lunedì 30 novembre 2015

I misteri dell’omicidio Elçi




Notizie riprese dalla stampa turca (Hurriyet) riguardo alla dinamica dell’omicidio di Tahir Elçi rivelano il ritrovamento a terra d’una pistola, non appartenente agli agenti in borghese in servizio di copertura della conferenza stampa all’aperto tenuta dall’avvocato dei diritti civili in un punto storico del rione di Sur: le quattro colonne del minareto della moschea Sheikh Matar. Quattro giorni prima nel luogo il movimento patriottico giovanile (Ydg-H) aderente al Pkk aveva innalzato barricate e ingaggiato scontri a fuoco con le forze di polizia che impongono da mesi il coprifuoco a Diyarbakır e in molte città kurde del sud-est. La scelta dell’associazione dei diritti presieduta da Elçi di tenere proprio in quel punto dichiarazioni pubbliche alla stampa era simbolicamente voluta e il suo discorso sottolineava il desiderio d’uscire dalla spirale repressione-attacchi che aveva risucchiato la quotidianità della popolazione in una guerra civile strisciante. Fra le note diffuse dai rapporti investigativi, e riprese dai media turchi, appare quella del colpo che ha freddato l’avvocato attivista sparato da circa 75 cm, un colpo che potrebbe essere stato esploso dal killer che correndo ha poi fatto perdere le tracce oppure dai poliziotti presenti che tiravano su questo soggetto. Le riprese della sparatoria, diffuse anche in rete, mostrano gli agenti che rispondono al fuoco partito ad alcune decine di metri di distanza (secondo ipotesi delle forze dell’ordine potrebbe essere quello di giovani guerriglieri kurdi, ma potrebbe invece essere prodotto da infiltrati o agenti provocatori).
Nella concitazione per un attimo Elçi appare affiancato da colleghi e giornalisti, che si riparano contro un muro e fra le vetture posteggiate lungo la stretta via che costeggia il minareto. Quindi il suo corpo esanime s’intravede fra le quattro colonne. Nessun fotogramma, almeno fra quelli circolanti sul web, mostra l’ipotetico passaggio dello sparatore. Il leader del Partito Democratico del Popolo Demirtaş, intervenendo al partecipatissimo funerale del quarantaseienne avvocato kurdo (oltre 50.000 cittadini di Diyarbakır erano alle esequie) ha ricordato le parole di pace che l’uomo aveva pronunciato prima di morire, e chi vuole sostenere che i colpi sono stati portati da combattenti kurdi insinua una diatriba: essere infastiditi da posizioni critiche che Elçi mostrava verso le barricate dei giorni precedenti. Ma nel mese di ottobre l’avvocato era stato arrestato ed era indagato da un procuratore per aver difeso davanti alle telecamere della CNN turca il Partito dei lavoratori kurdi che, a suo dire, per l’impegno socio-politico e l’ampio sostegno popolare non poteva essere considerato un gruppo terroristico. Per tale presa di posizione aveva ricevuto reprimende pubbliche e pesanti minacce private. Nell’infuocato clima politico che la Turchia sta vivendo da mesi, se pensiamo solo alla triade degli ultimi giorni: abbattimento del caccia russo, arresto dei giornalisti del quotidiano Cumhuriyet, assassinio di Elçi, non sarà facile giungere a una ricostruzione fedele dell’omicidio che rischia di venire strumentalizzato a proprio vantaggio dal governo. A più prudenti affermazioni di Davutoğlu, Erdoğan aveva opposto sin dal giorno del crimine la sua litania: il Paese è sotto attacco terroristico perciò  occorre stroncare l’opera di ogni disturbatore. E la comunità kurda, in tutte le sue vesti e componenti, è considerata dal sultano disturbatrice e terrorista.


 

sabato 28 novembre 2015

Diyarbakır, assassinato Elçi l’avvocato dei diritti


 
Muoiono manifestanti, oppositori, avvocati, giornalisti e con loro muore la democrazia nella Turchia erdoğaniana. Stamane Tahir Elçi, notissimo giurista dei diritti civili della comunità kurda e presidente di Diyarbakır Bar Association, stava parlando in strada nell’omonima località, una conferenza stampa all’aperto sul clima repressivo che nelle terre nell’est e nell’intero Paese è diventata da mesi una tragica realtà, quando sono partiti colpi d’arma da fuoco.  Un’azione mirata a seminare morte. Dopo secondi di panico, immagini di cameramen mostrano l’avvocato a terra in un lago di sangue. Chi ha ucciso Elçi? un killer prezzolato, un fanatico che odia gli oppositori, un agente dei servizi, un poliziotto in borghese come quelli presenti che si vedono sparare nelle riprese televisive? La magistratura indaga: da un’auto sono partiti dei colpi contro un poliziotto che crolla, segue una fitta sparatoria che lascia senza vita l’avvocato e un agente. La dichiarazione del premier Davutoğlu  “colpita è la Turchia” è una realtà che nasconde il losco piano governativo di continuare a cavalcare un clima di paura e di difesa della sicurezza della nazione proprio mentre s’incentiva il terrore di Stato.

Perché di fronte a quest’ennesimo ‘omicidio di regime’ il premier e il ministro dell’interno Ala, intervenuto anch’egli sostenendo investigazioni a tutto campo, una responsabilità totale ce l’hanno: non riuscire a garantire la vita a queste categorie di cittadini: attivisti d’opposizione, giornalisti, avvocati, operatori dei diritti e popolazione kurda. Da una preliminare autopsia Elçi risulta colpito al collo e alla schiena, ma un membro dell’Hdp (Ömer Taştan) presente sul luogo afferma d’aver visto un colpo diretto alla testa, mentre un video mostra degli sparatori che puntano le armi automatiche sul gruppo di persone in cui c’era l’avvocato. Ben undici operatori dell'associazione sono rimasti feriti. Recenti dichiarazione di Elçi a favore del Pkk, che a suo dire non poteva essere considerato un gruppo terrorista, avevano sollevato forti polemiche, nell’ottobre scorso l’avvocato era stato anche fermato e condotto in galera. Immediate proteste sono montate a Diyarbakır, dove centinaia di persone si sono riversate per strada per condannare l’omicidio e sono state disperse con idranti e gas urticanti. Manifestazioni anche in altre province ad alta concentrazione kurda e a Istanbul, tutte duramente represse. Mentre il Partito Democratico del Popolo ha denunciato un piano per assassinare Elçi;Ma noi saremo tutti Tahir, lavoreremo e lotteremo come lui per ottenere giustizia” afferma un comunicato emesso in serata.

venerdì 27 novembre 2015

Turchia, arrestati i giornalisti Dündar e Gül


Le minacce erano state dirette e pesanti con tanto di denuncia da parte di Erdoğan in persona: Dündar, il direttore di Cumhuriyet, è un provocatore, traditore e terrorista collegato col network del movimento Hizmet; ha inscenato il ritrovamento di armi nelle casse di medicinali in viaggio verso la Siria per denigrare la patria; merita un ergastolo, anzi due, per attentato alla sicurezza nazionale nel personale del Mıt e per spionaggio. Un assist perfetto cosicché ora un giudice spicca un mandato di cattura per lui e il caporedattore della testata di Istanbul, Erdem Gül. La coppia di giornalisti è stata condotta in carcere, Dündar ha fatto in tempo a dichiarare ai cronisti che seguivano il prelevamento “Noi non siamo né traditori, né spie, né eroi; siamo giornalisti. Quel che abbiamo fatto era attività giornalistica”. La “colpa” dei redattori del quotidiano turco nel servizio del gennaio 2015 (i due arrestati ne rispondono in quanto responsabili) era seguire le tracce che portavano ad alcuni autotreni di aiuti umanitari in viaggio verso la Siria.
Agenti della polizia di frontiera, rovistando fra le casse caricate sui camion trovavano mitra e munizioni, più colpi di mortaio e di contraerea. La perquisizione era stata predisposta da un magistrato, probabilmente c’era stata una soffiata interna ad ambienti giuridico-polizieschi. Ma i reporter erano estranei alla manovra, avevano semplicemente filmato l’operazione di controllo, esercitando il diritto di cronaca. L’accondiscendenza di Ankara verso gruppi islamici impegnati contro il regime di Asad non è cosa nuova e va avanti dal 2012, egualmente il doppiogiochismo nei confronti dei miliziani dell’Isis è palese da oltre un anno, il carico di armi dunque poteva essere rivolto agli uni o agli altri, oppure a quei guerriglieri anti Asad del ceppo turkmeno, i Bayırbucak Turkmens, venuti alla ribalta di recente dopo l’abbattimento del Su 24 russo sul confine turco-siriano. Uno dei piloti è infatti caduto nel territorio controllato da quest’etnìa.
All’epoca dell’imbarazzante ritrovamento, anziché chiarire come mai il materiale bellico si trovasse fra antibiotici e antidolorifici, per settimane i vertici dell’Intelligence hanno accampato scuse, come se dovessero nascondere un’iniziativa maldestra. Quindi nell’ordine il governo per bocca del premier e soprattutto il Capo dello Stato hanno inveito contro lo scoop giornalistico, definendolo una losca provocazione. Non contento Erdoğan ha alzato i toni, ha utilizzato anche quest’episodio per la sua battente campagna repressiva rivolta alla stampa non acquiescente, ha scatenato sul fronte dell’informazione denunce e arresti di cronisti, su quello amministrativo-gestionale veri e propri scippi, com’è accaduto al management della Koza İpek Holding’s media consegnata a imprenditori e amici vicini all’Akp, per finire col tollerare gli assalti alle sedi dei giornali messi in atto da attivisti del partito islamista. Tutte iniziative nelle quali è difficile non cogliere una regìa da parte dell’uomo forte di quello che diventa un “kemalismo islamico” intollerante e fanatico.  

Droni ancora a segno: ucciso un leader dei Tehreek-i-Taliban


La Cia lo dà per morto nell’ultima operazione compiuta da quattro droni nell’area di Damma, fra Afghanistan e il nord Waziristan, il portavoce dei Tehreek-i-Taliban nega decisamente che la notizia abbia fondamento: l’attacco c’è stato, si contano una dozzina di guerriglieri colpiti, ma Khan Said Sajna non sarebbe fra le vittime. Lui è il leader della frazione dei talebani del Waziristan meridionale che ha guidato una ribellione rivolta alla componente dei turbanti vicina al governo pakistano. Sajna è considerato dagli Stati Uniti mente e braccio d’un assalto compiuto quattro anni fa contro la base navale Mehram di Karaki in cui vennero distrutti due aerei statunitensi. Allora non agiva con la sigla TTP, ma da quel momento l’uomo entrava nella lista nera dell’esercito Usa. Invece l’ascesa alla leadership, pur frazionista dei talebani pakistani, era avvenuta dopo l’uccisione, sempre tramite un drone, del precedente capo Hakeemullah Mehsud. Quest’eliminazione è avvenuta in una fase in cui Mehsud s’apprestava a colloqui con l’allora appena eletto premier pakistano Sharif. Probabilmente Washington voleva impedire quest’avvicinamento.
Nelle terre del Waziristan Hakeemullah viene ricordato come un guerrigliero intelligente e coraggioso, l’aneddotica lo menziona alla guida d’un gruppo talebano che nel 2007 catturò addirittura trecento soldati pakistani;  giornalisti che l’hanno avvicinato, come Shoaib Hasan della Bbc, lo presentavano come “un giovane vivace e audace”. Sulla sua fine c’è un velo di mistero perché, dopo l’annuncio della morte a mezzo del cannoneggiamento via drone, una voce maschile registrata che dava le sue generalità sostenne d’essere scampato all’attacco. Forse si trattava d’un messaggio a uso interno fra i miliziani talebani, affinché non ci fossero sbandamenti e defezioni. Il rapporto di questa componente con l’ex fazione qaedista in Pakistan e coi jihadisti locali (Lashkar-e-Taiba, Jaish-e Mohammed) continua a essere stretto. Per contrastare tali forze la scelta statunitense s’è rivolta ormai da quattro anni prevalentemente ai velivoli senza pilota, guidati a distanza da basi che sorgono a centinaia di chilometri (quelle afghane) o a decine di migliaia (quelle del Nevada). Prima di Sajna e Hakeemullah l’antecedente responsabile del gruppo armato, Baitullah, era rimasto vittima di un’eliminazione mirata a mezzo di drone.
Un rapporto del comando statunitense girato alle maggiori agenzie afferma che gli attacchi sferrati negli ultimi giorni hanno registrato l’eliminazione di 45 talebani. Questi dispacci non parlano mai di ‘danni collaterali’ (il termine coniato dall’informazione dello stesso esercito Usa per indicare l’uccisione di civili) che ogni azione si trascina dietro, anche quando parla di colpi mirati perché quest’ultimi non vengono condotti sul singolo bersaglio, ma lo colgono in situazioni in cui è circondato da adepti o semplicemente da gente di passaggio. Così la stampa internazionale s’interroga sull’efficacia del programma e pone la questione se i droni non producano più terroristi (che per reazione abbracciano la jihad) che nemici  colpiti. Inoltre alcuni docenti universitari americani, impegnati sul tema della sicurezza, fanno notare che mancano dati certi sugli effetti delle uccisioni, confermate da chi le esegue, smentite da chi le subisce come nei casi citati, e volutamente carenti riguardo alla popolazione coinvolta. La guerra coi droni evita solo i decessi di piloti (colpiti da altre sindromi, cfr.  http://enricocampofreda.blogspot.it/2015/11/mal-di-drone.html) non di vite di civili, come ogni altro attacco aereo. Mentre perdere un drone risulta molto più costoso d’un F16; ma questo finora accade di rado. 

giovedì 26 novembre 2015

Egitto: urne semideserte


Migliora di poco la percentuale di voto al secondo turno delle consultazioni politiche in Egitto che coinvolgevano 13 governatorati, fra cui la capitale, l’area del Delta del Nilo, Port Said, Suez. I dati, di fonte ministeriale, indicano un 29.9% di afflusso contro il 26.6% del turno di ottobre che aveva coinvolto 14 province. Secondo statistiche esterne il voto complessivo non supera il 21% dell’elettorato. Questo porrebbe in difficoltà la stessa assegnazione delle poltrone parlamentari in alcune località. Dei 596 seggi previsti, 448 vengono assegnati a candidati cosiddetti indipendenti (ma quasi tutti per affrontare la campagna elettorale s’appoggiano a partiti o cartelli elettorali), 120 ai candidati di lista, mentre 28 sono indicati dal presidente. Le prime libere elezioni, successive a quella che viene definita la “rivoluzione di gennaio” (2011), registrarono una corposa affluenza con oltre il 62% degli elettori. Oggi di fronte all’assenza di un’opposizione, tacitata da una spietata repressione che vede incarcerati decine di migliaia di attivisti contrari ad Al Sisi (organismi umanitari avanzano la cifra di 41.000 fra militanti, ma anche giornalisti e blogger) e non soltanto della Fratellanza Musulmana, la lista che fa il pieno di consensi è Per amore dell’Egitto del conservatore Sameh al-Yazal. Sostenitore dell’attuale regime, come lo è il sempre attivo Shafiq che però non aveva rinunciato a una sua creatura elettorale (Fronte Egiziano). Si tratta d’immarcescibili feloul, mubarakiani riciclati, attenti soprattutto al proprio business che la politica di al Sisi promette di garantire, sebbene il caos geopolitico continui a imperversare sul territorio nazionale (non solo nel Sinai) e oltre confine. Ovviamente certi affari ne risentono, quelli legati all’industria turistica in primo luogo che, dopo l’attentato al volo turistico russo, ha visto fuggire dai resort di Sharm el-Sheik decine di migliaia di turisti e fioccare altrettante disdette, ma l’instabilità limita anche il flusso di capitali dell’Oriente vicino e lontano. Reggono gli accordi e le commesse militari (gli ultimi acquisti sono ben 24 Rafale francesi per una spesa di oltre 5 miliardi di euro, mentre un anno fa un altro miliardo era stato “investito” per quattro corvette) che avvantaggiano la lobby dell’ordine, ma non risolvono le sempre aperte piaghe della disoccupazione e d’investimenti che valorizzino prodotti interni.

martedì 24 novembre 2015

Kabul, mani sulla città. Dopo i furti bancari arriva Smart-city

In quella municipalità di Kabul chiamata Shahrak-e Hoshmand, sorta e ora ampliata lungo la via che conduce all’aeroporto - cittadella-bene definita ‘Smart city’ dai signori che se ne intendono - è recentemente comparso mister Khalilullah Ferozi. Per chi ha conoscenza e memoria si tratta d’un elemento (l’altro era Sherkhan Farnood) vicino al clan Karzai. I due furono posti ai vertici della Kabul Bank che nel 2010 registrò scandalosi ammanchi in base a una conduzione di doppia contabilità. Saccheggiando il maggior istituto di credito del Paese per un miliardo di dollari, Ferozi e Farnood arricchivano alcuni partner d’affari, se stessi e i loro padrini politici. Oltre al presidente riceveva fondi il vicepresidente Fahim. Ovviamente i due erano lindi, le tangenti le intascavano i rispettivi fratelli: Mahmud Karzai e Hassin Fahim. Il funzionario dei loschi affari - dopo aver scontato pene minime e domiciliari per i grossi ammanchi che s’estendevano agli elargitori internazionali di denaro, Stati Uniti in testa - riappare nella ‘località dei furbetti’ in veste di azionista.
Prevede di ampliare l’edificazione e propone standard abitativi per la classe media con tre, quattro e cinque stanze per ben 8.800 appartamenti. Nel circondario sono previsti market, giardini, uffici, cliniche, e una moschea. Tutto realizzato dalla ditta di costruzioni Wardak (di Nabizada o Abdul Bari), con la supervisione e la garanzia economica di Ferozi. Avvio del progetto: 95 milioni di dollari, cifra finale 900 milioni. Un business definito “molto prezioso” da tal Zia Massud, consigliere speciale per il Buon Governo (proprio così…). Prezioso sembra esserlo per costruttore e finanziatore: la vendita giungerebbe a 1000 dollari a metro quadro, invece dei 400 realistici; il governo intascherebbe solo 50 dollari a metro quadro. Eppure gli apparati statali lodano la presenza di Ferozi come il positivo segnale di recupero di centinaia di milioni di dollari scomparsi dalla circolazione anni addietro. Quelli che i rumors indicano come denaro legato agli azionisti della Kabul Bank. Di fatto si reintroducono, sotto forma d’investimento edilizio privato, milioni di dollari sottratti alla banca, e si permette nuovamente di specularci su.

Eufemisticamente il governo lo definisce “un meccanismo d’incoraggiamento”, Ferozi fa il bravo sostenendo che pagherà le tasse e il ministero intascherà 75 milioni di dollari. Eppure uno dei punti della linea anticorruzione dell’attuale presidente Ghani metteva in primo piano il caso della Kabul Bank e dei suoi attori, che avevano direzionato parte della liquidità sparita verso aziende controllate da loro stessi. Esempi illuminanti sono la Pamir Air, compagnìa aerea di cui Farnood è tuttora presidente, che intascò 89 milioni di dollari dal saccheggio. Mentre la Gas Group, acquisita dal citato Hassin Fahim, ne incamerò 121 milioni e  continua a ricevere commesse dall’attuale esecutivo per i rifornimenti statali. Insomma il governo, tramite il ministro dello sviluppo urbano Naderi e il consigliere legale Muhammadi, sotto la maschera del pragmatismo che privilegerebbe il recupero del denaro, si fa beffa di qualsiasi rispetto della legalità. Come nel passato: porte aperte al denaro sporco e ai truffatori d’ogni risma per un Afghanistan che non deve cambiare.

lunedì 23 novembre 2015

Diyarbakır, Demirtaş nel mirino

Un colpo d’arma da fuoco potrebbe essere stato sparato ieri sera nell’area di Diyarbakır contro l’auto sulla quale viaggiava il leader del Partito democratico del popolo Selahattin Demirtaş. Il vetro antiproiettile ha resistito, ne è stata individuata l’ammaccatura solo quando la vettura è giunta a destinazione e s’è fermata. Non c’è certezza che la rientranza sulla superficie sia stata determinata da un colpo sparato, solo una perizia di tecnici della polizia darà una valutazione del colpo che potrebbe essere stato causato anche da oggetti acuminati (sassi o metalli) gettati sul veicolo. Ma non come un semplice lancio, visto il danno causato. Sulla sua incolumità Demirtaş si mostra serenamente fatalista, affermando che “la morte è comandata da Dio”. L’episodio, comunque, mette in allerta gli attivisti dell’Hdp, già fatti oggetto di agguati con ordigni esplosivi: quello occorso alla vigilia delle elezioni del giugno scorso mentre il leader kurdo teneva un comizio (4 morti). E il tragico attentato nella piazza della stazione di Ankara (102 vittime), dove, poco prima delle consultazioni del 1° novembre, si radunavano i partecipanti a una manifestazione sindacale e di quella sinistra d’opposizione sostenitrice del progetto democratico dell’Hdp.

In entrambe le azioni il sospetto ricade sulla componente eversiva dei Lupi grigi, ridimensionata ma pur sempre attiva, magari in relazione con le  stesse Forze dell’Ordine impegnate da mesi in una dura repressione antikurda, anche per la ripresa delle azioni armate del Pkk. Oppure sugli stessi apparati del Mıt che, secondo taluni analisti, sarebbero tornati a fare un lavoro sporco per il sistema di potere erdoğaniano. La strage di Ankara viene ufficialmente attribuita all’Isis, della cui struttura operativa sono stati arrestati alcuni elementi. Però il doppiogiochismo del presidente-padrone con questa sigla e con chi c’è dietro (da Al Baghdadi alle Intelligence di varia sponda) rappresenta una pagina inquietante su cui s’interrogano le opposizioni, politica e informativa, soprattutto dopo la rivelazione compiuta dal quotidiano Cumhuriyet sulle fornitura di armi allo Stato Islamico. Per quella scoperta, documentata con un filmato che mostrava bombe nelle casse di medicinali in viaggio verso la Siria, il governo turco parlò di provocazione e montatura, senza rivelare o indagare da parte di chi. Mentre la polarizzazione interna alla nazione s’acuiva, ben poco l’Esecutivo ha fatto contro quei facinorosi dell’Akp che assaltavano sedi dei gruppi d’opposizione e dei media ancora liberi da censure, aggredendo persone e dando alle fiamme immobili. Sino a giungere ai recenti fischi con cui, sugli spalti dello stadio di Istanbul, è stato accolto il minuto di silenzio per le vittime di Parigi. Lì la pancia della Turchia islamica ha mostrato di sentirsi più prossima al Daesh che all’Europa.

venerdì 20 novembre 2015

Mal di drone

Drone syndrome, non è uno scioglilingua. E’ catalogata come patologia, per ora solo psicologica. Il coinvolgimento morale non ha ancora colpito i cow-boys della guerra tecnologica che si ritirano dal programma. Quando lo fanno, assediati da ansia e disadattamento da stress, pensano a fidanzate e sorelle più che ai bambini esplosi sotto i loro clic. E’ ormai una realtà, di cui s’occupano diversi media, l’ultimo è il britannico The Indipendent. Il piano droni avviato in un importante centro militare del Nevada, quindi convogliato anche verso le basi che l’aviazione statunitense ha realizzato, consolidato e ampliato in giro per il mondo (il caso afghano è indicativo, ne esistono sette) appare scarsamente regolamentato e insidiato da problemi psicologici degli operatori-killer, che si rifugiano  nell’alcol e nelle droghe. Niente di nuovo, in Vietnam, Kuwait, Afghanistan, Iraq e altrove queste situazioni tracimavano; le pozioni servivano a tenere alta l’aggressività e scacciare la paura d’un nemico visibilissimo. E pericoloso.
Invece nelle basi tutto è ovattato, il cecchino è ben protetto dal possibile colpo d’un omologo abile e temibile. Il progetto, sorto per iniziativa di George W. Bush, ha subìto un’ampia accelerazione durante la doppia amministrazione Obama. Rappresenta la guerra bianca approntata dal presidente nero che passa per democratico e pacifista (sic), ma è colui che ha incrementato questo conflitto apparentemente soft, che si cela, ingombra poco (non in fatto di finanziamenti), facendo meno rumore dei F16 o dei C-130. Ingombra meno sul fronte della tipologia di mezzi volanti, però non è che costi meno. Anzi, l’industria bellica mondiale è ben lieta della nuova frontiera. Il prezzo d’un Predator oscilla fra i 5 e i 10 milioni di dollari, quello di un F16 si ferma a 3 milioni. Eppure il programma, che continuerà, ha di fronte due genere di problemi, ne parlano documenti degli stessi investigatori interni: la pratica incrementa la ‘sindrome da drone’ e crea “sempre più potenziali miliziani”.
Lo rivela un “pilota” attivo su un gruppo di uomini che trasportava merce in Pakistan. Il rapporto gli indicava il loro camion come nascondiglio di esplosivi. Si trattava d’un sospetto, ma lui doveva agire (e uccidere). Quando ha constatato che l’obiettivo colpito non ha avuto una deflagrazione maggiorata, ha compreso che la nota dell’Intelligence era errata. Ma ormai era fatta. Casi simili appaiono frequentemente. Così un campione del killeraggio sicuro, tal Cian Westmoreland, che sul pulsante aveva marcato 204 tacche di nemici uccisi, a un certo punto ha iniziato a porsi qualche dubbio. “Quei nemici non sono sempre nemici” è lo scrupolo che, fra un’operazione e l’altra, gli s’insinua nella mente e lo twitta. Il messaggio lo leggono in tanti sul social network e lui viene sospeso e spedito a “curarsi”. L’uomo viene considerato affetto da sindrome d’ansia e alterazioni d’umore. Poi ha iniziato a pensare ai suoi cari, alla famiglia, e s’è rivolto alla Veterans Affairs Administration che l’ha indirizzato verso una struttura psichiatrica dalla quale non ha ricevuto benefici.

Il Bureau of Investigative Journalism ha stimato le vittime di attacchi coi droni fino allo scorso settembre in circa 4000 in Pakistan e oltre un migliaio in Afghanistan. Gli operatori riferiscono d’essere stati addestrati per disumanizzare i loro obiettivi; l’esempio più disumanizzato erano e sono i bambini, indicati con l’acronimo tit “terrorists in training”. Alcuni dei soggetti dalla sindrome testimoniano d’aver lottato con la depressione e pensieri suicidi fino al desiderio di smettere con quell’occupazione. “Quando non devi sparare un missile, il lavoro è piacevolmente noioso” sostiene un ufficiale di lungo corso, in servizio dal 2005 al 2011 presso la base di Las Vegas. Lì l’alcolismo non è considerato un problema. Ricorda che quand’era nella base, dopo una giornata di “lavoro e tensione”, li definisce così, poteva uscire per tre, quattro ore recarsi in città a bere. E con la cocaina e il cannabis era ed è la stessa cosa: i responsabili sanno e tollerano per efficienza di servizio.