Solo questo può condivide da oggi Bashar Asad col suo popolo: la fuga. La differenza è che il suo allontanamento dalla Siria è comunque sicuro e dorato, si dice sia riparato a Mosca e il resto del clan negli Emirati Arabi Uniti; quello dalle città e dalle aree rurali iniziato dal 2012 da sette milioni di concittadini era concitato e disperato. Se è andato a buon fine staziona tuttora fra mille contraddizioni nei campi profughi, in caso contrario è finito in fondo al mare. E’ questa la maledizione che si trascina l’oftalmolo che non s’occupava di politica, ma che la prematura morte del fratello Basil e le bramosie del clan familiare condussero nel 2000 alla presidenza d’una Repubblica nata filo socialista e finita, già nelle mani del padre Hafiz, in satrapìa. Eppure la sciagura maggiore l’uomo di Damasco l’aveva costruita mese dopo mese a partire dal 2011, in occasione delle ribellioni interne in sintonìa con quelle di Maghreb e Mashreq. Le fiammate delle cosiddette ‘primavere arabe’ avrebbero potuto sradicare Asad dal “regno”, com’era accaduto ai raìs Ben Ali, Mubarak, Gheddafi, ciascuno con le proprie storie ma col comune denominatore di schiacciare la popolazione e in alcuni casi affamarla. Bashar rimase in piedi grazie al radicamento presso la comunità alawita istaurato dalla sua stirpe, ai ruoli di potere militare ed economico occupati da parenti stretti, figli e nipoti del capostipite Hafiz, ai legami acquisiti come i Maẖlūf, ai posti chiave nell’esercito e negli apparati di sicurezza che ridussero le proteste di strada in mucchi di cadaveri e feriti. Rossa di sangue la Siria divenne già durante l’estate 2011, di lì a poco fu cinabro e ramato carne da mattatoio perché forze interne ed esterne, minute e potenti, usarono quei luoghi come terreno di coltura del sogno d’un moderno Califfato: lo Stato Islamico del Levante. Soggetti sanguinari intenzionati a disarcionare uno Stato laico e autoritario sostituendolo con l’autorità d’un fanatismo confessionale. Sembrava uno scontro di presunte civiltà, non era altro che una partita di potere, con la popolazione spettatrice e solo in parte partecipe. La domanda di collaborazione consisteva nel combattere in uno dei due fronti, e gli alawiti protetti e inseriti nell’élite statale si stringevano attorno al presidente, tanti sunniti esclusi e vessati aderivano ai gruppi che lo combattevano. Ma chi battagliava spesso rispondeva ad altre logiche: quelle ideali di adesione al jihadismo incondizionato o mercenario, come i cosiddetti foreign fighters, quello esplicitamente avventuriero come le milizie dette Wagner messe a disposizione di Damasco.
La dicotomìa ribellione-legittimismo svelava presto altri piani: il citato di ‘riconquista’ del Levante da parte dell’Isis di al-Baghdadi, che mancava d’un plauso esplicito ma riceveva finanziamenti turchi, sauditi, qatarioti tutti nominalmente in buoni rapporti con l’Occidente; il puntellamento d’un regime in crisi da parte russa e iraniana per reciproci interessi geopolitici. La strategia navale russa nel Mediterraneo tramite le basi di Latakia e Tartus, il passaggio di armi dell’asse sciita irano-libanese fra Pasdaran ed Hezbollah in funzione anti sionista. Per ben dodici anni Asad è rimasto blindato nei suoi palazzi, ha goduto di protezione, armamenti, supporti logistici, finanziamenti di Mosca e Teheran, senza tale supporto il suo governo sarebbe imploso, invece pur moribondo ha resistito. Ha resistito anche al piano diabolico di Erdoğan, ingoiando giocoforza l’inserimento turco nelle aree del sedicente Rojava dove le milizie kurde che avevano combattuto l’Isis stabilivano un proprio controllo, perché anch’egli come l’omologo turco odiava quella comunità. Dal 2019 tutto è rimasto congelato. Poi gli eventi incalzano: pandemia, guerra ucraina, 7 ottobre e russi, Partito di Dio, Guardiani della Rivoluzione necessitano di militari in posti diversi dal territorio siriano dove, pur sconfitto altrove, il jihadismo conserva alcune enclavi (Idlib). Le conserva e ne cura i bisogni quotidiani, il pane non lo distribuiscono solo le opere francescane di Aleppo, le fogne e le strade le ripara anche chi imbraccia un kalashnikov. Così un soggetto conosciuto e rimasto silente, ma non inattivo come Muhammad al-Jolani, valuta che si può inseguire il miraggio di disarcionare colui che negli anni passati s’era fatto tanto odiare. Perché nella guerra civile trasformata in macelleria di popolo, ci aveva messo del suo, coi familiari che non avevano smesso di torturare i prigionieri politici, gli alleati (russi) accusati di sganciare fosforo bianco su Aleppo, come facevano gli statunitensi a Mosul… La dannazione di Bashar sta nel non essersi messo nei panni di gente martoriata, d’esser rimasto insensibile allo strazio dei suoi al quale contribuiva. Un tormento tenuto in vita da alleati burattinai che hanno proseguito a dargli ossigeno per interessi propri. Mentre l’Europa e l’Occidente tutto, ora allarmati per il ritorno fondamentadista, semplicemente non volevano vedere quel che continuava a esistere. Il guaio per la Siria, la laicità nazionale è che lo strappo con la Storia lo stia facendo il fronte jihadista che ovviamente chiederà il conto.