giovedì 29 agosto 2013

Né col regime né con l’opposizione: la terza via dei kurdi di Siria


Anche dal disastro, dai massacri, dalla guerra fra bande cercano di trovare lo spiraglio d’un futuro politico per il loro popolo in un Kurdistan sovranazionale. Secondo il sogno di Abdullah Öcalan messo nero su bianco nell’ormai nota Road Map. Sono i kurdi siriani, o meglio coloro che seguono le indicazioni del Partito di Unità Democratica (Pyd) vicino al Congresso Nazionale del Kurdistan (Knk) in contrasto, e conflitto, con altre componenti: il Partito Democratico Kurdo (Pdk) e il Partito dell’Unione Libertà (Azadi) che attuano differenti tattiche e nel caos del conflitto si sono trovati a coadiuvare attacchi in zone controllate dai Comitati di autodifesa del Pyd. Kurdi contro kurdi.

Guerra confessionale o convivenza interetnica – Lo afferma un documento dell’Esecutivo del Knk che ripercorre momenti intensi e cruciali della crisi siriana, dalle manifestazioni anti regime del marzo 2011, i primi cortei che si ricollegavano alle Primavere tunisina ed egiziana. Sempre in prima fila fra gli scontenti d’una protesta vociante, severa, ma non certo armata c’era questa fazione kurda già attiva e organizzata nel 2003, strutturata pure in Forza di difesa popolare. Un organismo che nel 2004 non riuscì a evitare gli eccidi di quello che loro definiscono “il regime Baath” a Qamişlo, una delle tante cittadine a ridosso delle centinaia di chilometri su cui corre l’attuale confine turco. Le frontiere e dal 1923 la ferrovia Berlino-Baghdad divisero una popolazione che vive tuttora la sua diaspora in varie nazioni. Dai mesi sempre più tumultuosi della prima protesta, repressa a colpi di mitra da polizia ed esercito siriani, alla successiva nascita dell’Esercito Siriano Libero, foraggiato da Turchia e da un Occidente smanioso di colpire Asad. Fino alla presenza sempre più capillare, e nell’ultimo anno inquietante, della componente jihadista che raccoglie guerriglieri, armi, fondi da sauditi e altre monarchie felici di accrescere il fondamentalismo. Un campo che si amplia anche con liberazioni di prigionieri filo qaedisti definiti dal report del Knk “pericolosi criminali” condannati e spediti in terra siriana “800 dalle prigioni irachene di Abu Graib e Taci, 1200 dalla libanese Bingazi Kuveyfite, 250 dalla pachistana Dera Ismail Han” per rinfocolare le speranze del Fronte Al-Nusra di creare lo Stato Islamico Iraq-Damasco, ben oltre la fascia territoriale attualmente controllata dai suoi miliziani.

Prove di contropotere - In questi anni il Pyd s’è dedicato alla formazione di strutture territoriali nelle città di Aleppo, Hessaké e in centri minori guardando a tutta la fascia denominata Kurdistana Rojava. Una zona ampia e ambitissima per la presenza di petrolio nel sottosuolo e in alcuni punti, come nella regione di Cizre, per la fertilità del terreno, ben altra cosa dai deserti della Siria meridionale. Ricollegandosi a certi mesi di luglio che hanno segnato la recente storia politica kurda: quello del 1979, quando Öcalan “tracciava il percorso della rivendicazione identitaria” o quello del 1982 quando quattro detenuti kurdi nel carcere di Diyarbakır avevano avviato “la resistenza”, lasciandosi morire di fame per denunciare torture e pressioni dell’allora Turchia golpista. Così nel luglio 2012, in piena guerra civile o comunitaria, i kurdi oppositori di Asad rivendicavano la propria “autonomia democratica” e l’Alto Consiglio Kurdo creava tre Comitati per: la diplomazia, i servizi sociali, la difesa. Le “assemblee popolari” in varie città e le “case del popolo” in ogni distretto (in cui sono presenti anche minoranze armene, cecene, arabe, caldee) trovano nelle donne un fulcro e una forza motrice che, partendo dalla specificità della questione femminile, s’allargano per affrontare temi educativi ed economici. Le accademie e le più semplici scuole primarie sono strumenti che impartiscono istruzione ai discenti, formano anche i docenti e saldano le radici etniche e linguistiche kurde. Quest’obiettivo deve fare i conti con la diversità di programma di altre forze politiche kurde che, a detta del partito di Unità Democratica, cedono alle lusinghe dell’establishment di altre nazioni. Proprio il ministro degli esteri turco Davutoğlu ha lavorato su tali divisioni. L’esito è lo straniamento e la migrazione forzata, ora ingigantita dagli eventi bellici che conducono decine di migliaia di nuclei familiari e un’infinità di singoli a sfuggire alla morte rimpolpando la drammatica fiumana dei rifugiati. Le logiche nazionaliste e claniste sviluppano attacchi a situazione esemplari che attuano ciò che Öcalan teorizza: una realtà multietica dove si può vivere in pace. E’ accaduto nel febbraio scorso alla kurdo-araba-assira Tiltemir. Amata e odiata, secondo i punti di vista.


mercoledì 28 agosto 2013

Siria, l’auspicata sporca guerra


In terra di Siria arrivano i Tomahawk lanciati da statunitensi, britannici e francesi per punire, non per cacciare Asad. Un’azione dichiarata lampo che durerà tre giorni al massimo, dicono gli strateghi americani fautori dell’incursione bellica per salvare la faccia al loro presidente premio Nobel per la pace. Ma la contraddizione non dovrebbe trasformarsi in una guerra “umanitaria”, questa già la combattono le milizie pro Qaeda contro le truppe lealiste ai danni d’un popolo massacrato e fuggitivo, con o senza la crudeltà dei gas letali. Mesi e mesi di osservazione passiva da parte d’una cinica comunità internazionale per uno dei nodi più intricati della politica mediorientale che l’intervento previsto non risolve anzi esaspera seguendo, pur nelle differenze, copioni già noti. Però al Pentagono pensano di non ripetere i casi iracheno e libico, non fosse altro perché insoddisfacenti ad appagare i propri scopi geostrategici e politici. Quest’ultimi restano in sospeso nella crisi siriana, poiché la grande incognita da affrontare e il vero obiettivo dell’intervento nel nuovo magma mediorientale sono frutto del ridisegno del quadro regionale e la risistemazione delle alleanze sottoposte alla pressione degli eventi. Che comprendono anche nuove velleità d’Impero russe e cinesi per ora legate a energia e mercati.

Le Primavere arabe sono state un’esplosione di rabbia e bisogni, economici e morali. Hanno scalzato tigri che sembravano di carta (le dittature populiste dei Ben Ali e Mubarak) che però conservano, come nel caso del vecchio raìs egiziano, una salda presa su una parte della società. Nelle due nazioni dove l’Islam politico saliva a furor di voto al potere, in uno spazio temporale pur breve i governi di Ennadha e della Fratellanza non solo non risolvevano neppure uno dei cento problemi che assillano paesi avvizziti dai precedenti malgoverni filo coloniali, ma creavano profonde spaccature su cui infilano gli artigli nostalgici e lobby potenti come quella militare egiziana. Altrove (Barhein, Yemen) era solo repressione, in Siria illusione di scalzare un regime egualmente autoritario che non disdegnava di mitragliare i cortei popolari prima d’ingaggiare un conflitto civile più che coi ribelli propriamente detti, contro milizie foraggiate dall’Occidente e l’internazionale jihadista sostenuta da regimi reazionari e miliardari (Arabia Saudita, Eau, Qatar) mai sfiorati dal vento delle stesse Primavere.

La partita dell’egemonia regionale, combattuta da anni dagli stati iraniano e saudita prim’ancora che dal rispettivo sciismo e sunnismo, sostenuta dalla politica delle alleanze, le prediche degli imam, le scuole coraniche e i pellegrinaggi nei luoghi sacri, i mercati petroliferi aperti e chiusi, gli embarghi subìti e i ricatti del costo del petrolio lanciati, i finanziamenti ai paesi satelliti o presunti tali nei simulacri di banche, hotel a sei e sette stelle, ma anche ospedali, università, scuole e moschee (per comprenderlo basta viaggiare, finché è possibile, dal Libano all’Afghanistan). Combattuta tramite gli alleati che vanno dal “cuscinetto giordano” alla milizia tetragona di Hezbollah, disputata nei mesi e nelle settimane che incrudiscono l’instabilità dell’area col ritorno al passato delleautobomba ricomparse in Libano, addirittura in Turchia e in un  riflagellato Iraq. Proprio il Paese martire a causa dell’invasione inventata da Bush jr e dei comportamenti satrapi di Saddam rischia più di altri l’allargamento di una deflagrazione bellica a catena. Il compromesso della coesistenza fra confessioni ed etnie, esperimento diverso ma non lontanissimo da quello libanese, è nel mirino del sunnismo fondamentalista rinfocolato nelle matrasse wahabbite.

C’è pure la Turchia che dopo le illusioni europeiste era tornata a riguardare a Oriente, ed è costretta a riaggiornare il consolidato modello erdoğaniano, scalfito dalle contestazioni casalinghe e claudicante nel Medio Oriente dove i problemi coi vicini si sono moltiplicati anziché azzerarsi. Il flirt con la Fratellanza, ora in forte difficoltà in Egitto, è diventato un boomerang e vive tutti gli inconvenienti del dramma siriano con le centinaia di migliaia di profughi che premono ai confini e il ruolo turco di belligerante servile, non tanto della Nato cui il proprio esercito appartiene, ma dei capricci della Casa Bianca. Insomma Erdoğan perde terreno in quei circuiti anti imperialisti verso cui aveva diretto uno sguardo molto autoreferenziale. Nella fibrillazione introdotta dall’ipotesi d’un allargamento del conflitto è contro “l’anomalia” iraniana e il suo caparbio antiamericanismo che Washington punta il dito assieme al piccolo-grande alleato israeliano. E’ contro quella realtà autoctona che osa proseguire il programma nucleare concesso a India e Pakistan ma proibito agli ayatollah per la mai rinnegata rivoluzione khomeinista. Obiettivo che sa di antiche revanche e torna attuale; un fine che potrebbe trascinarsi destabilizzazioni della produzione petrolifera capace d’infiammare i mercati del mondo alla stregua di una distruttiva guerra locale.

Restano i popoli: dimenticati, massacrati e traditi anche da chi dice difenderli per spirito di patria, etnìa, confessione, umanità. Gli ideali non li cita più nessuno. Non fanno presa, non cementano e sono fuori mercato.


giovedì 22 agosto 2013

Mubarak, il sorriso che beffa la Primavera


Nei cento rivoli in cui si divide l’interpretazione degli ultimi 55 giorni dell’intreccio politico egiziano: seconda rivoluzione, golpe bianco, non golpe, sanguinaria restaurazione, salvezza della Patria e altro ancora la notizia della scarcerazione di Hosni Mubarak ha fatto meno clamore di quello che ci s’attendeva. Quasi fosse un passo scontato visto l’orizzonte degli eventi. La questione è ampiamente simbolica, come e più di tanti momenti susseguitisi nei due anni e mezzo di Primavera cercata e sperata, tradita e perduta. E il sorriso appena accennato ma non per questo meno beffardo, più da Monna Lisa che da Sfinge, con cui il vecchio raìs ha assistito alle ultime carte giocate dai suoi legali profumatamente pagati riassumono un copione mai scarno di colpi di scena. Quattordici mesi or sono Mubarak doveva finire sulla forca, secondo il dispositivo d’una sentenza che duettava col bilioso volere della piazza che durante il duplice processo (strage e corruzione) circondò per settimane l’area del Tribunale allestita in una delle tante caserme cairote. Il vecchio Hosni venne addirittura dato per morto, non moribondo come dichiaravano avvocati e familiari, ma colpito da collasso. I detrattori sostenevano si trattasse d’una sceneggiata volta a commuovere la Corte che sull’onda rivoluzionaria non si fece impietosire, pur mutando la pena in ergastolo.  

La “malattia” condusse il condannato dalla cella all’infermeria dove, con l’ampia schiera dei fedelissimi, ha atteso il crescente vento antislamico che introduceva un cambio di prigionia: fuori il vecchio tiranno dentro il nuovo, cioè Mursi presidente per dodici mesi odiatissimo dagli avversari laici. Se dietro ai simboli c’è sostanza, e qui ce n’è a iosa, la mossa sostenuta dai due poteri forti (Forze Armate e Magistratura) che formano il nuovo blocco egemonico assieme alla tumultuosa piazza anti Fratellanza ha voluto collegare la trascorsa e attuale dirigenza militare filo-yankee, checché ne dica chi ritiene Al-Sisi ammiratore di nuovi Imperi. Certo il generalissimo - lui vero presidente in pectore d’un Egitto normalizzato non ‘giocatori di sponda’ alla Sabbahi - potrà cercare anche alleanze con Mosca, Pechino, Delhi o chissà dove, però la restaurazione che si delinea segue percorsi regionali: i buoni rapporti con le petromonarchie, saudita in testa, e con Israele che stravede per il militare pronto a chiudere varchi ufficiali (Rafah) e ufficiosi (tunnel) verso la Striscia governata dai Fratelli di Hamas e silurare ogni sorta di jihadismo.

Smarrita è la Tahrir della prim’ora, quella del “6 Aprile”, dei socialisti rivoluzionari, dei cani sciolti della sinistra laica e sindacale che nella foia dell’opposizione alla Costituzione “islamica”, nel conflitto latente e poi aperto dei mesi scorsi s’è unita al Fronte di Salvezza Nazionale diventato la maschera per i reiterati massacri militari. La riabilitazione di Mubarak non va giù a questo fronte già minoritario e oggi surclassato dai Tamarod, spiazzati un po’ anche loro dalle conseguenze della sentenza che porta il simbolo di trent’anni d’affossamento della nazione al calduccio prima d’una nuova infermeria poi nella sontuosa villa di Sharm El Sheik. Quest’immagine ridà fiato a chi non vuole che l’Egitto cambi una virgola riguardo allo strapotere economico della lobby militare, alla politica come affare clanista impregnato di corruzione, a una reale redistribuzione della ricchezza. E quel che viene propagandato come orgoglio,  autodeterminazione e allontanamento dai finanziamenti-capestro statunitensi e occidentali ha il sapore d’una possibile bugia. Basta attendere per vedere sviluppi comunque votati a schiacciare l’organizzazione della Confraternita che mostra alcune novità. Preoccupanti.  

Arrestato e umiliato Badie, bloccati nonostante i travestimenti d’ogni genere anche il portavoce del partito della Libertà e Giustizia Mourad Ali e il tonitruante predicatore Safwat Hegazy, per il momento diventa Guida Suprema della Fratellanza un duro e puro: Mahmod Ezzat. Sessantanove anni, medico, fu braccio destro di Sayyid Qutb (il teorico dello scontro armato fatto impiccare nel 1966 da Nasser, al cui pensiero si richiamano anche taluni qaedisti). Ezzat ha alle spalle dieci anni di galera, dall’epoca Nasser che lo rinchiuse nel 1965 sino a Sadat, uscito terminò gli studi in medicina in Gran Bretagna, salendo la scala gerarchica dell’organizzazione anche grazie alla sua professione. Tornò in galera per la stretta repressiva di Mubarak dal 1995 al 2000. Tattico e astuto è conosciuto con l’appellativo di “volpe” sebbene siano note le su posizioni oltranziste che lo contrapponevano al moderato Badie. Dalla destituzione di Mursi sono sue le proposte di sit-in ad libitum contro cui i militari hanno deciso di scatenare la furia omicida. Adesso alle sue idee, finora marginali dentro la Confraternita, stanno guardando molti militanti. Da oggi alle prossime settimane vedremo se i “venerdì della rabbia” del “fratello di ferro” sceglieranno vie davvero non pacifiche e di rottura.

martedì 20 agosto 2013

Egitto, l’umiliazione della Fratellanza e la smania di guerra


Il volto smunto di Mohamed Badie, la guida spirituale della locale Fratellanza Musulmana, accasciato fra due “angeli custodi” della polizia politica in un furgone che lo conduce in un carcere segreto, fa parte dell’umiliazione riservata dalla coppia Al-Sisi El-Beblawi all’organizzazione islamica. Dopo cinque giorni di stragi enormi e minute che hanno fatto mille morti, oltre ottomila feriti, duemila arrestati che sperano di non finire gasati come i 37 loro Fratelli, e una dozzina di emittenti chiuse, il canale governativo OnTv ha mostrato il settantenne leader islamico nella condizione di cattività che rimanda ai momenti più bui vissuti dal corpo militante della Confraternita. Sotto Mubarak e prim’ancora. S’è detto: la Brotherhood è abituata alla clandestinità, vissuta sino alle più recenti tornate elettorali d’inizio Duemila, dunque sopravviverà. Vero, ma l’attacco subìto, stavolta davanti agli occhi del mondo, potrà sviluppare non poche ripercussioni in un quadro che non riguarda solo l’Egitto. 

La vastità della repressione messa in atto dalle Forze Armate del Cairo fa il paio col ridisegno politico che l’intera area del piccolo Medio Oriente ha assunto da tempo in base alla guerra civile e a quella fomentata in Siria, alla destabilizzazione del Libano, all’offensiva contro Hezbollah e la sua leadership, al sempre esplosivo Iraq, alle emergenze prodotte su varie frontiere dalle migliaia di profughi per ora siriani e kurdi, domani anche egiziani. E’ stato ricordato come Al-Sisi, che pure venne collocato da un ottimista o iperealista Mursi nel ruolo di capo della potente lobby in divisa, è un soldato formato negli Stati Uniti. Ha gestito in patria l’Intelligence ed è vicino a Israele con cui ha collaborato per tenere sotto pressione la componente combattente di Hamas nella Striscia di Gaza e controllare la galassia jihadista nella polveriera del Sinai. Il recente attacco omicida verso 25 poliziotti da parte di quest’ultime forze riveste la duplice funzione di propagandare la “nuova via” per il futuro egiziano vendicando le centinaia di martiri e sfregiare l’immagine efficientista del generale del golpe. Uno sviluppo armato del contrasto politico non dovrebbe premere neppure agli uomini in divisa che quello scontro dovranno sostenere. Il loro passato (prima fase della guerra del Kippur a parte) è avaro di successi e dai detrattori interni vengono ritenuti uomini tronfi e inefficienti, buoni solo per reprimere e opprimere la popolazione disarmata. 

Eppure la sanguinaria uscita allo scoperto di questi generali è il probabile frutto di mosse internazionali fatte digerire dalle potenze regionali alla titubante amministrazione Obama. Ci riferiamo a Israele, stretta nella morsa della destabilizzazione siriana (e libanese) e della logorante crisi egiziana e all’Arabia Saudita che polarizza attorno a sé le altre petromonarchie contro l’invadenza qatarina e continua a giocare la partita egemonica a distanza con l’Iran. Nella desertica “terra di nessuno” del Sinai il jihadismo amplierà azioni e reclutamenti, stimolati proprio dalla stretta repressiva voluta dalla politica nazionale. Può accrescere le fila togliendo spazio allo stesso fondamentalismo salafita, s’avvantaggerà il combattentismo qaedista rodato da una pratica pluridecennale e rilanciato dalla Siria ai confini turco e libanese. Nell’emergenza che s’ingigantisce la radicalizzazione si può allargare a macchia d’olio, trasformando altri angoli d’Egitto, abitati o meno, in tanti Sinai dove lo scontro assume i contorni della guerra aperta. E utilizza, come ha fatto due settimane fa Israele con la complicità del Cairo golpista, i droni per abbattere i nemici. Speriamo non accada, ma l’afghanizzazione è dietro l’angolo. 

lunedì 19 agosto 2013

I terrorismi che inquinano l’Egitto


Terrorismo è lo spettro agitato in queste ore dentro e fuori la nazione egiziana. Ne parla il generale Al-Sisi dicendo che la “pulizia politica” finora praticata, oltre mille morti in tre giorni secondo cifre al ribasso, serve a prevenire il peggio. Lo sostengono anche gli intellettuali pro-golpe, un esempio è lo scrittore Khaled Al-Khamissi (autore di successo con Taxi) per il quale il repulisti dei militari fa bene al Paese. Terroristi sono definiti i devastatori d’una cinquantina di chiese copte e musei a Minya e in altri luoghi, ma si potrebbe parlare di fondamentalisti islamici e baltagheyah. Non c’è cenno di “terrorismo” nelle valutazioni che un’ormai allarmata Comunità internazionale dà dei massacri indiscriminati compiuti da poliziotti e militari. Si ventilano sanzioni che fanno sorridere il governo tecnico del Cairo. L’esecutivo di El-Beblawi sa che si tratta di un gioco delle parti, sa che i poteri forti, fra cui spiccano le lobbies israeliane orientatrici della politica estera statunitense non solo in Medio Oriente, hanno già offerto il benestare al terrorismo di Stato. In sintonìa coi politici d’Israele, in prima fila il già laburista-terrorista Barak ha ricordato che l’esercito egiziano è una pedina fondamentale nel contenimento dell’opposizione alla propria occupazione dei territori palestinesi.

Nel Sinai, spina nel fianco dello status quo degli accordi di Camp David, è ricomparsa un’azione terrorista o jihadista; dura, violenta che fa 25 morti fra i militari egiziani in un villaggio non distante dal valico di Rafah sulla Striscia di Gaza. Se l’attacco è frutto dei gruppi jihadisti che si muovono fra deserto e carovane beduine lo sapremo presto; com’è possibile pensare a una crescente presenza qaedista nella zona, e nel Paese, che lo scontro aperto del golpe sanguinario va inesorabilmente a nutrire. Non basterà la semiretromarcia con cui Al-Sisi non procede alla messa fuorilegge della Fratellanza come aveva ventilato, e afferma che in Egitto “c’è posto per tutti”. I militanti della Confraternita trovano da giorni posto negli obitori, nelle galere dove vengono deportati e uccisi come nella migliore tradizione del militarismo criminale e assassino. Il caso dei 36 o 38 (la mattanza tratta gli individui come numeri) attivisti deportati dalla Moschea assediata di Al-Fath al carcere Abu Zaabal di cui il Ministero dell’Interno non può negare la morte e farfuglia due versioni: uccisione a seguito di un loro sequestro di un agente oppure intossicazione da gas per una tentata evasione, mostra accanto all’orrore l’intento abominevole di quella parte d’Egitto che scanna a freddo i suoi fratelli. 

Costoro potranno pure avere la maiuscola, sinonimo per gli avversari d’intolleranza e desiderio d’imporre la Shari’a (nei mesi del governo islamico in verità più presunta che applicata) però l’inasprimento crescente, aprioristico, fanatico fra le parti diventa il veleno che inquina la terra d’Egitto. Il tanto sangue versato porta nel profondo questo veleno diffuso a piene mani anche da coloro che hanno il delicato compito di dirigere e orientare: ceto politico e mass media. L’esasperazione con cui emittenti (OnTv, Al Qaira Al Youm e altre) hanno ripetuto per mesi il mantra che Mursi e Qandil puntassero subdolamente a creare un califfato, idea ventilata magari da qualche canale salafita, è un falso che non distingue le varie anime dell’Islam politico. Così come parlare della Brotherhood come di un movimento rimasto fermo alle teorie del suo leader più intransigente (Sayyd Qutb) peraltro condannato all’impiccagione da Nasser. La radicalizzazione dello scontro potrebbe rilanciare all’interno dell’oggettivamente moderata Fratellanza posizioni estreme, per quanto quest’ultime allignino altrove. Come mostra da anni il wahabbismo cullato dai potenti sunniti del Golfo che non amano la Confraternita e guardano all’Egitto coi medesimi intenti dell’alleato statunitense.       

sabato 17 agosto 2013

Egitto, dallo scontro politico alla guerra civile





E’ sul ponte “12 maggio” del Cairo - osservate le immagini - che si delinea il futuro dell’Egitto voluto dai laici democratici felicemente avvinti ai generali. I mitra che sparano dai tetti e quelli che compaiono nelle mani di qualche manifestante islamico sono il prodromo della guerra civile che si prospetta. Nello scorso dicembre, davanti al palazzo presidenziale di Al-Ittihadiyyah e poi ad Alessandria, s’era fatto fuoco con più rudimentali fucili da caccia, ma la via delle armi è apertissima e vede tanti mercati cui accedere. S’è detto - la certezza tutt’ora manca - che i cecchini di ieri non fossero agenti in borghese bensì miliziani di un neonato “Comitato di difesa popolare”, un organismo voluto dal Fronte di Salvezza Nazionale diretto dalla triade Moussa-Sabbahi-ElBaradei, quest’ultimo ancora una volta dimissionario dal ruolo di vicepremier dopo la mattanza del 14 agosto. Su tali apprendisti stregoni della politica egiziana, a lungo accusatori dei vertici della Fratellanza per gli oggettivi incerti passi di governo ma indisponibili a qualsiasi collaborazione e pur anche a investiture ottenute solo grazie alla malleverìa militare, pesa una buona parte della responsabilità della crisi nazionale. Perché su ogni questione costoro hanno respinto confronto e dialogo, hanno estremizzato i rapporti fra gli egiziani polarizzando al massimo ogni accento del quotidiano.

L’odierno caos fa inchinare tutta la popolazione alla potente casta delle stellette, anche i seguaci laici che l’applaude. Riconduce i cittadini al servaggio verso la lobby militare che decide le sorti del Paese. “Incoronazione” del presidente (per sessant’anni un ex adepto), sorti elettorali, aperture e chiusure del Parlamento, finanziamenti internazionali e gestione degli stessi per l’enorme quantità di attività economiche controllate dalle Forze Armate. Altro che Rivoluzione, Tahrir, vento di libertà e democrazia e pur anche d’islamizzazione, l’Egitto è dei generali come con re Farouk e col sogno nasseriano. Trascorsi trasformati in vita densa dei vizi occidentali, corruzione in testa, e della disponibilità agli interessi d’un colonialismo di ritorno ben oltre il lassismo autoctono descritto nelle pagine di Mahfuz. L’importanza della rivolta egiziana del gennaio 2011 consisteva nella rottura del cerchio della paura con cui i bisogni di chi reclamava pane e libertà apparivano alla luce del sole, superando i timori della repressione di Mubakharat e baltagheyah, la falsità del paternalismo mubarakiano, l’immobilismo e l’incapacità d’un ceto politico poltronista e autoreferenziale. I cairoti dei suburbi poveri laici, islamici e copti trovavano questo comune denominatore che si fondeva col desiderio del ripristino della dignità di tanti lavoratori e anche professionisti dei ceti medi. Per mesi dietro al conflitto fra laicità e islamizzazione è corso il vero leit-motiv di una Primavera rimasta incompiuta: la lotta fra chi voleva cambiare e chi no. Guardando a fondo questo fronte risulta trasversale: progressisti e conservatori vivono in entrambi gli schieramenti perciò si è assistito a una lotta per il potere.  Alla Fratellanza bisogna riconoscere che i suoi seggi parlamentari e la presidenza della Repubblica erano frutto d’un voto popolare non di mai verificate petizioni o peggio di smanie golpiste.

Tutto questo è però il passato. La degenerazione sta nell’aver imboccato la via dell’odio verso l’avversario contro cui riversare solo violenza;  disquisire su chi abbia per primo acceso la miccia risulta operazione di pura accademia. Il desiderio di polarizzazione e l’incrudirsi dello scontro politico sono stati praticati da entrambi i fronti (laici che boicottavano l’Assemblea Costituente e islamici che accelerarono la stesura della Carta) ma gli assalti alle sedi della Fratellanza, gli scontri fisici e le sparatorie hanno introdotto la via del non ritorno. Nonostante i mesi di tregua in cui Qandil e Mursi, pur fra palesi pecche di conduzione, varavano un nuovo gabinetto invitando personalità laiche a farne parte. Inutilmente. ElBaradei scuoteva la testa e si prestava alla preparazione del golpe bianco di Al-Sisi il cui epilogo sono state piazze tinte di rosso e moschee trasformate in obitori. Mentre qualcuno, magari a insaputa dei leader “utili idioti” inizia i preparativi paramilitari, più che per affiancare l’esercito alla maniera del golpismo sudamericano d’altre epoche, per partecipare alla caccia al Fratello. Ma è sul versante dei colpiti che il simbolo del martirio può non rimanere il solo lenzuolo bianco e trasformarsi in kalashnikov qaedista e autobomba, come in Siria, come sta riaccadendo a Beirut. Forse solo a quel punto si penserà che il fondamentalismo è altra cosa e Mursi poteva essere sostituito semplicemente con nuove elezioni. Elettorato permettendo.

venerdì 16 agosto 2013

L’Egitto che muore per l’Egitto



Si spara e si continua a morire. Al Cairo e altrove si contano altre 25 vittime mentre il mondo guarda la mattanza degli islamici. Sono come gli altri figli d’un Egitto obbligato alla guerra civile da aguzzini in divisa con facce incoscienti quasi inconsapevoli del male fatto a tutti. Chi li conosce li accusa. Capi e sottoposti, altri li difendono. Riportiamo due impressioni riprese oggi da Facebook. Scrive Muhammad: “Il nostro esercito, i generali sono vigliaccamente audaci solo nel giocare a tiro a segno con la popolazione indifesa e hanno un grande difetto: non conoscono la storia. Non comprendono che se fino a oggi avevano, sulla carta, qualche sostegno fra la gente dopo simili bagni di sangue quest’appoggio svanirà. Non conoscono la storia neppure i grandi sostenitori dell'esercito egiziano: Stati Uniti e Israele. Ieri in Turchia la gente ha manifestato in sostegno degli egiziani e contro l'esercito; indovinate dove? Davanti all'ambasciata americana. Perché? Perché la popolazione ha compreso che quando c'è morte e distruzione in Medioriente è da lì che arriva tutto. Ed è inutile che la Casa Bianca si metta a condannare ormai non la dà a bere nemmeno ai bambini. Oggi l'Egitto intero è in lutto per i suoi martiri e quei coraggiosi figli che hanno dato la vita per un futuro migliore. Ma la nazione dovrebbe comprendere che il dado è tratto e che il conto alla rovescia per Al-Sisi e la sua banda è iniziato. “Versate questo sangue, la nostra vita sarà più duratura. Uccideteci, la nostra gente diverrà sempre più cosciente". Erano le parole dell'Imam Khomeini negli anni della rivoluzione in Iran che però sembrano pronunciate proprio per l'Egitto di oggi. E come accadde per l'Iran, anche in Egitto la gente vincerà”.

Esattamente all’opposto Shaymaa “Da sopra la stazione di polizia di Al-Warraq, vicino a Imbaba (Cairo) dove abito ieri ho visto coi miei stessi occhi un gruppo di Fratelli Musulmani e di salafiti che irrompevano nella caserma. Portavano armi e hanno fatto fuoco sulla gente per strada e su di noi, nelle case. Io e la mia famiglia stiamo bene, ma i Fratelli Musulmani hanno deciso di devastare l'Egitto. Hanno affermato chiaramente: "Incendieremo il Paese e verseremo sangue in ogni luogo, uccideremo i militari, la polizia e l'opposizione". E lo stanno facendo da settimane. Ogni giorno combinano qualcosa poi tornano al luogo del sit-in, in Rabaa, dove entrano negli appartamenti con la forza e usano i bambini degli orfanotrofi. Da noi - giuro su Dio, giuro su Dio! - non c'è un golpe militare, siamo scesi in piazza perché Morsi è un traditore e i Fratelli Musulmani sono terroristi. Siamo scesi in piazza per quattro giorni di seguito, in tutte le piazze egiziane, e abbiamo chiesto al generale Al-Sisi di proteggerci da Morsi. Morsi ha rifiutato tutte le nostre richieste, decidendo di uccidere la gente per strada. Per questo Al-Sisi s’è intromesso nella questione. Ha deciso di aiutare la gente. Per Dio, io sono musulmana, ma non amo i Fratelli Musulmani. Per Dio, sono dei terroristi. Morsi ha fatto uscire di prigione i terroristi nel primo mese del suo governo e adesso il Consiglio di Sicurezza dell'Onu ha deciso di riunirsi contro l'Egitto a causa di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia. I Fratelli Musulmani bruciano le chiese e noi le proteggiamo. Abbiamo tanti, tanti, tanti problemi per il terrorismo dei Fratelli Musulmani. Voglio che la voce degli egiziani raggiunga tutti i paesi del mondo perché l'ignobile Al-Jazeera mente. Per Dio, non è vero quel che dicono Al-Jazeera e il Guardian! Il Guardian aiuta i Fratelli Musulmani forse perché loro contribuiscono al giornale. La prima intervista rilasciata da Morsi dopo esser diventato presidente è stata pubblicata dal Guardian."

Le lacrime, i colpi sui corpi, sangue, gas, grida, silenzio. Il fumo nero delle ruote bruciate dalle molotov, uomini e donne caduti a centinaia, da ammassare, da piangere, da colpire ancora, da vendicare, da indicare ai familiari, da trasportare nella Moschea trasformata in obitorio e poi di nuovo fuori. Poveri corpi diventati cadaveri che il caldo a 36 gradi dopo ore inizia a martoriare a sua volta. I blocchi di ghiaccio adagiati sulle membra inerti, le carni imbiancate. Questo racconta Salem, uno dei giovani attivisti accorso da casa sua alla Moschea Al-Iman diventata un incubo dopo essere stata voce di protesta. Accompagna adulti e giovani al mesto riconoscimento dei martiri. Tanti parenti vengono da fuori, anche dal profondo sud perché certi militanti fedeli avevano fatto centinaia di chilometri per accamparsi ad Al-Nasr in sostegno del presidente defraudato. L’odore di morte è insopportabile per gli stessi attivisti motivati dalla pietosa opera, intenti a fronteggiare i graduati dell’esercito pure sul fronte burocratico: l’ordine governativo è disfarsi presto dei cadaveri, dargli sepoltura per ragioni di salute pubblica. Riconosciuti o meno. L’efficienza della burocrazia si vede nella puntuale esecutività: così i cecchini hanno liberato la piazza dall’ingombro d’una protesta ostinata e “suicida” che sostiene di volersi perpetuare. Pum pum, sangue e fine vita. Ora occorre disfarsi del cittadino disobbediente che non chinava la testa al volere del generale. Bisogna sgombrare, nettare, chiudere il cerchio, archiviare anche questa strage dopo quelle della prima rivolta, dei cammelli lanciati sulla folla, di Maspero, Mohammed Street, dello Stadio di Port Said, di Al-Ittihadiyyah, della caserma della Guarda nazionale, delle Moschee di Rabaa, Al-Iman… Solo Allah sa quel che può seguire.

giovedì 15 agosto 2013

Il Cairo, un “mercoledì nero” che viene da lontano


La repressione cieca e sorda con cui in sei settimane si conclude la sedicente “seconda Rivoluzione” egiziana smaschera, se ce ne fosse ancora bisogno, le reali intenzioni della lobby militare e della parte più retriva del Paese. Esse trovano nel generale Al-Sisi l’uomo forte pronto a sparare sulla folla (come avevano fatto negli ultimi due anni il ministro dell’interno Al-Hadly e il feldmaresciallo Tantawi) e contemporaneamente il potenziale presidente-dittatore garante della propria casta, degli interessi di classe interni e di quelli d’un Occidente che non vuole rischiare avventure islamiche. Nonostante il balletto delle aperture e chiusure di Obama alla Fratellanza di Mursi Washington, il grande sostenitore e finanziatore di Forze Armate sempre più stragiste, simula imbarazzo e lancia richiami al bon ton d’un autoritarismo politicamente corretto. Però deve fare i conti coi risultati del proprio immobilismo ignavo che ormai accetta i volti più inquietanti della destabilizzazione del piccolo Medio Oriente. Fra essi, seppure in situazioni di differenti realtà politiche, il gioco d’azzardo alle spinte disgregatrici di guerre civili in corso (Siria) e striscianti (Egitto) introduce nuove emergenze.

L’impasse bipolare in cui l’Egitto si dibatte non può protrarsi oltre. Ma è anche vero che la via dell’illegalità intrapresa dai generali e dai loro “utili idioti”, come il perennemente acquiescente e dimissionario ElBaradei perfetta maschera liberale di periodici massacri, diventa il percorso più tragico per una nazione che sognava democrazia e libertà. La “Rivoluzione dei generali” miete vittime al di là di qualsiasi credo politico e religioso.  Oggi è l’ora degli islamisti moderati ma si prepara a togliere spazio ai salafiti, opportunisti dell’ultim’ora e ai movimentisti tatticisti della prima. Tardivamente i politicizzati del “6 Aprile” e i “Socialisti rivoluzionari” s’accorgono che anche per loro non ci sarà più ossigeno da respirare né angoli di Tahrir dove sedersi per preghiere laiche e utopie di cambiamento.  Il trattamento si ripeterà per molti. Il golpe bianco ha mutato colore, s’è macchiato del sangue di 600 o 4.600 (la reale cifra dei martiri non cambia la sostanza della propensione al massacro) e lascia in eredità solo i terribili gas degli uomini in nero e le mortifere pallottole di spietati cecchini che mirano alla testa e al cuore. Quelle teste e quei cuori possono non essere necessariamente di attivisti islamici perché Al-Sisi è egualmente devoto del Corano e della divisa che veste, e la fede per quest’ultima non lo esenta da trasgredire agli insegnamenti del sacro testo.

Se per scalzare Mursi i Tamarod puntavano a vincere facilmente sostenendo d’avere venti milioni di egiziani al seguito e contando sui  blindati dell’esercito e sulle esibizioni aeree che salutavano quel pezzo d’Egitto entusiasta dell’arresto d’un presidente che non sentiva suo. Oggi a dominare la scena sono il terrore e la morte, il coprifuoco, le possibili leggi marziali, la ricerca di ordine e obbedienza. Ben oltre i princìpi della Costituzione scritta e da riscrivere, il contrasto fra laici e islamici è diventato esclusiva lotta per un potere di fazione che ha favorito la parte più forte, quella che pratica il mestiere delle armi, che azzera le altre con ogni strumento, giustificandosi con presunti interessi nazionali e tutela del Paese. Proprio così. La stessa popolazione che lo scorso 30 giugno salutava i militari se ne sta chiusa in casa temendo il peggio. Il meglio che può sognare per il futuro è l’impossibilità di manifestare. Mentre la Fratellanza decimata nelle strade è sconfitta due volte: dall’essere rimasta prigioniera d’un ego capace di alienarle qualsiasi alleanza e dall’incrudirsi d’uno scontro politico comunque cercato che a questo punto potrebbe ricondurla verso la scelta antica d’una clandestinità armata. Oppure provocarne un’emorragia soprattutto di giovani attivisti che cercheranno rifugio in proposte di jihad. 


venerdì 9 agosto 2013

El-Menshawy “Neofascismo, islamofobìa, classismo avvelenano la vita egiziana”


A metà fra denuncia e grido di dolore alcuni intellettuali egiziani evidenziano l’esplicito pericolo che il Paese corre dopo la destituzione del presidente Mursi per iniziative orchestrate da forze reazionarie. Un complotto? probabilmente sì sebbene manchino le prove tangibili. Di certo l’offensiva che trova ampia sponda nelle Forze Armate e nel movimento d’opinione laico gestito da Tamarod e Fronte di Salvezza Nazionale è stata ben condotta dalle componenti del mai tramontato Egitto dei raìs che tante porte aveva aperto al colonialismo di ritorno nei suoi risvolti più beceri e servili. Lo sostiene l’intellettuale Mohamed El-Menshawy, conoscitore degli inquietanti risvolti dell’occidentalismo più retrivo avendo studiato e lavorato negli Stati Uniti. Sicuramente i filo yankee l’accuseranno di antiamericanismo ma El-Menshawy non si esenta dalla cruda analisi sulla triade criminale (neofascismo, islamofobìa, classismo) che avvelena la vita del Paese. 

Fascismo rampante - “C’è un fascismo rampante (l’autore utilizza questo preciso riferimento ideologico, ndr) che inficia il processo democratico presente nella ribellione di piazza e nel voto liberato dalla pressione delle lobbies. I due momenti sono stati i pilastri partecipativi della Rivoluzione del 25 gennaio contro la gestione personalistica e tirannica del potere”. Questo fascismo, come altri, non ama il popolo, lo usa però non cerca una sua emancipazione, al più lo lusinga con uscite populistiche che comunque discriminano le classi più povere. El-Menshawy prosegue sottolineando l’esistenza d’un razzismo neppure tanto velato nei pronunciamenti con cui un certa leadership sostiene come le libere elezioni del 2011 e 2012 siano stati inaffidabili pronunciamenti d’una massa incolta e analfabeta. Dietro quest’attacco al principio base della democrazia si cela l’idea esclusivista che soltanto un’élite, la propria, può essere capace di decidere le sorti dell’Egitto e dirigerlo. “Costoro non vogliono occuparsi dei diritti individuali, di eguaglianza sociale, sono abituati alla compera del voto e ai brogli, ampliano la corruzione negli apparati statali praticando con simili manipolazioni gli interessi del ceto benestante cui appartengono”.

Islamofobìa - A detta di El-Menshawy il neofascismo si sarebbe avvantaggiato delle sentenze assolutorie dei giudici verso i responsabili (non solo militari) di crimini e malversazioni degli anni passati usando a proprio favore il montante clima di contestazione alla presidenza Mursi. Tamarod e liberali hanno prestato il fianco all’iniziativa abbagliati dal forte sentimento antislamico. L’islamofobìa è il secondo elemento esaminato, un insieme di paura e odio in aperto controsenso in un Paese al 90% musulmano. Il discorso si sposta sull’imprinting dei recenti toni da crociata non diversi da quelli vissuti negli Usa dopo l’11 settembre. La propaganda sembra orchestrata da retrivi occidentalisti più che da posati liberali visto che mira alla demonizzazione degli islamici definiti pericolosi per la vita dell’Egitto. Gli islamici tout-court non combattenti jihadisti, e dunque anche le famiglie presenti da cinque settimane ai sit-in di protesta a Nasr City. L’offensiva ideologica invade il terreno dei costumi identitari e dei simboli quando s’additano barbe e nijab chiedendone la sparizione.

Classismo sprezzante - Ma ciò che preoccupa ulteriormente El-Menshawy è la terza lancia della triade reazionaria: il classismo con cui l’élite che si propone come attuale classe dirigente e forma i suoi rampolli nelle scuole private statunitense, britannica, francese teorizza la propria superiorità sul restante establishment. Teorizza Egitti separati e organizzazioni sociali differenziate nei servizi (trasporti, sanità, scuola) e nella vita. “Non era mai accaduto neppure nei non brillanti decenni che furono. Non era questo che chiedeva la Rivoluzione del 25 gennaio che al contrario voleva cambiare le dinamiche fra governanti e governati”. Ma la classe dei feloul legata al regime di Mubarak resta immune ai venti della trasformazione. I fatti del 30 giugno mostrano che essa rimane, mentre il grande assente pare essere proprio il cambiamento. 

giovedì 8 agosto 2013

L’Egitto festeggia Eid Al-Fitr ma non dialoga


Il Cairo festeggia Eid Al-Fitr, giorno di chiusura del sacro mese del Ramadan, ma sempre da piazze contrapposte. Stamane in quella Rabaa Al-Adawiya, nella periferica Nasr City diventata dai primi di luglio l’area della protesta contro il colpo di mano liberal-militare, si è rinfocolato il raduno permanente a sostegno del presidente deposto. Lì nella serata di ieri era salita sul palco Naglaa Mursi, la consorte dell’ex capo di Stato agli arresti dal 3 luglio, invitando la folla a resistere e reclamare il ripristino della legalità. Una mossa inusitata per l’ortodossia della Fratellanza Musulmana non abituata a mescolare vita pubblica e privata che potrebbe rappresentare un segnale d’impasse della protesta che cerca nuovi stimoli fuori dalla rituale ortodossia. Oggi però, accanto al mega incontro di preghiera e di festa lanciato a Tahrir da Tamarod e forze politiche che appoggiano El-Beblawi, ben cinque cortei al Cairo e tre a Giza hanno riproposto l’indignazione contro un governo giudicato illegittimo. Un governo che per bocca del premier si dichiara non disposto a tollerare ulteriormente le proteste di piazza e minaccia nuovi interventi risoluti, come quelli che a inizio luglio fecero strage di 51 manifestanti.

Eppure l’attuale esecutivo, forte del supporto militare suggellato dal vicepremierato del generale Al-Sisi che vuole piazze sgombre da manifestanti d’ogni tendenza, lascia tiepida addirittura la delegazione internazionale formata da Usa, Ue, Qatar e Emirati Arabi. Era giunta al Cairo pensando d’invogliare i contendenti al compromesso invece è dovuta ripartire senza un’alternativa a una crisi drammaticamente cronicizzata. Fra leader (ElBaradei, El-Beblawi) che proclamano il dialogo ma di fatto lo evitano avallando il golpe bianco e i Fratelli scippati d’un potere creduto possibile per un quadriennio e presto svilito dalla propria scarsa real-politik cammina una verità bifronte. Hanno ragione e torto tutti però ciascuno continua a lavorare per sé più che per il bene della nazione, anche adesso che si sfiora il baratro. Mentre i giochi dei poteri interni (lobby militare, magistratura) e internazionali (gli stessi arbitri mediatori) proseguono nel tener vivo un insensato immobilismo. Ha ragione chi ricorda i loschi imboscamenti attuati nei mesi scorsi da parte di gruppi economici che commerciano prodotti di pubblica necessità (carburanti, frumento) per far ricadere colpe di penuria sul governo Qandil.

Come non sono lontani dalla realtà quei commentatori che accusano la vecchia casta politica, composta da mubarakiani, liberal ma anche da islamisti moderati e radicali di lontananza dal bisogno d’innovazione che viene dalla parte più sensibile del Paese. Un desiderio trasversale: laico e religioso, desiderio di minoranza di un Egitto che si autocostringe al corto circuito bipolare. Così la lotta resta ferma all’antico filo occidentalismo e a un Islam politico ingessato e già logorato dalla mancanza d’impulsi e idee nuove. Nel suo clero prevalgono appartenenze a schieramenti quando nelle ore di preghiera per la chiusura del Ramadan si ascoltano le voci dello sheikh Mazar Shahin sostenitore della “seconda rivoluzione” incarnata, a suo dire, dall’attuale governo e quella dello sheikh Mohamed Abdel-Maksoud che inveisce contro gli impuri sciiti (sic). In mancanza di argomenti si cercano capri espiatori. E risale la tensione interreligiosa, riprendono attacchi a preti copti e assalti nelle zone di Minya e Assiut, Al- Zawahiri parla di complotto anti Mursi. Ciascuno recita la sua parte, ma l’Egitto odierno sembra mancare di statisti autonomi, interessati del bene nazionale.