attuale ceppo indicato come YB3A, proveniente proprio dall’Afghanistan, per il via vai di mobilità, nomadismo e commercio. Comunque gli angeli dalle salvifiche gocce, intervistati in questi giorni da Al Jazeera, proseguono la propria missione: praticano fino a trecento vaccinazioni per un compenso di 2 o 3 dollari quotidiani percorrendo decine e decine di chilometri. Oppure incamerano 5 dollari per 9 ore.

mercoledì 21 agosto 2024

Bangla, il sogno della gioventù ribelle

 


Nei pronunciamenti pubblici, nelle interviste che hanno iniziato a concedere a diversi media internazionali i ‘ragazzi anti Hasina’ parlano di “cancellazione del sistema fascista di governo” e dell’immancabile “rivoluzione”. Concetti fortemente ideologici in un sistema internazionale che umilia qualsiasi riferimento alla mutazione dello stato di cose presenti. Eppure loro la vivono così la cacciata della dittatrice, quattro mandati consecutivi, più l’esecutivo degli anni Novanta per eredità politica, quella del suo papà e padre della patria Mujibur Rahman. Il più loquace è Asif Mahmud, attuale Ministro dello sport nel governo di transizione guidato dall’ottantaquattrenne già Premio Nobel Muhammad Yunus, indicato dai rivoltosi, accettato dai partiti storici, compreso l’ex governativo Amawi League e il nazionalista d’opposizione purché acquietasse le fiammate di piazza durate due mesi. Il neo premier è intervenuto a inizio settimana prospettando un impegno per ricomporre il Paese, spaccato proprio dalla polarizzazione di Sheikh Hasina. Non gli sarà facile convincere i protetti dall’ex primadonna riparata nell’India di Modi. Poche settimane prima era lei a definire teppisti gli universitari ribelli contro il sistema delle quote che inseriva automaticamente negli apparati statali gli epigoni della lotta per l’indipendenza del 1971. Accanto al privilegio che si faceva beffa di merito e capacità, la lady di ferro insinuava il presunto antipatriottismo dei contestatori. Li definiva amici dei pakistani, una bestemmia per ogni bengladese. Scarno nel fisico che potrebbe essere quello d’un maratoneta o d’un saltatore in alto il ministro Mahmud, forse non è così esperto di specialità atletiche, ma di giovani studenti sì. Viene dal campus di Dacca dove ha rintuzzato le aggressioni della League Chhatra, l’organismo giovanile dell’ex partito di governo scagliato paramilitarmente contro i rivoltosi.

 

Con la creazione, assieme ai suoi compagni, del ‘Movimento Studenti Antidiscriminazione’ ha espresso i presupposti per non disperdere la potenzialità dell’agitazione e convogliarla politicamente fuori dalla sfera dei partiti tradizionali, interessati alla gestione del potere, non alla trasformazione della società. E’ per cancellare il vuoto di futuro, ridurre lo spettro della disoccupazione che coinvolge circa venti milioni di giovani fra i 15 e i 25 che non studiano né lavorano e angoscia gli stessi suoi colleghi che dopo la laurea sono costretti (ma solo se la famiglia può pagargli la fuga) a migrare all’estero, che Mahmud e altri hanno formato lo spontaneo fronte anti regime chiedendo al ‘banchiere dei poveri’ di presiederlo. Una scommessa che sa di sogni paritari, emancipatori, una rivoluzione senza dittatura e contro i dittatori. Con Nahid Islam, che ha assunto la responsabilità dei Ministeri di poste, telecomunicazioni e informatica, Asif sostiene che si faranno da parte appena il governo provvisorio avrà raggiunto i primi obiettivi. Intanto è fra i più fotografati dei diciassette membri dell’Esecutivo-salva nazione. Eppure la notizia di questi giorni che il movimento pensi a trasformarsi in partito con cui affrontare in futuro i colossi nazionali, rimasti in questa fase a osservare gli eventi, confligge con gli intenti minimalisti del neo ministro dello sport. Certo è che la gioventù studentesca ribadisce i valori secolari e laici, ponendosi in netta antitesi con quell’eminenza grigia della politica interna che è Jamaat-e Islami. Partito filo-pachistano di per sé inviso ai bengladesi ma non al ceto storico. Proprio nei mesi scorsi prima delle elezioni vinte da Hasina, quest’ultima aveva ricevuto richieste di collaborazione dagli esponenti di quella formazione, decisamente minoritaria, comunque assai attiva. Li aveva ricevuti senza però stabilire accordi. Un gruppo spregiudicato visto che profferte simili le aveva rivolte anche al Partito nazionalista. Chiunque avesse vinto le elezioni era nel mirino degli islamisti del Jamaat, loro sì profondamente ideologici nella diffusione d’un fanatico wahhabismo.

domenica 18 agosto 2024

Turchia, ennesima aggressione in Parlamento

 


Non sappiamo quanto Alpay Özalan, ex calciatore del blasonato Beșiktaș di Istanbul, con cui una trentina d’anni addietro vinse uno scudetto e due Coppe di Turchia, facesse valere con colpi proibiti la sua stazza di corpulento difensore. Sicuramente da parlamentare del gruppo di maggioranza (Akp) la teorica sportività ha ceduto il passo al più belluino dei sentimenti: aggredire il collega dell’opposizione Ahmet Şik del Partito dei lavoratori che interveniva nel Meclisi protestando per l’espulsione dell’attivista e deputato Can Atalay. Quest’ultimo era stato condannato a diciotto anni di reclusione per le proteste del Gezi park (maggio-giugno 2013) e dal 2022 sta scontando la pena. Lo scorso anno comunque era stato eletto nella Grande assemblea turca e la Corte Costituzionale giudicava corretta la scelta invitando la magistratura a scarcerarlo per fargli svolgere attività politica. La maggioranza governativa (Partito della Giustizia e dello Sviluppo, Partito nazionalista e altri raggruppamenti minori) ha votato l’espulsione di Atalay dal Parlamento. Da qui la protesta del deputato Şik che mentre interveniva dal podio era raggiunto da Özalan, il quale con fare da picchiatore l’ha afferrato per la gola e sbatacchiato a terra. L’aggredito pur cercando di difendersi dal corpulento membro dell’Akp deve aver sbattuto, poiché i video sul triste episodio mostrano anche macchie di sangue in terra che gli addetti alla sala hanno immediatamente provveduto ad asciugare Nel frattempo dai banchi di governo e opposizione molti onorevoli si sono concentrati nel punto dell’assalto, il parapiglia è durato a lungo prima di venire sedato. Non è la prima volta che nel Meclisi si verificano scene da bazar, e sempre deputati dell’Akp si ritrovano nel ruolo di assalitori. 

 

All’intolleranza verso gli avversari, ancor più se di sinistra, che caratterizza i comportamenti di soggetti che ben poco hanno di decoroso, s’accompagna una divulgazione dello scontro come nei tempi più bui della Turchia messa a ferro e fuoco dai ‘Lupi grigi’, la componente estremista del Partito nazionalista. Fra l’altro alla stregua di quel che accade in molti stadi e a tanti club, non solo gli ultras delle curve ma gli stessi calciatori mostrano gestualità radicali. Da noi braccia tese fascistoidi, in Turchia la mano che mima il volto del lupo. Ai recenti Europei di Germania Merih Demiral l’aveva fatto esultando in tal modo dopo aver segnato contro l’Austria. Non sappiamo se stesse cercando anche lui un futuro da parlamentare col partito di Bahçeli, il maggior alleato di Erdoğan, sta di fatto che l’Uefa ha stigmatizzato la pratica di simbologie politiche trasportate sul terreno di gioco da pluripagati professionisti che contravvengono palesemente al regolamento. Accanto all’Assemblea trasformata in arena, riappare il contrasto nella magistratura turca in gran parte addomesticata dalla politica erdoğaniana, frutto delle famose radiazioni dei reali e presunti giudici (e militari, poliziotti, insegnanti, impiegati) fethulaçi, gli aderenti al movimento di Fethullah Gülen, l’ex sodale e poi grande nemico di Erdoğan, accusato d’aver organizzato il tentativo di golpe del 2016. Dopo quelle purghe fra i membri di vari tribunali, fra cui la Corte di Cassazione, prevalgono toghe schierate col presidente-sultano. Resistono alcuni membri della Corte Costituzionale, dove una maggioranza di nove su quattordici s’era espressa per l’immunità ad Atalay affinché potesse entrare in Parlamento. La maggioranza invece gli ha sbarrato l’ingresso e con le manone di Alpay ha punito chi protestava. Ancora una volta in Turchia lo stato di diritto viene calpestato e ciò che risulta più inquietante è l’intimidazione ai più alti livelli, quasi lo Stato non esistesse. Sarà interessante conoscere se al deputato-assaltatore verranno applicate sanzioni o tutto sarà cancellato come le macchie di sangue sul pavimento.

mercoledì 7 agosto 2024

Yunus, miracolare il Bangladesh

 


Hanno acclamato a gran voce il ‘banchiere del popolo’ Muhammad Yunus e lui ha detto sì, dall’alto dei suoi ottantaquattro anni ben portati ma chissà fino a quando supportati dal Dio del tempo. E’ che la ribellione di piazza in Bangladesh, quella che ha messo in fuga la matura autocrate Hasina, non ha né capi né organismi politici e rischiava di finire in mano ai militari ovvero al Partito nazionalista che nelle scorse ore ha visto liberati alcuni esponenti che hanno provato a capitalizzare il sangue su cui gli studenti bengladesi hanno costruito la ribellione alla dittatrice populista ora riparata in India. Ma non poteva certo essere l’ex premier Khaleda Zia, per anni guida preconfezionata in alternanza alla Hasina, un futuro per la nazione. Glielo impediscono l’età, una malattia che la costringe sulla sedia a rotelle, ma soprattutto l’assenza di relazione col cuore della protesta di queste settimane, un cuore che vuole cambiare sebbene gli manchi l’organizzazione per farlo. Perciò la gioventù ribelle in maniera quasi scaramantica s’affida a un simbolo, l’uomo dell’ottimismo che inventò il micro-credito e per questo ha ricevuto nel 2006 il riconoscimento del Nobel. L’idea semplice e al tempo dirompente con cui Yunus dimostrava l’onestà dei piccoli e dei poveri, poiché i prestiti del suo istituto di credito, Grameen Bank, ritornavano in cassa anche a fronte dell’assenza di garanzie ha rappresentato uno schiaffo al sistema mondiale canaglia coi deboli, ossequioso e disponibile coi potenti della finanza. I neppure trenta dollari prestati a un gruppo di donne che producevano mobili di bambù nel villaggio di Jobra, vicino alla sua nativa Chittagong, vennero restituiti e il modello Yunus iniziò ad ampliarsi sempre più sul territorio che lottava contro le devastanti inondazioni e la povertà. La banca Grameen, che in bangla significa appunto villaggio, aiutava la gente del mondo rurale e veniva sostenuta da questi clienti, creando un circolo virtuoso che risollevava le sorti economiche di molti abitanti. 

 

Cinque miliardi di dollari a cinque milioni di richiedenti, un sistema oliato a tal punto che la fama di quel banchiere atipico ch’era Yunus giunse sino a Washington nella sede della Banca Mondiale, interessata al caso. I riconoscimenti ricevuti dal visionario e alternativo economista finanziario bengladese sono sicuramente anche il frutto dei buoni uffici che questo pilastro delle istituzioni internazionali, nate con gli accordi di Bretton Woods, riconobbe a Yunus. A tal punto che alcuni crediti minuti sono diventati una prassi diffusa dalla stessa Banca Mondiale, senza però mutare né turbare gli indirizzi a lungo seguiti dal sistema nato nel 1944. E se il medesimo andò in crisi a inizi Settanta con la sospensione della convertibilità del dollaro in oro, il ruolo del Fondo Monetario Internazionale e della stessa Banca Mondiale continuano a risultare centrali in quel “sud del mondo” su cui il capitalismo occidentale non demorde nel concedere aiuti in cambio di stabilità governative. Che spesso si traduce in tipologie di esecutivi e premier graditi ai sette grandi del mondo, quelli del G7, che possono allargare le maglie diventando G20 o giù di lì, comunque stabiliscono le regole dell’economia globale, sia nella sua fase di crescita sia in quella di ridimensionamento e crisi. Insomma il FMI ha 190 membri, ma chi decide sono i soliti noti del “nord del mondo”, questo gli hanno rinfacciato a lungo altri premi Nobel come Stiglitz e Sen, oppure intellettuali no-global come Chomsky e critici della rigidità di bilancio e politiche monetarie del livello di Fitoussi. Se e quanto Yunus servirà al futuro politico del disorientato Bangladesh, sofferente per le politiche esclusiviste d’un ceto politico che per trent’anni ha diviso la popolazione favorendo un’èlite, lasciando orfani decine di milioni di cittadini che non caso sono costretti a vagare per il mondo in cerca di lavoro (nutrita è la presenza nelle maggiori città italiane). Schiacciato nella geopolitica asiatica fra l’India e la Cina il Paese deve pensare a un domani nient’affatto semplice. Proprio il FMI ha garantito a lungo il potere di Sheikh Hasina. Sarà benevolo con l’amico dei poveri e soprattutto lo sosterrà a suon di miliardi come faceva finora con la signora delle clientele?