giovedì 14 marzo 2024

India-Bharat, la società della discriminazione

 


In attesa delle consultazioni politiche di fine aprile - una ciclopica scadenza con più di novecento milioni di potenziale elettori - l’India del Bharatiya Janata Party rende attuativo il ‘Citizenship Amendment Act’, legge contestatissima approvata nel 2019 e finora non applicata. Ufficialmente per il subbuglio della pandemia di Covid-19, sebbene in mezzo ci siano state le dure manifestazioni dei contadini che hanno assediato Delhi e altre grandi città e i contrasti sempre più violenti fra la maggioranza hindu e le minoranze religiose, soprattutto quelle islamica e cristiana. Che pur minoranze contano rispettivamente circa duecento e sessantacinque milioni di fedeli. Questa parte della popolazione indiana ha visto bruciati i luoghi di culto, le proprie abitazioni private, gli esercizi commerciali per mano dei fanatici hindu che aumentano di numero e di violenza. L’hindutva, la teoria razzista e fascista creata da Vinayak Savarkar negli anni Venti del secolo scorso, è diventata orientamento per numerosi deputati arancioni che siedono nella Lok Sabha e indirizzano ampi settori del partito di governo. Con la legge diventata esecutiva in questa settimana cittadini in fuga da nazioni attigue (Pakistan, Afghanistan, Bangladesh) possono ricevere lo status di rifugiato purché non professino la fede musulmana. Perciò parsi, sikh, buddisti, giainisti finanche cristiani (al di là di scoprire che possono finire perseguitati) vengono accolti. I musulmani no. La discriminazione ha creato in questi anni proteste diffuse nei vari stati della federazione indiana e anche all’estero, fra gli emigrati dall’India di religione islamica e fra i fratelli islamici di altre nazioni. Motivo: la palese illegalità della norma in contrasto con quanto prevede l’articolo 14 della Costituzione: “Lo Stato non deve negare a qualsiasi persona l'uguaglianza davanti alla legge o la parità di protezione delle leggi all'interno del territorio dell'India". Però Modi e i suoi vanno avanti a testa bassa. Dopo la conferma con un terzo mandato, il loro prossimo obiettivo è modificare la Costituzione. Un vizio diffuso fra i leader che amano l’autoritarismo e desiderano una Carta conforme alle proprie insane voglie. 

 

Finora il lasso temporale per diventare cittadini indiani è di undici anni, regola che potrebbe essere confermata o mutata. Sicuramente nessuno straniero islamico può sperare in quest’inserimento. Secondo il ministero dell’Interno “Negli ultimi tempi sono state diffuse molte idee insane”. Il richiamo non è alla legge in questione, bensì a chi la contesta. Hanno voglia le organizzazioni umanitarie a gridare contro le forme restrittive sostenute dal Bjp, il rullo compressore dello Stato dispotico introdotto da un decennio da Modi va avanti senza interruzioni. La repressione interna, compresa quella della stampa, non viene denunciata dall’informazione main stream internazionale, lanciata anche giustamente contro le elezioni farsa in Russia di questi giorni. Ma, ad esempio, in fatto di filtri e blocchi non sono l’Iran né la Cina ad avere il primato nell’impedire alla cittadinanza l’accesso a Internet: le recenti statistiche pongono in testa l’India. Ovviamente l’India di Modi che non è certo più quella di Nehru. Se si guarda all’intolleranza religiosa, gli assalti incendiari alle chiese cristiane, messi in atto da estremisti hindu in alcuni Stati come il Manipur e dimenticati dalle forze dell’ordine, sono paragonabili a quelli di Boko Haram in Nigeria o di certo fondamentalismo dell’Isis. E un campione assoluto di aggressività e intolleranza qual è Israele, che abbatte le case dei palestinesi da Gerusalemme a tanti angoli della Cisgiordania, viene preso a modello dalle autorità indiane che si scagliano contro i musulmani cui viene impedito il diritto all’abitazione tramite demolizioni. Il governo Modi fa dell’illegalità assoluta un comportamento ammissibile e non perseguibile per legge, in totale spregio dei diritti civili e umani. Un nuovo codice penale rende possibile tuttociò attribuendo ai cittadini il reato di “attacco alla sovranità e integrità dell’India“ anzi del Bharat, come il partito hindu vuol tornare a denominare il Paese, contro un termine considerato retaggio coloniale. L’intento né linguistico né storico-culturale maschera ben altra smania: limitare la libertà a chi non risulta in linea coi parametri che vogliono lo Stato-continente una società degli hindu per gli hindu.

 

martedì 12 marzo 2024

L’Italia armata abbatte droni Houthi

 


Secondo l’ex affarista delle armi Guido Crosetto, da due anni ministro della Difesa nel governo Meloni: “L’equipaggio della Duilio è stato bravo ad abbattere due droni“. I velivoli senza pilota erano stati lanciati nella notte dai guerriglieri Houthi, ma non è chiaro se fossero diretti contro il cacciatorpediniere italiano che pattuglia il Mar Rosso, partecipando alla missione dell’Unione Europea denominata Aspides, oppure verso mercantili di passaggio. L’orgoglio del dicastero, prim’ancora che della Marina militare, inanella il terzo abbattimento di drone in pochi giorni perché, a detta del ministro, gli Ansar Allah, i partigiani di Dio stanno dirigendo i propri “fuchi ronzanti” contro le navi che vigilano il tratto di mare fra Mokha e Aden, entrambe località yemenite in cui agiscono gli Houthi. Al contrario il loro portavoce ribadisce: “Non abbiamo preso di mira alcuna nave italiana, i nostri obiettivi sono quelle britanniche, statunitensi e israeliane. Se l’Italia vorrà coinvolgersi nella guerra contro di noi, decideremo”. Preciso e perentorio. Ma attualmente in via Venti Settembre, lo spirito è quello dei La Marmora e Cadorna, e respirare polvere da sparo diventa essenziale. Così, più zelanti di quanto prevede la stessa operazione velenosa nel Mar Rosso, i comandi della Marina in piena sintonia col ministro della Difesa passano all’azione e mettono il Belpaese in una condizione di verifica, secondo i personalissimi parametri che si danno i ‘partigiani di Dio’. Peccato, perché l’Italia potrebbe svolgere mansioni negoziatrici anziché incarnare il ruolo dell’avanguardia offensiva nell’intricata vicenda della ribellione e repressione lunga quasi un quindicennio in quel travagliato territorio.

 

 
Altri nostri governi non s’erano schierati né con né contro gli Houthi, evitando le forniture d’armi alle monarchie della ‘Cooperazione del Golfo’ che dal 2015 bombardano l’entroterra yemenita, distruggendone anche il patrimonio artistico e architettonico, nella capitale Sana’a e in altre regioni. Finora gli screzi missilistici hanno coinvolto l’aviazione e la marina francesi, la fregata britannica HMS Richmond, alcune unità del Central Command statunitense di stanza in quel tratto di mare e una nave mercantile con la bandiera di Singapore. Certo, da quando i guerriglieri yemeniti minacciano attacchi lungo le proprie coste in solidarietà con la popolazione di Gaza sottoposta a massacri indiscriminati e vessazioni alimentari da parte di Israele, la tensione è altissima. Per non rischiare gran parte delle compagnìe di navigazione ha scelto di rinunciare a quella rotta sino al canale di Suez, e dall’Europa all’Asia e viceversa circumnavigano l’Africa. Solo quest’ultimo commercio s’attesta al 40% degli scambi fra i due continenti, mentre per il Mar Rosso passano il 12% delle merci mondiali. In tali condizioni la percorrenza s’allunga di due settimane, le spese di noleggio marittime e assicurazioni fanno lievitare il prezzo delle merci, che comunque vengono scaricate sui Pil dei singoli Paesi e sui prezzi delle merci al dettaglio. Perciò dei comportamenti dei governi nazionali e dell’Unione ne risentono quei cittadini europei chiamati alle urne il prossimo giugno e i loro omologhi asiatici. I sostenitori della diplomazia in luogo della guerra potrebbero compiere un passo semplice, semplice: riconoscere quale legittimo governo yemenita quello dei rivoltosi, al posto dei cloni fantoccio inventati da Washington e Riyad. E l’Italietta, in cerca di glorie belliche internazionali, farebbe meglio a orientare verso la diplomazia talune pose di esibizionismo militare

sabato 9 marzo 2024

Pakistan, i clan riacciuffano le Istituzioni

 


Con l’elezione di Ali Zardari alla presidenza del Pakistan, ottenuta con 411 preferenze sull’avversario Khan Achakzai che ha raccolto 181 voti, il cerchio si chiude. Il ferreo patto con cui la Lega Musulmana-N e il Partito Popolare Pakistan, dopo anni di polemiche e reciproci contrasti si sono avvicinati per escludere il Tehreek-e Insaf Party dell’ex premier Imran Khan ha prodotto la spartizione degli incarichi. Nei giorni scorsi Shehbaz Sharif della Lega è diventato capo del governo, oggi Zardari del PPP s’è garantito la carica di capo di Stato. La quale pur solo rappresentativa costituisce pur sempre un’Istituzione che può dialogare con gli altri poteri forti, ufficiali e ufficiosi: i palazzi di Islamabad dove risiedono Esecutivo, Forze Armate e Intelligence. I due clan Sharif e Bhutto-Zardari un tempo nemici ora collaborano per tenere lontano dalle leve del potere gli imponderabili seguaci dell’uomo che ha scosso le trame politico-militari del Paese: l’ex campione di cricket Khan. Accusatore del ceto dirigente cui appartengono i leader Nawaz Sharif e Ali Zardari entrambi condannati e incarcerati per corruzione e tangenti, Khan è tuttora in prigione con la stessa accusa. Lui si schermisce parlando di pretestuosa montatura, visto che la condanna  gli ha addebitato la mancata dichiarazione fiscale d’un orologio, pur prezioso, ricevuto in dono da un manager durante il suo premierato. Il fatto, indubbiamente censurabile, non regge il confronto con la macchina degli illeciti balzelli che i citati esponenti di Lega e Partito Popolare intascavano nell’esercizio delle loro funzioni. Proprio l’oggi sessantanovenne Zardari, proveniente da una ricca famiglia di proprietari terrieri, s’era guadagnato l’epiteto di “mister ten per cent” indicativo della percentuale che riscuoteva alla conclusione di ogni affare di Stato. Il suo matrimonio con Benazir Bhutto, figlia d’una storica stirpe politica pakistana e prima donna premier della nazione con due incarichi dal 1988 - nella fase che interrompeva la feroce dittatura del generale Zia-ul Haq - al 1996, fu chiacchierato. In effetti aveva i contorni dell’unione di comodo fra un elemento giovane e capace, Benazir s’era laureata a Oxford ed era fortemente motivata nella carriera, mentre Ali era solamente benestante per eredità familiare, ma risultava uno sfaccendato sciupafemmine dedito a vacanze e feste. Dopo la morte in un attentato di Benazir (dicembre 2007) avvenuta durante una campagna elettorale che la riproponeva come possibile vincitrice, il marito visse un periodo d’immeritata popolarità sull’onda dello sdegno per l’esecuzione orchestrata da membri dell’esercito. Il generale e presidente pakistano Musharraf fu sospettato d’essere fra i mandanti dell’omicidio, ma non fu mai incriminato. Comunque il clan Bhutto-Zardari teneva ben strette le mani sul partito che il figlio Bilaw guida assieme al papà. Probabilmente con l’attuale incarico di Ali, sarà il rampante rampollo a orientare la linea del PPP.

domenica 3 marzo 2024

Pakistan, Sharif torna premier

 

Benzina sul fuoco nell’evoluzione delle contestate elezioni pakistane, vinte da un partito cancellato come tale, il Pakistan Tehreek-e-Insaf (Pti), impossibilitato a usare il suo simbolo e costretto a presentare candidati indipendenti riuniti nel Sunni Ittehad Council (SIC). Però i 93 seggi comunque conquistati in Parlamento non hanno consentito al raggruppamento dell’ex presidente Iram Khan (lui è attualmente incarcerato) a formare un esecutivo, che ora passa per il compromesso fra i due partiti-famiglia storicamente in contrasto fra loro: la Lega Musulmana-N degli Sharif e il Partito Popolare Pakistano dei Bhutto-Zardari. Pur di superare lo stallo i due clan si sono avvicinati e, raccogliendo anche l’adesione di deputati di formazioni minori, hanno eletto Shehbaz Sharif primo ministro con 201 preferenze. L’altro pretendente, Omar Ayub Khan che non è parente di Imran, ne ha ricevute 92. Così, dopo circa due anni dalla caduta del governo guidato dall’ex campione di cricket, il minore degli Sharif, che già aveva preso il suo posto, torna a dirigere un Paese ferocemente spaccato. I sostenitori del Pti nei due anni precedenti alle attuali consultazioni hanno inanellato decine di marce e manifestazioni di protesta contro una manovra definita illegale e, per bocca del loro leader, orchestrata dai militari sotto dettatura della Casa Bianca. Illazioni inaccettabili, sostenevano gli avversari tornati al governo. Ma questa che dovrebbe risultare un’investitura ufficiale si trascina strascichi ulteriormente polemici per l’accusa di brogli lanciati dai candidati indipendenti facenti capo al Tehreek-e Insaf. In occasione dello spoglio elettorale, nel quale risultavano comunque vincitori, costoro additavano il ‘Consiglio Elettorale’ di scarso o inesistente controllo di seggi in determinate aree dove gli attivisti dei partiti-famiglia avrebbero taroccato schede a proprio favore. In tal modo gli indipendenti del Pti hanno perso voti preziosi per eleggere propri candidati e il loro primato è risultato limitato. "Cambieremo il destino del Pakistan" ha dichiarato Sharif nel suo discorso d’insediamento davanti agli slogan ostili dei legislatori del Pti che aggiungevano in coro: "Ladri!". Shehbaz ha ringraziato il fratello maggiore, rientrato dal dorato esilio londinese per sostenerne la corsa al premierato, e gli alleati per averlo aiutato a diventare primo ministro. "Asif Ali Zardari e Bilawal Bhutto Zardari nessuno di loro ha mai pensato di danneggiare il Pakistan" affermava con scarsa sincerità il neo eletto, lanciando un’approvazione fino a qualche giorno fa mai pensata. Gli analisti pensano che i tumulti di strada torneranno presto sia per la bile dei sostenitori di Khan, sia per lo stallo riscontrato dall’occupazione e dall’inflazione (al 40%) che mese dopo mese prosciuga i salari. 

 


 

 

martedì 27 febbraio 2024

Gaza-Cisgiordania, nuovi politici per un futuro

 


I richiedenti cibo, facce della sofferenza dell’anima prima che dello stomaco, vagano nella ‘Casa della fatica’. Questo vuol dire in arabo Beit Lahia, a nord di Jabalya, Striscia di Gaza. E quella gente piombata dalla feroce precarietà sedimentata nel tempo, alla lotta per la sopravvivenza minata dalla voglia d’uccidere d’Israele, uccidere con le armi di un esercito occupante e con la perfidia di civili che bloccano sul confine i camion alimentari, poco sa del resto. Di ennesime trattative internazionali – Cairo, Doha e sulle linee telefoniche dei Grandi – e di notizie prossime: le dimissioni di tal Mohammad Shtayyeh, economista, politico, uomo del clan dell’Autorità Nazionale Palestinese che sembrerebbe accettare la sorte disegnata per un domani, incerto nel percorso e nei tempi. Ristabilire il ruolo di rappresentanza, quello che Abu Mazen, tanto utile al ventennio in cui Tel Aviv ha praticato l’avvelenamento esistenziale spingendo centinaia di migliaia di coloni in Cisgiordania, ha tenuto congelato. Un processo che al di là dello sviluppo delle trattative per lo scambio di prigionieri, Hamas dovrebbe accettare. Rimescolare le carte politiche di quel che resta della presenza palestinese nei Territori occupati, misurarsi elettoralmente con Fatah, cercare un futuro sebbene disastrato dalla persecuzione bellica che azzera ogni autodeterminazione, frustrando qualsiasi progetto. Eppure se questo passo dovesse compiersi mostrerebbe il fallimento del piano di cancellazione del gruppo islamista su cui tuttora insiste il premier Netanyahu. I 144 giorni, e quelli che seguiranno, di assedio della Striscia producono un ridimensionamento militare di Hamas, non la sua scomparsa. Anzi, la presenza a ogni trattativa di suoi esponenti ne conferma vivacità e legami internazionali a tutto tondo. Ulteriori tappe, chissà se elettorali, potrebbero rivelare trame per isolarlo, né è chiaro lo spazio d’intervento politico di frazioni minori della Jihad palestinese. Ma un futuro, se possono immaginarlo i milioni d’intrappolati a Gaza insieme ai fratelli egualmente tenuti sotto tiro in Cisgiordania, un futuro politico per quegli occhi che hanno conosciuto mesi di morte e inenarrabili sofferenze risulta  alquanto straniante. Irto di questioni e domande. Chi difende oggi la causa palestinese? Chi lo fa realmente fra combattenti e politicanti di casa? Chi fra i Paesi arabi più amici del sionismo oppressore che dei piedi ignudi, della pelle aggredita dalla scabbia, delle viscere svuotate dalla dissenteria, visto che bisogna diffondere morte improvvisa oppure lenta. Lentissima e inesorabile. I settantasei anni di un’agonia protratta, passata per i campi profughi, lacerata nell’atomizzazione d’un popolo che Israele vuole dissanguare con l’ausilio dei suoi alleati, parecchi dei quali parlano la lingua di Maometto e seguono la sua fede, ha fermato il tempo sulla costante della sofferenza infinita. Se la politica palestinese riuscisse a trovare uomini adatti ai reali bisogni della gente, quei poveri occhi già sarebbero meno smarriti. Poi tutto continuerà a dipendere dalle volontà dei carcerieri israeliani. Ma almeno non si sarà rappresentati da loro complici.

 

domenica 25 febbraio 2024

Dahomey, la voce dell’usurpazione

 


Tiene l’Orsetto d’oro stretto nel pugno, Mati Diop, regista premiata alla Berlinale col docufilm Dahomey che è una percossa non solo al colonialismo Ottocentesco, ma a quel neocolonialismo che continua a soggiogare la madre Africa ai capricci lucrosi degli imperatori d’Europa. Che si chiamano British Petroleum o Total oppure Veolia, Bolloré e la ‘aerospace security’ Thales. Volti vecchi e nuovi di antiche ruberie. Quella degli uomini, innanzitutto, prima di quella delle cose che stanno sulla terra e sotto. Perché l’antico regno Dahomey, che sorgeva quattro secoli or sono nel territorio dell’attuale Benin, fornì dal 1700 a metà ‘800 muscoli e cuore alle colonie americane attraverso la tratta di schiavi, coadiuvata da regnanti locali. Un prodromo dei governi-fantoccio che per tutto il secolo scorso le ex potenze imperiali, britannica, francese, tedesca e con qualche scampolo italiana, hanno promosso e protetto a vantaggio dei propri eterni interessi economici. Alla faccia della vita delle genti locali. La pellicola documenta l’evento della restituzione da parte del governo di Parigi di ventisei artefatti storici del Regno di Dahomey sottratti nella fase coloniale francese su quei territori. Ventisei a fronte di oltre settemila opere trafugate. Una goccia nell’Oceano. Un pensiero critico direbbe: una tardiva riparazione dal quasi beffardo sapore di revisione del passato usurpatore. Se nel lungometraggio le statue s’interrogano sulla propria collocazione storico-geografica, esse stimolano i giovani del Benin a riflettere– come fa la regista stessa – su questo passo attuale, non sentendosi soddisfatti del presente.

 

Soprattutto se la maschera della ‘riparazione coloniale’ attraverso il ritorno a casa delle statue, avviene all’ombra della mai morta Francąfrique di degaulliana memoria, un sostantivo che indicava il colonialismo di ritorno praticato dal Secondo dopoguerra e tuttora ampiamente presente. Un’invadenza geopolitica e geoeconomica, proseguita dall’Eliseo anche dopo la dipartita del generale-presidente. Così Giscard d’Estaing sostituì il Segretariato degli interessi francesi in Africa con una struttura denominata ‘Cellula africana’. L’intento non mutava: favorire gli interessi energetici di Parigi e ogni possibile affare economico legato all’estrazione di materie prime. L’orientamento proseguì col socialista Mitterand e il neogollista Chirac, fino alla nuova destra di Sarkozy. Veli pietosi, e altrettanto criminosi, si possono stendere sulle gestioni di Hollande e dell’attuale premier politique Emmanuel Macron, con gli interventi in Mali, nella Repubblica Centroafricana. Dove l’alibi di combattere con proprie truppe la presenza jihadista nei territori, copre le strategie d’accaparramento di uranio, cobalto, litio e ogni sorta di terre rare accanto alla proiezione mondiale dell’Armée française.  Dalla tratta degli schiavi a quella dei metalli in un gorgo senza freni. Questo il documentario non lo dice esplicitamente. Però le teste pensanti dell’attuale gioventù della diaspora – com’è l’autrice figlia d’un musicista senegalese trapiantato nella Ville Lumière dei nostri giorni - e di coetanei ancor più giovani l’hanno ben chiaro. I ragazzi del Benin e di tanto continente sub-sahariano, spesso costretto alle fughe da quell’inferno come i protagonisti dell’Io capitano, altra pellicola di denuncia, sanno e giustamente parlano senza tenere la testa sotto la sabbia.

 

martedì 20 febbraio 2024

Iran, il voto temuto e contestato

 


Partecipare alle elezioni è un dovere aveva annunciato a inizio anno Ali Khamenei. Anche per questo gli iraniani che lo odiano diserteranno le urne che si stanno approntando per le consultazioni politiche del 1° marzo. Così potrebbe finire con percentuali ancora più basse di quelle registrate nel 2020 (35% di partecipanti, addirittura sotto il 20% nella capitale), inficiate più che dalla pandemia di Covid dal malcontento socio-economico già apparso nel 2019 con proteste di strada contro il carovita. Il governo ricorda il soffocante embargo occidentale cui è sottoposto da lungo tempo – realtà incontrovertibile – ma la gente ce l’ha con chi con una crisi economica con un’inflazione al 40% e una disoccupazione giovanile al 25%, resta comunque protetto. Polizia e militari di carriera e più d’ogni altro i Pasdaran, Stato nello Stato, temuto anche dal clero, per la fregola che in epoca della presidenza laica di Ahmadinejad, pensava quasi di far a meno degli ayatollah. Prevalse un compromesso e un accordo, così da tornare in linea col khomeinismo armato degli albori della Repubblica islamica. Eppure l’iraniano medio, in gran parte urbanizzato e tendenzialmente giovane, negli ultimi anni s’è ritrovato a dire “Né per Gaza né per il Libano, la mia vita solo per l’Iran“. Voleva sottolineare come l’impegno militare rivolto agli alleati Hezbollah sui confini caldi con Israele o a favore di Asad nel sanguinoso conflitto siriano dissipava risorse che in patria avrebbero potuto sostenere bisogni anche primari davanti a un pauroso buco finanziario, cui non sopperiscono le pur importanti risorse energetiche. Certo, da cinque mesi Gaza è a metà fra il lazzaretto e il cimitero, e soprattutto la geopolitica mondiale puntando il dito contro Hamas lo dirige contro Teheran che ne sarebbe l’ispiratore occulto. Gli analisti ancora discutono se nel rinnovato ‘Asse della Resistenza’ a trazione sciita, con amicizie fra i giganti cinese e russo, Teheran abbia dato l’assenso  all’operazione del 7 ottobre oppure l’abbia solamente appresa e subìta. Di fatto gli uomini-simbolo del sistema degli ayatollah, Khamenei e Raisi, mostrano di optare per un basso profilo internazionale anche quando gli ammazzano figure di rango come Razi Mousavi, che non era un Soleimani ma rappresentava quel corpo (i Guardiani della Rivoluzione) che fanno guerra e politica e vanno tenuti in massima considerazione.

 

Perciò, la coppia della conservazione, sta limitando l’impatto bellico anche perché teme quel fronte interno che dal settembre 2022, dopo l'uccisione di Mahsa Amini, per mesi è sceso in strada, rischiando la vita e morendo. La protesta è gradualmente scemata, però non s’è spenta. E’ passata dal rifiuto del velo femminile al malcontento di ragazzi istruiti che pretendono un futuro adeguato alle aspettative di chi vive nel Terzo Millennio, ragazzi che possono pregare o meno ma non sopportano la cappa del velayat-e faqih, forzatura khomeinista contestata al momento dell’introduzione anche da taluni marja’ al taqlid come Montazeri. L’affievolirsi di gesti clamorosi ha fatto chiudere un poco gli occhi alla polizia morale davanti a chiome fluenti e libere che tuttora vagano nella capitale. Che è un pezzo dell’Iran, non è il Paese intero. Mentre un pezzo di nazione e il suo orgoglio stanno con l’istituzione che lo rappresenta, Pasdaran compresi, davanti ai pericoli sempre presenti di complotti antinazionali, condotti dall’Isis-Khorasan come nel Belucistan o dal Mossad quando si tratta di far fuori gli ingegneri dell’orgoglio nucleare. Davanti alle accuse degli oppositori, interni e ai tanti della diaspora, che nel Paese comunque si muore per mano del boia (nell’anno appena concluso sono state conteggiate oltre ottocento pene capitali), i due richiami al voto per i 290 seggi al Majles e gli 88 all’Assemblea degli Esperti, i secondi contano molto di più. Perché saranno quest’ultimi a compiere un passo storico: eleggere il successore di Khamenei, pluri ottuagenario malandato e dato più volte per spacciato eppure ancora vigile e deliberante. Dovesse proseguire il suo percorso ne avrebbe 93 alla prossima elezione, dunque per il clero sarebbe utile avere un ricambio. Si vocifera che la nuova Guida potrebbe essere proprio Raisi (alle presidenziali si vota l’anno prossimo). O forse quel figlio di Khomeini che nel 2016 venne scartato. Per ora un altro ayatollah noto ha avuto la porta chiusa: l’ex presidente Rohani. Gli utraconservatori non ammettono presenze riformiste, e lui è stato addirittura additato quale amico, troppo amico dell’Occidente. Qualcuno ha osato dire spia. Insomma in questi giorni le migliaia di proposte di candidati al Parlamento sono state sfoltite dal Consiglio dei Guardiani, mentre ambiscono a entrare nell’Assemblea degli Esperti non più di 120 chierici di rango. La nomina del nuovo Rahbar può essere dietro l’angolo. La tenuta del regime è legata a più fili.