sabato 28 dicembre 2013

Erdoğan, il fantasma di Atatürk


Credersi padre della patria, come e più di Atatürk, seppure della Turchia del terzo millennio inizia a far davvero male a Recep Tayyip Erdoğan. La crisi che oltre a coinvolgere tanti suoi ministri, in ritardo defenestrati, non può non trasferirsi sull’ambizioso premier che sognava (e tuttora sogna) di diventare Capo di Stato d’una Repubblica da orientare al presidenzialismo. Modifica costituzionale non ancora attuata, e lungamente vagheggiata proprio da lui, anche per ottenere un personale proseguimento di potere. Il rapporto col potere sta diventando il male oscuro, che più di quelli fisici comparsi e combattuti due anni or sono, inizia a logorare la vanagloria dell’ex sindaco di Istanbul. Proprio la sua città gli riserva da mesi colpi che trascinano una popolarità, indiscussa sino a tutto il 2011, verso la caduta libera. Più di un analista sottolinea l’inanellare di errori con cui sta sbagliando tutto sul fronte interno ed estero. L’attacco forsennato al dissenso politico, mediatico e da ultimo, ma sicuramente il più ingombrate, sociale iniziato con la vicenda del Gezi Park l’ha gettato in una spirale di contestazione-repressione dalla quale nonostante gas, pallottole, galera e uccisioni a uscirne malconcia è solamente la sua leadership.
Forza e insidie del blocco sociale - Visti gli intrighi di molti ministri del proprio governo e i famelici interessi di speculatori edili (comunque non diversi dai nostri Caltagirone e Ligresti) lui non s’è sentito di lasciar cadere il duello scoppiato con la gioventù del parchetto adiacente a Taksim e assimilato da tanti cittadini della cosmopolita metropoli sul Bosforo. Un conflitto che ha poi coinvolto l’altra sponda, non attenuato neppure dalle strabilianti modernizzazioni della città dei sultani descritta da Pamuk, ora unita dall’avveniristico Marmaray subacqueo. Certo c’è un gran pezzo di Turchia, ben oltre Istanbul, che non vuol perdere questo treno e l’altro di un’economia che ha viaggiato spedita, anzi sfrenata per tutti gli anni Novanta e soprattutto nel nuovo secolo. La Turchia delle tigri anatoliche che col decisionista interprete dell’Islam moderato ha creato un blocco sociale saldamente interclassista, capace d’unire businessmen e padroncini alle maestranze locali e d’importazione. Ma oltre alla spinta attenuata, e per un tratto bloccata dalla crisi mondiale, molto stanno facendo errori e megalomanie di Erdoğan stesso. Proseguiamo sulle vicende interne. Nel partito interclassista da maggioranza quasi assoluta (49,83% alle politiche del 2011) è salita una moltitudine, compresi vari carrieristi senza scrupoli.
Infamia acquisita e quella cercata - Sono costoro coi casi di corruzione personale e familiare (le vicende dei figli di tre ministri incriminati sono la punta dell’iceberg) a mettere in ampia difficoltà l’immagine di buon governo venduta per anni dal premier. Che s’era già problematizzato con altre questioni come la citata insofferenza alle critiche tanto da incrinare i rapporti con l’altra figura spendibile dal partito nella leadership nazionale: il presidente uscente Gül. Quest’ultimo  attualmente non si pronuncia sull’ampio rimpasto governativo, chi dice perché s’attiene al ruolo (la Repubblica non è ancora presidenziale), chi ne sottolinea i tratti opportunistici che lo portano a non esporsi soprattutto in un momento di marasma, chi perché lo ritiene vicino al movimento di Fetullah Gülen con cui Erdoğan s’è scontrato sulla faccenda del finanziamento alle scuole private di cui l’Hizmet è ampiamente depositario. Gravi pecche dell’azione erdoğaniana sono l’umiliazione degli avversari e le persecuzioni politiche degli oppositori; i tentativi, a volte praticati in altre ricercati, di censura dei media; l’insofferenza del ruolo della magistratura. Quest’approccio potrà pesargli non poco all’interno dello stesso partito, perché contravviene a quanto sostenuto fino a non molto tempo fa.
Diversità di pesi e misure - Tutti fanno notare che l’attacco alle gerarchie militari da lui voluto e passato attraverso i tribunali ha visto alla fine generali e ammiragli adattarsi ai voleri della Corte. Perciò Erdoğan resterebbe nudo di fronte al Paese se volesse contrastare l’azione della giustizia nei confronti dei membri del suo governo e del suo partito. Per salvare quest’ultimo, e l’Islam moderato oltreché liberista sostenuto da Gülen medesimo, si potrebbe verificare un abbandono alla sua sorte del premier, ma è solamente un’ipotesi attualmente senza segnali visibili. Ovviamente il quadro mediorientale non gioca a favore né di Erdoğan né del progetto politico accarezzato e incarnato. Dal deflagrare delle Primavere arabe le costruzioni diplomatiche dello stratega degli esteri Davutoğlu sono in declino perché, differentemente da quanto a lungo teorizzato, coi vicini, prossimi e lontani, i problemi sono diventati giganteschi. L’evoluzione militare della crisi siriana e a seguire quella egiziana hanno spiazzato totalmente le uscite del Capo del governo, che verso Damasco s’è fatto Europa più di qualsiasi nazione europea nel sostenere ribelli, ma anche mercenari se non proprio jihadisti anti Asad, mentre in Egitto ha abbracciato la causa di una Fratellanza fatta oggetto dello scempio dei generali golpisti.
Sfrenato egocentrismo - Stare a galla in politica estera nei momenti di subbuglio è peggio ch’esser naufraghi in mari tempestosi, ciò nonostante  Erdoğan è riuscito nell’impresa di tuffarsi, e non solo finire, nei marosi. Per smania di protagonismo da anni accetta ogni sfida e va a cercarne di nuove. Frutto d’una personalità - così sostiene chi ne scandaglia anche la psiche - che compie la madornale svista di concentrarsi principalmente sul proprio io, sottostimando chi ha di fronte, amici e avversari. L’eccesso di sovraesposizione si sta rivelando un limite per sé e un danno per la nazione, oggi molto isolata nell’area regionale in cui voleva stabilire un predominio dopo i reiterati dinieghi europei ad aprirle le porte dell’Unione. Per questo la soluzione più indolore per il movimento dell’Islam moderato sarebbe neutralizzare dall’interno l’artefice finora in primo piano. Passo nient’affatto scontato sia per il clan di sostegno di cui gode il premier, sia per una diretta ammissione di responsabilità. Però nel partito c’è chi fa notare che già nelle amministrative di marzo ogni membro dell’Akp impegnato nella campagna elettorale potrebbe essere additato alla maniera del “dagli al ladro” gridata a Istiklal e dintorni. Sporca faccenda per tutti, dunque. Le prossime settimane ci diranno altro.

giovedì 26 dicembre 2013

Il Cairo, esplosioni stabilizzanti


Le bombe s’impossessano dell’esplosiva situazione politica egiziana e gli attentati si susseguono a ritmo quasi quotidiano in vari centri urbani. Giovedì mattina paura e sangue si sono riaffacciati al Cairo, nella zona di Nasr City già carica di tensioni da un anno a questa parte: da lì prese il via la protesta contro il deposto presidente Mursi. Un autobus di linea è stato investito da una deflagrazione che ha ferito cinque persone, una di esse ha  perso la vita. Testimoni sostenevano che lo scoppio fosse avvenuto all’interno alla vettura, si è invece stabilito che la rudimentale bomba costruita con polvere da sparo e schegge di marmo si trovava in un’aiuola a ridosso della fermata del bus. Un successivo sopralluogo poliziesco ha rinvenuto altri tre ordigni simili inesplosi. Niente a che vedere con l’impatto devastante creato dall’attentato di martedì 24 a Mansoura che ha investito un’ampia area (le vittime sono salite a sedici e i feriti a centocinquanta) http://www.lemonde.fr/afrique/video/2013/12/24/egypte-les-degats-d-un-attentat-meurtrier-a-la-voiture-piegee_4339487_3212.html. Quest’attacco al quartier generale della polizia, che ha perso otto suoi agenti, è stato avocato a sé dal gruppo jihadista Ansar Beit Al-Maqadis attivo da mesi nell’area del Sinai.

Attentati veri, attentatori dubbi – Stabilire la paternità di simili atti, rivendicazioni a parte, è un fattore che s’ingarbuglia nell’intrigo della politica nazionale fortemente sostenuto dal ferreo patto fra Fronte di Salvezza Nazionale e lobby militare. La mano degli attentati può essere effettivamente jihadista o mossa dall’Intelligence locale e internazionale. Per non parlare delle infiltrazioni che, comunque, non sono a senso unico visto che alla maniera talebana lo stesso esercito di Al-Sisi può essere usato dagli oppositori. La storia del fallito attentato al ministro dell’Interno Mohammed Ibrahim, confessato in un video-propaganda dall’autore del gesto, l’ex maggiore Walid Badr, può risultare sintomatica di un fenomeno in corso: il reclutamento al jihad di militari o l’inserimento nelle file del nemico di propri adepti. Situazione in cui cadde vittima proprio il presidente Sadat nel lontano 1981. http://www.lemonde.fr/afrique/video/2013/10/28/egypte-les-images-de-l-attentat-manque-contre-le-ministre-de-l-interieur_3504013_3212.html In verità si potrebbe diffidare della medesima rivelazione di Badr, visto che il ministro è scampato alla spettacolare esplosione del 5 settembre scorso e che, come qualsiasi azione paramilitare, essa può portare acqua al mulino della stretta repressiva del governo delle Forze Armate.

Pogrom di Stato contro gli odiati Fratelli – Quest’ultimo col marchio terroristico apposto dal vicepremier Hossam Heissa alla Fratellanza Musulmana la riconduce al buio periodo seguito all’attentato a Sadat, dal quale pur non praticando alcun jihad la Confraternita ereditò prigionie, torture e uccisioni per volontà di Mubarak. Il marchio terroristico apposto alla Brotherhood puzza di piano preconfezionato o di prassi comunque espiatoria nei confronti dell’ingombrante movimento dell’Islam politico, unico a subire le purghe governative (i salafiti non sono attaccati in questo modo). Così poco prima che scoppiassero le bombe nel Delta del Nilo El-Beblawi pensava d’incarcerare anche il suo predecessore Qandil, ultimo esponente dell’establishment rimasto in libertà. Anche lui finisce in galera, come migliaia di oppositori musulmani che da due giorni in 450 hanno iniziato uno sciopero della fame per protestare contro l’ennesimo arresto illecito, e per sottolineare le oscure trame della via del terrore che ormai  s’impossessa della vita quotidiana.

Scioperi della fame - Scende in sciopero della fame anche una triade illustre della Primavera tradita: Ahmed Maher, Mohammed Adel, Ahmed Doume del movimento “6 Aprile”. Tutti condannati a tre anni di detenzione e reclusi dallo scorso novembre per essersi uniti, coi propri seguaci, a sit-in e cortei dell’Alleanza per la Legalità. Schieramento che dal golpe bianco di luglio e dai massacri di metà agosto conduce a rischio delle personali libertà e incolumità la protesta delle “quattro dita” contro militari e politici considerati impostori. Però quest’ultimi godono d’un ampio appoggio fra la popolazione. Non solo coloro che vivono in rapporto alla filiera economica nutrita dalla lobby delle stellette, ma da quella parte dell’Egitto votato a far fuori con ogni mezzo la presenza dell’Islam moderato. Una prosecuzione dello scontro in atto ormai da un anno e mezzo che assume contorni sempre più esasperati e sanguinosi. Da cui non si escludono schieramenti a parole votati alla democrazia: Partito socialdemocratico, Wafd, Partito degli Egiziani liberi, stretti al Fronte di Salvezza Nazionale nel decretare la cancellazione politica, sociale, organizzativa e ideale dei Fratelli. 

Egitto, la via del terrore


Se Mansoura diventa Damasco con un’autobomba che squarcia un edificio di sei piani, fa quattordici vittime e centotrenta feriti, dietro ci può stare lo zampino qaedista ma non solo. Il repentino comunicato con cui il premier El-Beblawi s’è precipitato ad additare la Fratellanza Musulmana come organizzazione terroristica, e quasi ad attribuirle il devastante attentato con cui viene colpito il Direttorato della Sicurezza di Daqahliya, rilancia un’escalation non estranea al copione avviato dal golpe bianco della scorsa estate. Un corto circuito di massacri, proteste e repressione a vari livelli con arresti, messa fuorilegge della Confraternita, persecuzioni di leader, quadri intermedi fino a semplici attivisti e simpatizzanti. E al tempo stesso la negazione del dissenso, bollato come azione anti nazionale che ha messo ai ferri Ahmed Maher, Abdel Fatah, tiene in esilio Wael Ghonim e domenica scorsa ha ucciso Bassem Mohsen, già reso orbo dai poliziotti a Tahrir. Tutti laicissimi, questi attivisti, tutti vittime di Forze Armate e uomini in nero come fossero militanti di Rabaa. Quest’ultimi pur falcidiati non si piegano e si trovano al fianco quei tamarrod pentiti d’aver riposto fiducia nelle divise.

Adesso sembra scattare un piano di terrorismo di stato che, seminando morti e panico, può rilanciare l’odio di un’ampia fetta della società egiziana verso l’Islam politico. Tutto ciò oltre a introdurre misure ancor più draconiane (in questi mesi sono continuati assassini e arresti di oppositori e solo da qualche settimana è stato ridotto il coprifuoco) può rilanciare una definitiva destabilizzazione a suon di attentati. Un vecchio e scontato piano sempre utile per ogni giro di vite. Il ministro della Difesa Al Sisi ha tutto da guadagnare dal caos perché può meglio direzionare il proprio disegno securitario. Egualmente avvantaggiate le componenti qaediste che entrano in gioco in una nazione dov’erano tenute ai margini, capaci di semplici atti di disturbo nella ‘terra di nessuno’ del Sinai, azioni orientate da miliziani mimetizzati fra le carovane di beduini. Passare dagli attacchi a colpi di kalashnikov contro soldati frontalieri o jeep d’ispezione a devastanti autobomba sul modello siriano o pakistano presuppone una familiarità con una guerriglia di ben più spiccata levatura. Qaeda può aver introdotto sue strutture militari da rimpolpare tramite gli stessi giovani braccati o delusi dal progetto legalitario e moderato della Brotherhood e può ampliare un simile approccio all’attuale realtà egiziana, sebbene tutto ciò dovrà essere provato.  

Per ora oltre alle indagini, ovviamente in mano a magistrati e forze dell’ordine, c’è la gestione politica dell’ennesima strage che trova i gruppi politici filo governativi come il Partito dei liberi egiziani, Il Partito costituzionale di ElBaradei e la Corrente popolare di Sabbahi a puntellare le illazioni antislamiche del premier. Al Nour, che nei mesi di canea anti Fratellanza è rimasta acquattata lasciandole il non scelto ruolo di capro espiatorio, parla di attacco alla nazione di forze oscure. Mentre l’Alleanza per la legittimità che manifesta da mesi il sostegno all’ex presidente Mursi afferma come “attraverso continui spargimenti di sangue si cercano nuovi pretesti per perpetrare crimini“. Ma il dito accusatorio è già puntato su di loro, considerati dai più terroristi e criminali.

venerdì 13 dicembre 2013

Afghanistan, una nuova coscienza sulle scale del dolore


Ogni gradino un volto, ogni volto un afghano diventato vittima del suo desiderio di non soggiogarsi a nessuno: all’invasore sovietico, ai signori della guerra civile, ai turbanti talebani, ai caschi dell’Isaf. Vittime di decenni di bombe che continuano a lasciare lo strascico di morte e i parenti nel lutto. Con queste persone da anni lavora la Social Association of Afghan Justice Seekers guidata da Weeda Ahmad. Dopo aver superato la diffidenza dei primi tempi nella raccolta di dati che ricostruiscono gli eventi familiari basandosi su percorsi geografico-temporali che parlano di morte, persecuzioni, scomparse, fughe oggi il Saajs riesce a portare gente in strada. Sua la manifestazione pubblica organizzata questa settimana a Kabul. Uomini e donne afghane che reclamano giustizia per i cari estinti, che chiedono d’incriminare gli assassini, d’identificarli, sebbene la domanda sia retorica perché diversi ceffi dell’arcinota categoria dei signori della guerra siedono in Parlamento. Sayyaf, Fahim, Khalili, Dostum, Khan da oltre trent’anno fanno il bello e il cattivo tempo sulla scena nazionale.
Sopravvivono a qualsivoglia Enduring Freedom, ricoprono cariche di primissimo piano col benestare dei potenti del mondo e si propongono addirittura per la presidenza della Repubblica Islamica nella campagna elettorale già partita. Contro di loro la caparbia volontà di Weeda può poco, sebbene in sei anni abbia raggiunto obiettivi parziali ma significativi. Racconta lei stessa: “Iniziammo nella capitale, allargandoci nelle province di Herat e Badakshan, quindi a Nangarhar, Parwan, Paktiya, Balkh, Bamyan. Tutte toccate da vari conflitti, tutte segnate da morti e lutti. Raccogliere le testimonianze di familiari duramente colpiti era difficilissimo. Il dolore resta a fondo nel cuore, si cerca di non parlarne per non protrarre le sofferenze. Giravamo per le case, ma la gente non si fidava. Potevamo essere fiduciari del governo o spie. Gradualmente le cose sono cambiate: la nostra insistenza, i motivi disinteressati hanno aperto spiragli così parecchie persone si sono confidate. Il successo è stato riuscire a creare una rete di famiglie che, oltre a narrarci la propria storia, ha partecipato ai corsi sui diritti. E alcuni di loro sono diventati investigatori e collaboratori della nostra associazione”. Purtroppo gli speranzosi passi compiuti con l’interessamento delle Nazioni Unite e dell’Umana, avvenuti sino al 2010, sono scemati nell’ultimo biennio.
Negli incontri ufficiali ora riscontro freddezza condita con una dose d’ironia“ denuncia Ahamd. E’ grave per degli organismi che dovrebbero agire in totale autonomia, ma la svolta che fa da supporto alla politica internazionale statunitense morbida e addirittura acquiescente verso i signori della guerra inseriti nel panorama istituzionale e gli stessi Taliban.  Con quest’ultimi si sono aperte le note trattative per inserimenti nei governi del futuro. La moneta di scambio sarà la tabula rasa sui massacri subìti dal popolo e la sempre più rara ipotesi di condurre i responsabili al cospetto di Tribunali internazionali. Il Saajs finora ci aveva creduto,  sebbene dal 2002 Karzai aveva pattuito con l’Occidente la non perseguibilità delle nefandezze compiute nel Paese prima di quella data. Un risultato resta però indelebile nel lavoro fin qui svolto da Weeda e  collaboratori, come il signor Esatollah abitante di Kabul vecchia che da solo ha intervistato oltre cinquecento famiglie: essere riusciti a rompere il cerchio della paura che fino a quel momento avevo bloccato anche il ricordo, rimuovendolo. La coscienza che un simile organismo d’un Afghanistan veramente democratico suscita è un’arma che questi uomini, queste donne si portano dentro. E’ preziosissima e gli servirà. 

giovedì 12 dicembre 2013

Forconi e quattro dita, la rabbia di due proteste così diverse


Fra i forconi rabbiosi d’Italia e le quattro dita ribelli egiziane c’è di mezzo un Mediterraneo che su sponde opposte, e non necessariamente contrapposte, mostra differenti versioni d’un diffuso malcontento. Sgombriamo il campo da similitudini. Al confronto ci spingono i sintomi del malessere globalizzato di un sistema che da noi ha il ricordo d’un benessere in troppi casi tramontato e nella nazione nordafricana non ha avuto neppure un segnale d’una possibile redistribuzione della ricchezza. La sua economia chiusa in un capitalismo di casta prima che di Stato  avvantaggia la lobby militare, con le eccezioni di tycoon straricchi e assolutamente trasversali per fede politica e religiosa. Al Cairo e dintorni pochi businessmen laici, islamici e copti detengono rendite non rimesse in circolo se non in rare forme di lavoro super sfruttato.
Se le strade italiane di queste ore raccolgono il variegato scontento della piccola borghesia d’impresa e commercio, visto che da tempo riscritture economiche ritmate dal liberismo definiscono imprenditore anche il tassista o il norcino con chiosco semovente, i corrispettivi egiziani, che ci sono e sono numerosi, se ne stanno a guardare. In tanti hanno aderito alla rivolta anti Mubarak tre anni or sono poi si sono fermati a chiedere una normalità che non è tornata, anzi s’allontana. L’economia è la grande malata anche nella nazione araba che continua a dipendere dai miliardi di dollari centellinati da amici interessati come gli statunitensi. Costoro, pur fra rimbrotti, hanno sborsato l’1.3 miliardi di dollari a sostegno dell’apparato militare. Oppure dipende dalla monarchia saudita, dispensatrice fino a 9 miliardi di dollari di sovvenzioni per i prossimi tre anni purchè il periodo scivolerà nei modi graditi dai finanziatori. E l’attuale gradimento è tutt’uno con l’annientamento dell’organizzazione più forte, diffusa e votata dell’ultimo biennio: la Fratellanza Musulmana.
L’attacco a quest’organizzazione, che aveva stravinto elezioni politiche e presidenziali, s’è materializzato col golpe bianco di luglio, il massacro di oltre mille attivisti e simpatizzanti, l’arresto della leadership e di migliaia di militanti con successiva messa al bando del movimento. Contro questo disegno un pezzo d’Egitto sta scendendo in piazza ormai da cinque mesi e subisce una repressione senza precedenti al cospetto d’una silente comunità internazionale. L’odierna protesta torna sui temi della libertà individuale e collettiva interdette dall’uomo forte del momento, il generale Al-Sisi. Le sue intenzioni, sostenute dal mai scomparso Egitto mubarakiano, puntano a soffocare ogni dissenso, rimettendo la direzione del Paese in mano alla casta delle stellette e al capitalismo interno solidale e servile verso il controllo imperialista. Negli ultimi tre anni la società egiziana ha conosciuto proteste contro la disoccupazione, aumentata per la fuga degli investitori stranieri dopo il 25 gennaio 2011. Il blocco dell’area industriale del Delta del Nilo e i vuoti nell’amplissima filiera turistica fra le città d’arte e le località marine creano tuttora una situazione drammatica per il quotidiano sostentamento di milioni famiglie. L’Egitto ha conosciuto proteste per i salari bloccati e il carovita, per volute mancanze di generi di prima necessità, finanche granaglie e carburante. Ora la contestazione è tornata ideale, come all’esordio, marcata d’intenti libertari contro la stretta repressiva che reintroduce paure e terrore, stritolando ogni cittadino oppositore.
I giovani urlanti a Torino oppure a Napoli, fuori dalle infiltrazioni fascistoidi o dalle strumentali sassaiole ultrà, accusano la politica ma non sembrano darsi prospettive. A ragione maledicono i governi ladri e gabellieri, imprecano contro i partiti che non li proteggono come un tempo, vomitano improperi su un sistema che non gli garantisce più il ruolo di padroncino, fosse pure di se stesso, usurpandogli lo status, dopo averne incentivato iniziative iper individuali nella corsa sfrenata del tutti contro tutti d’un mercato corsaro che premia ogni sgambetto e colpo basso. Accanto al blocco di qualsiasi rilancio produttivo si constata l’esistenza di un sovrappiù di quei lavori che per fare denaro necessitano dell’altrui denaro. Black-out, dunque, crisi sistemica. Eppure il nostro sistema s’è inceppato ben prima della cannibalizzazione introdotta dalla Troika. Dagli anni Settanta, decennio dopo decennio, il Belpaese dismetteva certa attività produttiva forte. Con la responsabilità della grande impresa che inseguiva improbabili diversificazioni; fuggiva, complice lo Stato, a cercare manodopera a condizioni schiavistiche; inseguiva la finanziarizzazione corsara dei capitali. Illudeva ex operai nel diventare benestanti.
La trasformazione del nostro orizzonte lavorativo ha ingigantito oltre misura il terziario soggiogandolo al clientelare voto di scambio, mentre su un altro versante incentivava l’anabolizzazione del mercantilismo commerciale. Le città rigurgitano impiegati d’ogni genere di servizi spesso inservibili, di negozianti, dettaglianti, trasportatori di merci vaganti come mine per lavori che rischiano di girare a vuoto. E’ l’altra faccia della medaglia d’un capitalismo incapace di sbrogliare una matassa che stritola vite umane, produce storture invogliando inefficaci luddismi. Al cui cospetto il braccio armato dello sfruttamento slaccia in casco e strizza un occhio solidale. Fratellanza sentimentale delle nostre Forze dell’Ordine? Chissà. I loro colleghi in nero al Cairo non l’hanno mai fatto. Anzi. Lì picchiano, sparano, uccidono. Come da noi quando chi protesta fa tremare i Palazzi. E’ qui la differenza fra uomini e donne delle quattro dita e il popolo dei forconi.