mercoledì 9 luglio 2025

La scarpata di Haftar

 


Stare coi piedi nelle due scarpe libiche, la fasciante calzatura indossata da Dbeibah ennesima invenzione della comunità internazionale, che fa il paio con l’anfibio calzato dal generale Haftar, non porta bene all’Unione Europea e tantomeno all’Italietta del ‘Piano Mattei’. Così il nostro ministro dell’Interno e dei rimpatri, Matteo Piantedosi si ritrova respinto quale “persona non grata” insieme agli omologhi, il greco Plevris e il maltese Camilleri, durante una visita ufficiale organizzata dalla Ue con l’intento di accattivarsi i due riottosi fronti in cui il Paese è diviso dall’eliminazione del leader Gheddafi. Ieri i rappresentanti di tre approdi di frontiera: il nostro, Malta e la Grecia, avevano incontrato a Tripoli il governo locale che fa appunto capo a Dbeibah, premier scelto nel 2021 dalle Nazioni Unite per organizzare elezioni finora mai svolte. Tema dell’incontro sedicenti investimenti, che si possono tranquillamente leggere come finanziamenti a fondo perduto per evitare il rilancio di sbarchi sulle sponde settentrionali del Mediterraneo, il terrore dei tre Stati visitanti. Comunque a Tripoli, non foss’altro che per il cordone ombelicale che lega l’ultimo epigono della comparsata democratica, tutto è filato liscio. Prima di lui fra presidenti del Consiglio presidenziale, della Camera dei rappresentati, Capi di Stato referenti a un’unica città (Tripoli) e Primi ministri si sono succeduti una decina di ‘indipendenti’. Invece a Levante, dove regna il clan Haftar, con tanto di figli in odore d’eredità, eserciti personali e una trasparenza di governo palese, incentrata sul “qui comando io”, la delegazione ha avuto qualche problemino. La terna Ue avrebbe voluto incontrare Osama Hamad, premier della Cirenaica e sodale di Haftar, sebbene nel 2016 fosse stato nominato ministro delle Finanze dell’allora premier al-Serray che puntava a un governo di Accordo Nazionale che non conseguì lo scopo. Hamad nel 2018 venne scaricato da quel governo per aver espresso sostegno all’Esercito nazionale libico, creatura bellica del citato Haftar. 

 

Che gli schieramenti e le contrapposizioni interne siano da tempo palesi e incolmabili è cosa nota a Roma, Atene e ovviamente a Bruxelles. Ma i vertici della Ue e delle singole nazioni fanno orecchio da mercante e cercano di cavalcare problemi ed emergenze per il proprio tornaconto. Così, la questione migrazione è trattata da ciascun protagonista secondo interessi di parte, la Fortezza Europa propugna respingimenti a prescindere, i due fronti libici ricattano alzando la posta: “finanziamenti” e riconoscimenti. Ora col governo considerato “buono” si scambiano visite e affari, mentre il cattivo, che pure gli stessi europei incontrano anche ufficialmente (è del mese scorso il colloquio al Viminale proprio fra Piantedosi e Saddam Haftar, uno dei figli-eredi di papà Khalifa), non è riconosciuto dall’Unione. Perciò a Bengasi puntano i piedi. Se nella visita di ieri il gruppo Ue avesse incontrato, da pari a pari, i rappresentanti dell’Est della Libia sarebbe stato l’atteso primo passo per una loro accettazione Invece il commissario che accompagnava la delegazione, l’ambasciatore Ue in Libia Orlando, ha evitato l’incontro col governo Hamad. Da lì l’irritazione dei libici orientali e il benservito al trio, rispedito a casa con l’infamante marchio di “mancanza di rispetto per la sovranità nazionale”. Ovviamente la propria sovranità, ma tant’è. Insomma un pateracchio diplomatico che accanto alla figuraccia può avere conseguenze. Per il caratterino del generale, che pur pluriottantenne appare vispo e intento a favorire il suo clan familiare, fra l'altro con denari emiratini e armi russe. Certo,  usando compromessi ma pure con atti di pressione rappresentati dai temuti sbarchi di migranti. Peraltro in oltre un decennio dalle coste libiche se ne sono succeduti a ondate, compiacenti i vari premier e boss dell’est e dell’ovest, considerati amici dai nostri ministri dell’Interno di turno a iniziare dal primo “aggiustatore” di approdi: Marco Minniti. A Piantedosi, lanciato dai propri referenti d’Esecutivo, a ripercorrerne la via della trattativa è mancata qualche mossa giusta. Il ‘Piano Mattei’ necessita di revisioni e ritocchi nel campo del realismo politico-diplomatico.  

lunedì 7 luglio 2025

Kabul sitibonda

 


Sei milioni di abitanti e una sete crescente, che rischia di diventare tragica entro il 2030 anno in cui gli studiosi ritengono che la capitale afghana rimarrà disidratata. Il cambiamento climatico che affligge il pianeta aumenta lo scioglimento dei ghiacciai delle cime Hindu Kush, ma sul territorio i tre maggiori corsi d’acqua (il Kabul che scorre fin dentro la città, il Paghman a ovest, il Logar a sud) da tempo ormai non risultano riforniti a dovere. C’è dispersione del prezioso elemento per l’evaporazione estiva, per la scarsità delle precipitazioni in buona parte dell’anno e per un prelievo eccessivo e sconsiderato di acqua dai pozzi. La mancanza d’infrastrutture fa il resto. In tal senso un rapporto di un’Ong statunitense (Mercy Corps) lancia un allarme per cercare di correre ai ripari. Ma non bastano analisi e buoni propositi, perché alle incurie del passato s’uniscono i veti della geopolitica. Le falde sotterranee sono sprofondate di oltre trenta metri solo nell’ultimo decennio e pescare acqua da un’infinità di pozzi finora utilizzati è diventato impossibile. Per tacere della stratificazione di liquami che rende insicuro e a rischio contaminazione le falde acquifere tuttora esistenti a livelli più elevati. Un disastro cui hanno contribuito conflitti interni e occupazioni esterne che hanno reso volutamente impossibile ogni sorta di opere pubbliche. Si è andati avanti coi pozzi, di rifornimento per le acque chiare e di smaltimento per quelle nere e, al di là dei disastri prodotti dai bombardamenti intensivi che “dissodavano” il terreno, poco o nulla s’è fatto riguardo a condutture idriche e dighe lungo il corso di fiumi. Viene tuttora ricordato un progetto, finanziato da una banca tedesca durante il secondo governo Ghani, che avrebbe dovuto rifornire l’accresciuta popolazione della capitale, dove a seguito dell’infinita guerriglia fra talebani e truppe Nato, s’era concentrato un gran numero di sfollati da altre province. Quel progetto riguardava le falde del fiume Logar ma non venne portato a termine per la fuga di Ghani e la creazione del secondo Emirato.

 

Da quel momento s’interruppe ogni rapporto tecnico-finanziario per la conclusione dei lavori. Così 44 miliardi di litri d’acqua annuali, di tanto era prevista l’estrazione, rimangono sottoterra. La situazione non è certo migliorata nel quadriennio di gestione talebana, gli embarghi, le chiusure di relazioni con l’Occidente hanno bloccato iniziative come quella citata, mentre altre sponde, ad esempio di marca cinese, non se ne vedono. E a soffrire è la popolazione. Il governo di Pechino è propenso a finanziare infrastrutture dalle quali può ricavare vantaggio per i suoi commerci, come i porti disseminati lungo la rotta navale della sua via della seta. Per i kabulioti, invece, si prospetta una via della sete, anche perché il fai da te con cui anche nelle grandi aree urbane si coltivano ortaggi e verdure necessarie al sostentamento quotidiano prevede un risucchio di quattro miliardi di litri per innaffiare i 400 ettari sparsi fra le case delle periferie (i dati sono sempre forniti da Mercy Corps). Le autorità attuali, come i precedenti governi, non intervengono per non inimicarsi una popolazione che deve comunque nutrirsi come può. Non solo. Talune aziende impiantate in loco, l’Alokozay multinazionale emiratina presente in 40 nazioni fra Medioriente, Asia e Africa interessata a produrre bibite analcoliche e merce per l’igiene, da sola utilizza oltre un miliardo di litri d’acqua all’anno e non è intenzionata a discutere il quantitativo di prelievo dal sottosuolo. Così si procede senza pianificazioni, un po’ diciamo per quieto vivere e poi per mancanza di fondi e di progettazione strutturale, avendo comunque un domani fottutamente incerto per i problemi introdotti dalla crisi climatica che colpisce l’intero globo, ma ancor più i poveri fra i Paesi poveri.

giovedì 3 luglio 2025

Il Cairo, echi dal carcere

 


L’hanno sbattuto in galera Magdy Ghoneim, sessant’anni, giornalista egiziano, molto attivo sul fronte dei diritti umani. Non è la prima volta. Già in altre due occasioni ha dovuto provare le celle di al Sisi solo per una sorta di reati d’opinione, aver documentato le restrizioni subìte dagli stessi lavoratori dell’informazione non schierati col regime, con tanto di maltrattamenti sotto casa: la sede dell’Ordine professionale. Anche in questa circostanza non ci sono imputazioni a carico di Ghoneim. Forse sconta l’avere aiutato Layla Seif, la madre coraggio del detenuto politico Alaa al Fattah, a salire le scale nel corso d’una recente conferenza stampa tenutasi al Cairo attorno alla prigionia infinita del figlio. La docente universitaria Seif ha lanciato da mesi uno sciopero della fame contro l’accanimento giudiziario rivolto ad Alaa, inascoltata non solo dal presidente-carceriere egiziano, ma dallo stesso premier inglese Starmer cui la donna s’è rivolta perché sostenesse un cittadino britannico, Alaa ha infatti una doppia nazionalità. Altra macchia di Ghoneim, secondo il regime militare cairota, l’appoggio offerto al collega Khaled el-Balchi che ha rinnovato l’incarico di presidente del sindacato giornalisti (Egypt’s Jurnalism Syndacate). Già nel 2023 el-Balchi aveva avuto la meglio su Khaled Miri, direttore del quotidiano filogovernativo Akhbar al Youm, una delle maggiori testate egiziane, ed essendo vicino a quel che resta dell’opposizione e ad alcuni organismi che si battono per i diritti umani, non è certo ben visto dai vertici militari. Il regime di al Sisi ha sempre avuto un rapporto ambivalente col mondo dell’informazione interna che nel 2013 aveva lanciato una ferrea campagna contro il governo Morsi e la Fratellanza Musulmana, vincitori delle elezioni dell’anno precedente. Anche grazie a quell’impegno, alla posizione di partiti laici e socialisti, i militari che avevano incarcerato il presidente legittimo, operarono il massacro di oltre mille attivisti islamici accampati in segno di protesta davanti alla moschea Rabi’a al-Adawiyya e il conseguente “golpe bianco” con cui Sisi saliva al potere. Da quel momento le prigioni egiziane non mancano di residenti, alcuni seppelliti vivi da una dozzina d’anni, altri seppelliti e basta come lo stesso Morsi e anche suo figlio. 


 

martedì 1 luglio 2025

Presa per il Golan

 


Nel Medioriente dalle movenze forzate, bellicizzato e bullizzato dalla coppia geopolitica del momento, Trump-Netanyahu, appare l’ennesimo documento firmato dal pennarello che conta, quello del primo cittadino statunitense. Un foglio che cancella le sanzioni alla Siria, carezzando e allettandone l’attuale leader ad interim Ahmad al-Sharaa. Che ha bisogno non solo di riconoscimenti internazionali a tutto tondo, ma soprattutto di finanziamenti per dare respiro a un’economia agonizzante da oltre un decennio con l’avvìo del conflitto interno ed esterno. Nel quale i protagonisti hanno mutato ruoli, a cominciare proprio da al-Sharaa, ex al-Jolani e conduttore del Fronte al-Nusra poi scissionista e creatore di Hayat Tahrir al-Sham, meno qaedista ma sempre jihadista. Uscito di scena il clan Asad, riparato in gran parte a Mosca, ma attivo con qualche comandante sulla costa fra Tartus e Latakia, dove nei primi giorni del marzo scorso militanti alawiti avevano attaccato reparti del nuovo esercito, per poi subìre una violentissima repressione con centinaia di morti anche fra i civili. Dunque un Paese, o quel che resta, altamente instabile se si pensa ai gruppi armati kurdi firmatari d’un accordo col governo provvisorio per la propria integrazione in un’ipotesi di rinnovate Forze Armate la cui direzione è tuttora incerta, anche perché finora fra i nuclei da assemblare ha pesato la componente mercenaria vicina alla Turchia. E già dal 2019 le operazioni militari di Ankara hanno fortemente ridimensionato i territori del Rojava. Per tacere dei micro nuclei di combattenti dell’Isis esterni all’immenso campo carcerario di Al Hol (dove sono rinchiusi quarantamila fra miliziani e loro familiari controllati da forze kurde, sostenute dagli Stati Uniti) che riescono a pensare ad agguati destabilizzanti, se è reale la voce della stampa libanese d’un tentativo di attentato contro al-Sharaa. Obiettivo fallito, timori diffusi e necessità di rafforzare una leadership.

 

Ora mettersi nelle mani del presidente statunitense può diventare un terreno minato anche per un ex combattente ora votato alla pacificazione e alla diplomazia, qual è l’ex jihadista siriano. La ricerca, come afferma il suo ministro degli Esteri al-Shaibani, consiste “nell’aprire le porte alla ricostruzione e al ripristino di infrastrutture vitali, per riportare in patria milioni di sfollati”, ma accanto a probabili finanziamenti che passeranno dalle casse di Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita è il ridisegno locale il fattore con cui al-Sharaa e le comunità siriane devono fare i conti. Il percorso diplomatico che l’amministrazione statunitense rilancia ricalca gli “Accordi di Abramo” con cui s’invogliano alcuni Paesi arabi alleati a lanciarsi nell’abbraccio d’Israele e dei suoi piani regionali. Piani di bellicismo tattico anche quando Tel Aviv non lancia raid assassini, visto che l’eliminazione d’ogni traccia di presenza palestinese in Palestina, passa attraverso la colonizzazione galoppante. Nei piani statunitensi s’intravede la copertura d’ogni volontà di Israele, non solo riguardo al genocidio in corso nella Striscia, accettato senza problemi dal precedente capo della Casa Bianca, ma dagli altri agguati ai territori statali limitrofi di Libano e Siria. E quest’ultima, oltre ad aver perso dal 1967 le alture del Golan, militarmente strategiche e indispensabili per l’approvvigionamento idrico, ha ricevuto anch’essa bombe israeliane, l’avanzata dell’Idf posizionato a una quarantina di chilometri da Damasco, cui, come in Cisgiordania, sono seguiti insediamenti di ultraortodossi ebraici. Se ne contano ormai decine per un totale di oltre trentamila coloni su terra altrui che, com’è accaduto per il Golan diventato di fatto israeliano, può costituire l’ennesimo lembo di territorio che allarga l’occupazione del Grande Israele.  Cedere quello che da oltre quarant’anni i siriani hanno perduto sembra un eufemismo, non può esserlo un ulteriore ridimensionamento territoriale che può nascondersi dietro la mano tesa di Trump armata di pennarello. Posto che nell’altro braccio, l’ultimo Stranamore di Washington,  continua a maneggiare Massive Ordnance Penetrator come in Iran. Per ora la penetrazione in Siria passa per il progetto degli aiuti.

lunedì 30 giugno 2025

Visitazioni - Medio Oriente di fuoco e di sangue

 


Un giorno del secolo scorso allo storico di chiara fama Marc Bloch uno dei figli chiese a cosa servisse la Storia. “A comprendere il presente” rispondeva sinteticamente il padre, concentrando in due parole l’essenza scientifica del suo metodo nella materia. In pieno Novecento il loro presente era burrascoso, reso tale soprattutto da guerre fomentate da imperi economici e da un uso estremizzato delle ideologie. Attualmente il nostro presente non è da meno, fra l’altro con ideologie liquefatte ma più acuminate dalle capacità distruttive d’una soffocante tecnocrazia. Il metodo affinato da Bloch e seguìto da altri storici francesi (Braudel, Duby, Le Goff) che si concentrarono sulle epoche lontane del Medio Evo, arricchiva lo studio delle fonti incardinate su biografie e dati politici con elementi sociologici ed economici, comparando ulteriori testimonianze (archeologia, arte, filosofia, antropologia) per avere un ampio spettro su cui innescare un’indagine interdisciplinare. Per cogliere, dunque, l’attuale ridisegno forzoso d’un delicatissimo punto d’unione o di frattura del mondo antico e contemporaneo, il cosiddetto Medio Oriente, si può risalire allo squasso prodotto dal primo conflitto mondiale, al quale, contraddizione paradossale, l’uomo Bloch aderì addirittura con l’entusiasmo del volontario. Nella Grande Guerra, si dissolsero imperi sedimentati nei secoli, come l’Ottomano e lo zarista, e imperi più recenti: l’Austro-ungarico e il prussiano-germanico, mentre quello Britannico ancora presente a Asia, era destinato a passare la mano alla sua versione contemporanea d’Oltreoceano. Mentre lo scontro ammucchiava vittime in trincea ed era tutt’altro che definito nella sua vittoria finale, un cadavere certo, l’impero del Sultano, veniva sezionato e spartito fra due potenze dell’Intesa che coi rispettivi diplomatici - il francese Georges Picot e il britannico Mark Sykes - definivano sulle mappe l’entità di nuovi Stati, tracciandone i confini col righello.  Nascevano Libano e Siria, Giordania e Iraq, su cui veniva stabilita la rispettiva giurisdizione dei propri governi. Per tacere della Palestina, destinata a un’amministrazione internazionale mai attuata poiché subentrarono prima la “Dichiarazione Balfour”[1] (1917) e, a seguito della Shoah, la nascita dello Stato d’Israele (1948). La consequenzialità degli avvenimenti storici è una delle chiavi per la comprensione di quel presente citato da Bloch al figliolo. Così nel Medio Oriente riplasmato dai vincitori delle due Guerre Mondiali del ‘Secolo Breve’ s’inseriscono le variabili che turbano e caratterizzano la Storia recente dell’area e i conflitti che appaiono perenni, come quello del popolo palestinese. 

 

Per non condensare vicende inesorabilmente intrecciate e concause di crisi anche recenti, fissiamo una data attorno a un concetto definito in inglese, anzi in americano, Rogue State. Nel geo politichese dell’ultimo sessantennio “Stato canaglia”. Termine e pensiero lanciati dall’ex attore hollywoodiano diventato 40° presidente statunitense, Ronald Regan. Era il 1980 e l’epiteto veniva rivolto alla Libia e al suo presidente Gheddafi, sostenitore d’un certo terrorismo islamico contro gli Stati Uniti. Fu quindi il democratico Clinton, 42° inquilino dello Studio Ovale, a stilare nel 1993 una sorta di lista nera che aggiungeva alla Libia, Cuba, Corea del Nord, Iraq e Iran. Tutti ‘Stati canaglia’. Perché? Numerosi analisti sottolineavano come gli Usa dalla caduta del Muro di Berlino e dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, avvenimenti che avrebbero dovuto allentare la tensione globale della Guerra Fredda strisciante, spinsero invece sull’acceleratore elaborando nuove strategie d’intervento politico e militare. Ben oltre l’Alleanza Atlantica e quel senso d’Impero moderno che i critici della politica estera americana hanno sempre contestato a Casa Bianca e Pentagono, e che secondo rilanciati princìpi da “legge del più forte” il filosofo Derrida bollava come abuso di potere sull’altrui sovranità. Gli Stati definiti canaglia in modo non meno canagliesco dal potere di Washington intralcerebbero, praticamente o teoricamente, quegli interessi americani per i quali dall’amministrazione Clinton s’è deciso l’intervento unilaterale della Nato in barba al Diritto Internazionale, al Consiglio di Sicurezza dell’Onu e alla sua Carta. Concentriamoci su uno di questi ‘reietti’, l’Iran. Per la cronaca diventata storia, era stato proprio il duro Regan a interrompere il ‘braccio di ferro’ che accentuava la crisi fra la linea statunitense e quella iraniana attorno al sequestro di cinquantadue fra funzionari e agenti della Cia bloccati nell’ambasciata americana di Teheran. L’azione fu attuata da studenti universitari che occuparono quella sede nove mesi dopo la ‘Rivoluzione Islamica’ e il rientro in patria di Khomeini. Chiedevano, inascoltati, di scambiare i sequestrati con lo Shah. Nel gennaio 1981 Regan subentrò al predecessore Carter che per quello ‘smacco’ perdette le elezioni. Nonostante la liberazione finale di tutti gli ostaggi attraverso la mediazione dell’Algeria (sei persone erano subito riparate presso l’ambasciata canadese, altre tredici vennero rilasciate nei giorni seguenti perché afroamericane, mentre le restanti restarono per 444 giorni in balìa dei rivoluzionari) quella fu un’onta mai sanata nell’ego superomistico della politica estera americana, che costò all’intera nazione persiana, non solo al governo degli ayatollah, la collocazione nella lista statale di proscrizione con tanto di embarghi prolungati sino ai nostri giorni. In realtà tutto s’era già incrinato con la Rivoluzione del 1° febbraio 1979 e la cacciata dello Shah, il sovrano d’acciaio, uno dei gendarmi di quel Medio Oriente a trazione imperialista occidentale, disegnato sessant’anni prima sui tavoli della diplomazia europea. 

 

La sua è diventata l’effige del monarca-fantoccio, autoritario e repressore tramite gli scherani della polizia segreta (Savak).  Il suo regno ha garantito l’economia della spoliazione praticata dalle Sette Sorelle[2] e precedentemente ostacolata dal premier Mossadeq che s’adoperò per la nazionalizzazione dell’industria petrolifera. Una mossa che nel 1953 costava al Primo ministro il disarcionamento tramite un golpe militare organizzato da MI6 e Cia, a favore dei propri affari e d’un controllo geopolitico internazionale e interno con l’investitura offerta a un sanguinario quale si dimostrò Reza Pahlavi. Ecco che, per dirla con Bloch, le vicende d’un recente passato chiariscono un pezzo del presente di quel Paese. I cui desideri di supremazia regionale si palesavano ben prima della salita al potere del clero sciita con Khomeini. Proprio la dinastia Pahlavi, subentrata negli anni Venti del Novecento agli eredi Qajar, aveva avuto con la regìa di Reza padre l’ambizione di modernizzare l’Iran. Il sovrano prendeva a modello la riforma kemalista di Atatürk compiuta in Anatolia, con tanto di sviluppo d’infrastrutture e industria pesante, dell’apparato burocratico e amministrativo, cercando d’indebolire il controllo del clero su istruzione e giustizia. Quel clero gerarchizzato, con gli ayatollah-ol ozma e marja-e taqlid (i grandi ayatollah e coloro che erano ‘fonte di imitazione’ per i fedeli) ma orientato al quietismo, cioè a un interesse per la spiritualità che rinuncia all’impegno politico, mutava orientamento verso la metà degli anni Sessanta, sotto le teorie anticolonialiste di Shariati e la spinta ideologico-organizzativa di Khomeini. Quest’ultimo, complottando contro lo Shah, era finito in esilio. Sull’Iran capofila regionale puntava nel medesimo periodo la visione  americana in Medio Oriente, soprattutto davanti al risvegliarsi d’un islamismo organizzato in campo sunnita con la Fratellanza Musulmana, comunque contrastata dal laicismo dei militari egiziani e dei loro presidenti (Nasser, Sadat). Ma gli stessi regimi forti, “socialisteggianti” e inseriti nella sfera d’influenza sovietica dell’epoca, i Ba’thisti di Siria e Iraq, costituivano pur sempre un baluardo a qualsiasi ipotesi di Islam politico. La Persia dello Shah veniva carezzata dai più abili manovratori dell’occhio americano rivolto all’esterno, Henry Kissinger su tutti, quale regime da promuovere a potenza locale. Un’opzione più rassicurante rispetto a emiri e sceicchi delle meno popolose petromonarchie. Mentre la Turchia militarizzata dai colpi di mano delle Forze Armate (di cui la Cia tanto sapeva e tramava) risultava la punta di diamante della Nato verso in Levante russo e non solo. Il grande alleato israeliano, orgoglioso della sua potenza (già all’epoca atomica) mostrata nei ‘Sei giorni sei’ di guerra e conquiste (5-10 giugno 1967) era di casa a Teheran, specie coi propri agenti del Mossad, in quelle circostanze in funzione istruttiva verso i colleghi della Savak, e non distruttiva come ora coi Pasdaran. Per oltre un ventennio dalla collocazione di Reza figlio sul ‘Trono del Pavone’ i rapporti politici, militari, economici fra i governi di Teheran e Tel Aviv furono cordiali e proficui. Con la cacciata dello Shah iniziava una sorta di ‘pace fredda’, sebbene nel corso degli otto anni di conflitto Iran-Iraq Israele supportò gli ayatollah con aiuti militari e d’Intelligence contro Saddam Hussein, considerato un nemico regionale comune. 

 

Paradosso della Storia, era stato il premio Nobel per la pace Rabin, Primo ministro d’Israele fra il 1992 e il 1995, a rompere le relazioni fra i due Stati, con l’intento di condurre il suo Paese su una posizione di dominio nell’area mediorientale, ben oltre le occupazioni illegali di Gerusalemme, delle alture siriane del Golan e la crescente infiltrazione in Cisgiordania di coloni provenienti, come la sua famiglia, dall’est europeo. L’aumento delle violenze di Israeli Defence Forces contro la popolazione palestinese, lo scoppio della prima Intifada, venivano giudicate dall’intero mondo islamico un punto di non ritorno. La nazione sciita non era da meno e in base al sostegno a quelle comunità presenti in un Libano, che aveva già subìto aggressive invasioni israeliane (nel 1978 e 1982), avviava il supporto economico e militare alle milizie di Hezbollah e Hamas, cui col tempo si sono aggiunti Jihad islamica palestinese, Ansar Allah in Yemen, più alcuni gruppi iracheni che operano sul proprio territorio (Kataib Hezbollah, Asaib Ahl al-Haq, Badr e altri minori). Erano i prodromi di quello che verrà definito l’Asse della Resistenza[3]. Il motivo di questa scelta della leadership iraniana era duplice: superare l’asfissìa politica e l’isolamento nelle relazioni internazionali ed economiche del Paese riscontrate dopo il logorante conflitto con l’Iraq e creare una ‘profondità strategica’, una ‘difesa avanzata’ del suo territorio nella vasta e intricata regione, dal momento che i rapporti con Stati Uniti e Israele diventavano sempre più incandescenti. Agli iniziali conflitti verbali il crescendo è deflagrato in tempi recenti. L’irrisolta questione palestinese, che coinvolge il mondo arabo, riceveva il sostegno dell’Iran rivoluzionario del Ruhollah e del suo prescelto nell’incarico di Guida Suprema, Khamenei, ma gli animi si sono ulteriormente infuocati durante la presidenza dell’ex basij Mohammad Ahmadinejad (2005-2013). Frequenti le invettive per “la distruzione dell’entità sionista” e meticoloso il suo fervore, assieme alla componente più radicale del ‘partito dei Pasdaran’, nell’inseguire il disegno del nucleare civile e militare. Un piano che tuttora fa fibrillare diplomazie e cancellierati globali, intenzionati a interdire a ogni costo tale tecnologia alla nazione iraniana. Non tanto e non solo l’armamento atomico, di cui l’Aiea in queste ore ribadisce non ci siano prove per così allarmanti proclami, ma lo stesso impiego civile di un’energia ampiamente diffusa in varie latitudini. Discorrere sui processi di produzione sull’irrisolto della fusione e le sue scorie che possono sedimentare per millenni e il vantaggioso utilizzo della fissione, rappresentano questioni scientifiche della comunità ricercatrice internazionale, non è questo il punto. Quello che i governi occidentali, all’unisono con Stati Uniti e Israele, non vogliono concedere agli ingegneri nucleari iraniani è l’arricchimento dell’uranio anche per scopi civili. Perciò da anni il Mossad li ammazza, prima ancora di liquidare i capi dei Pasdaran. Mentre adesso, davanti al fantasma o alla congettura del possibile prossimo ordigno atomico iraniano, gli F16 dell’Heyl Ha'Avir sganciano missili sui reattori di Natanz, Fordow, Arak. Eppure è stato un altro fronte, agghiacciante e sempre parzialmente ricordato, quello siriano col suo mezzo milione di caduti e quindici milioni fra profughi, rifugiati, spostati di luoghi e di testa, a precedere questo smontaggio di pezzi di Medio Oriente. E’ nella Siria degli Asad, figlia di quei gruppi laici e sedicenti socialisti che comprendeva anche Egitto, Tunisia, Iraq, e che dovevano tenere testa alle monarchie sparse fra Maghreb e Mashreq (Marocco, Giordania e il blocco dei Paesi del Golfo) per il controllo della regione, che s’è giocato il più recente rilancio d’una supremazia. 

 

Finora non c’è un vincitore né un dominio unico. Si sa chi ha perso, i vecchi clan familiari spodestati dalla piazza o dai confitti, e chi si propone come capofila. La Turchia in primo luogo, che usa bastone e carota, ma anche quell’intelligenza e furbizia diplomatiche che il borioso Occidente ha smarrito da tempo. Per tacere dei primatisti suprematisti d’America, deliranti attorno all’ultimo improbabile ma reale presidente. Eppure, per oltre un ventennio la Casa Bianca ha ospitato uomini e politiche nient’affatto rassicuranti per ponderatezza e misura. L’Enduring Freedom in Afghanistan, la guerra in Iraq, vera manna dal cielo per la Jihad globale, erano partorite dai consiglieri del poco istrionico George W. Bush, figlio di cotanto padre che in occasione del lancio delle ostilità col Desert Storm di più d’un decennio precedente (era il 17 gennaio 1991) sentenziava alla nazione e al mondo: “Siamo davanti a una risposta che orienterà il futuro per i prossimi cento anni”. Ora che il mondo attende le decisioni dell’ondivago Trump, se coadiuvare Israele nel bombardamento di siti militari e condomìni civili a Teheran e dintorni, e lo fa nello Studio Ovale al cospetto d’un manipolo di calciatori impegnati nel primo Mondiale per Club (sic), c’è poco da stupirsi. Non tanto del baraccone mainstream mediatico, ma del Barnum geopolitico che dall’insulto dello “Stato canaglia” è passato al bullismo dell’aggressione all’altrui sovranità, fino alla criminalità militare tuttora improfumata di presunta democrazia. Il cacciatore di bambini Netanyahu resta un Erode, sia se riceverà il supporto dei bombardieri  B2 di Us Air Force per lanciare la superbomba GBU-57 (quattordici tonnellate complessive, due e mezzo d’esplosivo dedicato alla morte) per disgregare le centrifughe di Fordow seppellite a 100 metri di profondità, sia se proseguirà di propria sponte il progetto d’impadronirsi del Medio Oriente radendone al suolo un buon tratto. L’alternativa a una supremazia regionale incentrata sui conciliaboli diplomatici di Erdoğan o sui conflitti eterni lanciati dal primo fra gli israeliani è il ‘favoloso mondo di bin Salman’. Una società pacificata dalla ricchezza di pochi e aperta ai soli beati del globo. Un ambiente immacolato dagli eventi mercantili non da guerre. Queste MbS le ha provate contro i ribelli Houthi che attaccavano il governo yemenita di Hadi, poi riparato a Ryahd e difeso dai sauditi, ne è uscito con le ossa rotte. Pur dotato dei sofisticati armamenti elettronici della costosissima aviazione griffata Lockheed-Martin non è riuscito a piegare i miliziani di Ansar Allah (sciiti zaiditi di stirpe hashemita) che hanno resistito alle tempeste di fuoco del 2015 e nuovamente dal 2016 al 2018. Loro se ne stanno pimpanti lungo le coste di Aden, colpendo i cargo che trasportano merce a Israele, pur quando questi non sventolano la bandiera con la stella di David. A dimostrazione d’un servizio d’Intelligence, magari minimo ma efficace. Tutto in sostegno dei martoriati fratelli palestinesi e dimostrando d’essere l’ultimo anello vitale d’un Asse della Resistenza altrove profondamente piegato da Israele. Se verrà il loro turno, si vedrà. Attualmente i generali di Tsahal hanno ben altri obiettivi nel mirino. Stretta fra i conflitti, l’Arabia Saudita dell’irrequieto e ambizioso principe-sovrano è l’attore geopolitico che con la ‘Visione 2030’ pensa a una regione messa in pace coi petrodollari da reinvestire. I due termini s’affratellano, gli affari scivolano tranquilli senza i marosi delle guerre. Purtroppo il Medio Oriente è diventato sinonimo di conflitti e chi da essi ricava profitti, con qualsiasi merce non solo armi o con le conseguenti speculazioni finanziarie, seppure non guarda a ostilità imperiture, le fomenta periodicamente. La Storia del ‘Secolo Breve’ è stata questa. Quella del Millennio che lo segue ha tutta la fisionomia per imitarlo e superarlo.   


18 giugno 2025  



[1] Si tratta della lettera indirizzata dal ministro degli Esteri del Regno Unito a Lord Rothschild, rappresentante interno della comunità ebraica, con cui il governo britannico guardava favorevolmente la creazione d’una ‘dimora per il popolo ebraico’ in Palestina.

[2] Le compagnìe petrolifere (le statunitensi Exxon, Mobil, Texaco, Standard Oil of California (Socal), Gulf Oil, l’anglo-olandese Royal Dutch Shell, la britannica British Petroleum) che avevano fatto cartello sull’estrazione del petrolio in Medio Oriente e nel mondo.

[3] Il conio del termine è di un giornale libico che così rispondeva al sedicente “Asse del male” enunciato nel 2002 da George W. Bush comprendente alcuni Paesi avversi.

sabato 28 giugno 2025

Il lutto e l’orgoglio

 


Si sono stretti in decine di migliaia, certamente fiancheggiatori del regime, ma con tutta l’ehsas, l’emozione, della propria cultura e della tradizione sciita. Hanno abbracciato le bare di fratelli illustri, scienziati del programma nucleare, comandanti pasdaran  e anche cittadini comuni, stroncati dalla cosiddetta “guerra dei dodici giorni”, com’è stata definita l’aggressione aerea israelo-statunitense al territorio iraniano. La tivù nazionale ha insistito nel divulgare immagini di donne in chador nero, e anche volti giovanili rigati di lacrime e profonda commozione. Alla mestizia della celebrazione s’accompagnava la fierezza (ghroor) della cittadinanza di Teheran, capitale indifesa che ha subìto lo sfregio dei caccia d’Israele liberi di colpire dal 13 giugno caserme dei Guardiani della Rivoluzione ma pure ordinari condomìni. Dove l’esistenza scorreva, magari monotona e perfettibile ma non prostrata a chi insegue l’imposizione d’un nuovo governo preconfezionato dai missili. Così fin dai primi attacchi anche parecchi oppositori agli ayatollah hanno rinnegato quella “liberazione omicida”, mentre stamane i fan di Khamenei e dintorni ripetevano gli slogan di “Morte al sionismo e all’America” che risuonano da decenni nelle città e nelle campagne persiane. Un orgoglio sincero, partito dal basso, senza i calcoli politici come quelli, peraltro legati più al proprio destino, espressi dalla Guida Suprema il giorno precedente, quando addirittura rivendicava una vittoria del suo Paese su Tel Aviv e Washington. Tutti, anche i sostenitori, hanno avuto sotto gli occhi la fallimentare gestione della sicurezza interna, la capacità d’infiltrazione israeliana, la connivenza e la svendita della propria nazione da parte di cittadini e anche uomini d’apparato che nei mesi scorsi hanno consentito clamorosi attentati fin dentro le strutture e le aree dell’apparato pasdaran

 

Un gruppo di potere che, se vorrà resistere e continuare ad esistere, dovrà sottoporsi a epurazioni e depurazioni da quegli elementi infedeli incardinati in organi vitali. Falle, che la dicono lunga sulla debolezza del sistema vigente, unite alla crisi economica che non permette di stare al passo con le accelerazioni tecno-digitali della guerra contemporanea, incentrata su elettronica e armi sofisticatissime e costosissime, cui tante nazioni devono rinunciare per carenza di denaro. Nella comunità iraniana resta la fede, non necessariamente religiosa, intesa come fiducia in sé stessa, nell’entità di popolo dignitoso che, come accade alla stirpe più straziata del Medio Oriente - i palestinesi - risulta l’attuale vittima designata della violenta arroganza sionista e statunitense. Stamane Teheran, o un pezzo di essa, ha pianto i generali Salami e Hajizadeh, ha lacrimato per il breve leader pasdaran Bagheri e il ricercatore Tehranchi. Ha soprattutto ricordato che il gioco di guerra voluto da Netanyahu e Trump sui cieli d’uno Stato sovrano ha inanellato 627 martiri, volontari e no. Per chi li ricorda in piazza restano martiri, come Hosseini, meritano rispetto, onore e c’è chi pensa alla vendetta. Non certo i proclami di prammatica del vecchio Khamenei, ma dell’ala dura del partito combattente che, però, deve fare i conti con tutte le considerazioni prima espresse sulla guerra tecnologica, e sul tempo che scorre. Gli ultimi combattenti forgiati nell’ideologia khomeinista sono morti o invecchiati. Le nuove generazioni non sono così straccione come i basij di quarantacinque anni addietro, che offrivano il proprio corpo alle bombe e ai gas sul fronte iracheno. L’attuale apparato militare iraniano è buono per sfilate rituali o lanci di razzi anche a lunga distanza che possono bucare la “Cupola” del nemico più a portata di tiro, ma fanno poco male. Dunque, è più realistico ridisporsi a trattative, come ha annunciato il ministro deli Esteri Araghchi. Bisognerà vedere quel che dispongono i nemici. Sicuramente colpire e umiliare. E lasciar decantare la rabbia e l’impotenza. Chissà per quanto.

martedì 24 giugno 2025

Il sogno di Ciro il piccolo

 


Dove finiranno gli slogan, le grida, i desideri delle giovani di “Donna, vita e libertà” se per ‘Jin, jiyan, azadi’ è già pronto ‘Woman, life, freedom’. Non che lingue differenti non possano indicare medesimi concetti ma già le parole, che introducono nozioni e azioni, hanno un rapporto stretto con le culture, gli orientamenti, le mode. Se poi devono aver a che fare con le linee geopolitiche, gli usi e gli abusi possono galoppare. Nei giorni di concentrati attacchi militari delle aviazioni di Israele e Stati Uniti ai siti nucleari iraniani, che hanno colpito anche Teheran falciando centinaia di vite, chi non ama il regime degli ayatollah, oppositori e contestatori,  sono diventati essi stessi potenziali bersagli. Qualcuno è finito fra le vittime dei raid, è accaduto alla poetessa ventitreenne Parnia Abbasi, rimasta sotto le macerie del suo edificio bombardato nel quartiere Sattarkhan. Più d’un antagonista al regime non s’è mostrato favorevole a queste stragi, sostenendo che la guerra non introduce alcuna democrazia. Qualche voce a sostegno del cambio di regime con la forza s’è levata dalle tranquille poltrone degli studi televisivi in cui professori o intellettuali sono stati intervistati. Dall’estero. Il tono più stonato e screditato, non dalla nemesi storica, ma da quanto va sostenendo ora alla bell’età di sessantaquattro primavere è quello di Reza Ciro Pahlavi, a cui è stata approntata nientemeno che una conferenza stampa parigina. Volato in Francia probabilmente con un Air Force statunitense, visto che lui nei siti militari è di casa, non solo per aver pilotato caccia ma per aver vissuto a Langslay, dietro la cortina di protezione della Cia dall’età di diciott’anni. Quando appunto fuggì, assieme ai familiari dalla Teheran che defenestrava suo padre. Angosciosa ombra della sua esistenza quella di papà Shah, ma pure suo nume tutelare post mortem, perché ogni avere dei discendenti, a cominciare dal primogenito Ciro, proveniva dai furti d’un altro regime, quello voluto e protetto proprio dalla Cia e dall’MI6 britannico ai danni del premier Mossadeq e del popolo iraniano. 

 

Fu il golpe sostenuto dall’Occidente geopolitico e dal capitale imperialista delle “Sette sorelle” del petrolio ai danni di chi reclamava il proprio diritto di monetizzare le ricchezze statali del sottosuolo. Reza padre fu il sovrano-fantoccio che rimpiazzava uno statista, peraltro liberale, legittimamente eletto. Non è stata l’unica ferita inferta all’Iran moderno. Le altre, abissali e sanguinanti, le provocava la polizia segreta Savak, feroce torturatrice di patrioti per tutti gli anni Sessanta e Settanta. Un organismo istruito, affiancato, seguito da agenti della Cia. Se Reza junior all’epoca era bambino e certi orrori di famiglia non li conosceva, dal momento dell’esilio dorato negli States e dei tanti contatti internazionali nel ruolo di Altezza Imperiale e Principe Ereditario, volendo avrebbe potuto scoprirli. E agire di conseguenza. Non sentirne l’ignominia, che ricadeva sull’operato genitoriale, ma almeno discostarsene rinunciando ad antistoriche pretese. Non è accaduto. Nella sua nullità imperiale del cosiddetto ‘Trono del Pavone’ ora finisce burattino al servizio dell’Impero della tecnologia armata che pretende di dominare il globo. Che col tempo gli ha cucito addosso la veste di difensore dei “diritti umani”, in relazione alla diaspora iraniana riparata all’estero per i legami, probabilmente poco edificanti, col regime di papà Shah. Nel soliloquio parigino Reza Ciro ha parlato di questi tragici giorni per l’Iran simili alla “caduta del Muro di Berlino”. Proprio così.  E poi ha detto: “Non cerco il potere (ergo, nessuna restaurazione monarchica) voglio aiutare la nazione, essere al servizio dei miei connazionali verso la giustizia, la stabilità, la libertà (eccola azadi, scusate freedom)”. Quindi rivolto a Khamenei: “Dimettiti, avrai un processo equo”. La disgrazia iraniana, nella tragedia mediorientale di questi mesi, s’accompagna anche a simili comparsate. E’ l’opposizione che dovrà comprendere qual è il futuro.