lunedì 7 luglio 2025

Kabul sitibonda

 


Sei milioni di abitanti e una sete crescente, che rischia di diventare tragica entro il 2030 anno in cui gli studiosi ritengono che la capitale afghana rimarrà disidratata. Il cambiamento climatico che affligge il pianeta aumenta lo scioglimento dei ghiacciai delle cime Hindu Kush, ma sul territorio i tre maggiori corsi d’acqua (il Kabul che scorre fin dentro la città, il Paghman a ovest, il Logar a sud) da tempo ormai non risultano riforniti a dovere. C’è dispersione del prezioso elemento per l’evaporazione estiva, per la scarsità delle precipitazioni in buona parte dell’anno e per un prelievo eccessivo e sconsiderato di acqua dai pozzi. La mancanza d’infrastrutture fa il resto. In tal senso un rapporto di un’Ong statunitense (Mercy Corps) lancia un allarme per cercare di correre ai ripari. Ma non bastano analisi e buoni propositi, perché alle incurie del passato s’uniscono i veti della geopolitica. Le falde sotterranee sono sprofondate di oltre trenta metri solo nell’ultimo decennio e pescare acqua da un’infinità di pozzi finora utilizzati è diventato impossibile. Per tacere della stratificazione di liquami che rende insicuro e a rischio contaminazione le falde acquifere tuttora esistenti a livelli più elevati. Un disastro cui hanno contribuito conflitti interni e occupazioni esterne che hanno reso volutamente impossibile ogni sorta di opere pubbliche. Si è andati avanti coi pozzi, di rifornimento per le acque chiare e di smaltimento per quelle nere e, al di là dei disastri prodotti dai bombardamenti intensivi che “dissodavano” il terreno, poco o nulla s’è fatto riguardo a condutture idriche e dighe lungo il corso di fiumi. Viene tuttora ricordato un progetto, finanziato da una banca tedesca durante il secondo governo Ghani, che avrebbe dovuto rifornire l’accresciuta popolazione della capitale, dove a seguito dell’infinita guerriglia fra talebani e truppe Nato, s’era concentrato un gran numero di sfollati da altre province. Quel progetto riguardava le falde del fiume Logar ma non venne portato a termine per la fuga di Ghani e la creazione del secondo Emirato.

 

Da quel momento s’interruppe ogni rapporto tecnico-finanziario per la conclusione dei lavori. Così 44 miliardi di litri d’acqua annuali, di tanto era prevista l’estrazione, rimangono sottoterra. La situazione non è certo migliorata nel quadriennio di gestione talebana, gli embarghi, le chiusure di relazioni con l’Occidente hanno bloccato iniziative come quella citata, mentre altre sponde, ad esempio di marca cinese, non se ne vedono. E a soffrire è la popolazione. Il governo di Pechino è propenso a finanziare infrastrutture dalle quali può ricavare vantaggio per i suoi commerci, come i porti disseminati lungo la rotta navale della sua via della seta. Per i kabulioti, invece, si prospetta una via della sete, anche perché il fai da te con cui anche nelle grandi aree urbane si coltivano ortaggi e verdure necessarie al sostentamento quotidiano prevede un risucchio di quattro miliardi di litri per innaffiare i 400 ettari sparsi fra le case delle periferie (i dati sono sempre forniti da Mercy Corps). Le autorità attuali, come i precedenti governi, non intervengono per non inimicarsi una popolazione che deve comunque nutrirsi come può. Non solo. Talune aziende impiantate in loco, l’Alokozay multinazionale emiratina presente in 40 nazioni fra Medioriente, Asia e Africa interessata a produrre bibite analcoliche e merce per l’igiene, da sola utilizza oltre un miliardo di litri d’acqua all’anno e non è intenzionata a discutere il quantitativo di prelievo dal sottosuolo. Così si procede senza pianificazioni, un po’ diciamo per quieto vivere e poi per mancanza di fondi e di progettazione strutturale, avendo comunque un domani fottutamente incerto per i problemi introdotti dalla crisi climatica che colpisce l’intero globo, ma ancor più i poveri fra i Paesi poveri.

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