Drone
syndrome,
non è uno scioglilingua. E’ catalogata come patologia, per ora solo
psicologica. Il coinvolgimento morale non ha ancora colpito i cow-boys della
guerra tecnologica che si ritirano dal programma. Quando lo fanno, assediati da
ansia e disadattamento da stress, pensano a fidanzate e sorelle più che ai
bambini esplosi sotto i loro clic. E’ ormai una realtà, di cui s’occupano diversi
media, l’ultimo è il britannico The
Indipendent. Il piano droni avviato in un importante centro militare del
Nevada, quindi convogliato anche verso le basi che l’aviazione
statunitense ha realizzato, consolidato e ampliato in giro per il mondo (il
caso afghano è indicativo, ne esistono sette) appare scarsamente regolamentato
e insidiato da problemi psicologici degli operatori-killer, che si rifugiano nell’alcol e nelle droghe. Niente di nuovo, in
Vietnam, Kuwait, Afghanistan, Iraq e altrove queste situazioni tracimavano; le
pozioni servivano a tenere alta l’aggressività e scacciare la paura d’un nemico
visibilissimo. E pericoloso.
Invece nelle basi tutto è ovattato, il cecchino
è ben protetto dal possibile colpo d’un omologo abile e temibile. Il progetto,
sorto per iniziativa di George W. Bush, ha subìto un’ampia accelerazione
durante la doppia amministrazione Obama. Rappresenta la guerra bianca
approntata dal presidente nero che passa per democratico e pacifista (sic), ma
è colui che ha incrementato questo conflitto apparentemente soft, che si cela,
ingombra poco (non in fatto di finanziamenti), facendo meno rumore dei F16 o
dei C-130. Ingombra meno sul fronte della tipologia di mezzi volanti, però non
è che costi meno. Anzi, l’industria bellica mondiale è ben lieta della nuova
frontiera. Il prezzo d’un Predator oscilla fra i 5 e i 10 milioni di dollari,
quello di un F16 si ferma a 3 milioni. Eppure il programma, che continuerà, ha
di fronte due genere di problemi, ne parlano documenti degli stessi
investigatori interni: la pratica incrementa la ‘sindrome da drone’ e crea “sempre più potenziali miliziani”.
Lo rivela un “pilota” attivo su un gruppo di
uomini che trasportava merce in Pakistan. Il rapporto gli indicava il loro
camion come nascondiglio di esplosivi. Si trattava d’un sospetto, ma lui doveva
agire (e uccidere). Quando ha constatato che l’obiettivo colpito non ha avuto
una deflagrazione maggiorata, ha compreso che la nota dell’Intelligence era
errata. Ma ormai era fatta. Casi simili appaiono frequentemente. Così un
campione del killeraggio sicuro, tal Cian Westmoreland, che sul pulsante aveva
marcato 204 tacche di nemici uccisi, a un certo punto ha iniziato a porsi
qualche dubbio. “Quei nemici non sono
sempre nemici” è lo scrupolo che, fra un’operazione e l’altra, gli
s’insinua nella mente e lo twitta. Il messaggio lo leggono in tanti sul social
network e lui viene sospeso e spedito a “curarsi”. L’uomo viene considerato
affetto da sindrome d’ansia e alterazioni d’umore. Poi ha iniziato a pensare ai
suoi cari, alla famiglia, e s’è rivolto alla Veterans Affairs Administration che l’ha indirizzato verso una
struttura psichiatrica dalla quale non ha ricevuto benefici.
Il Bureau
of Investigative Journalism ha stimato le vittime di attacchi coi droni
fino allo scorso settembre in circa 4000 in Pakistan e oltre un migliaio in
Afghanistan. Gli operatori riferiscono d’essere stati addestrati per
disumanizzare i loro obiettivi; l’esempio più disumanizzato erano e sono i
bambini, indicati con l’acronimo tit “terrorists in training”. Alcuni dei
soggetti dalla sindrome testimoniano d’aver lottato con la depressione e
pensieri suicidi fino al desiderio di smettere con quell’occupazione. “Quando non devi sparare un missile, il
lavoro è piacevolmente noioso” sostiene un ufficiale di lungo corso, in
servizio dal 2005 al 2011 presso la base di Las Vegas. Lì l’alcolismo non è considerato
un problema. Ricorda che quand’era nella base, dopo una giornata di “lavoro e tensione”, li definisce così,
poteva uscire per tre, quattro ore recarsi in città a bere. E con la cocaina e
il cannabis era ed è la stessa cosa: i responsabili sanno e tollerano per
efficienza di servizio.
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