venerdì 27 febbraio 2015

Mosul: la cultura in fumo e briciole



La biblioteca di Mosul mi ha reso scrittore. Era in un posto magnifico negli anni Quaranta e Cinquanta: sulla riva destra del Tigri, presso il ponte Re Ghazi“ racconta l’iracheno Mahmoud Saeed che della narrazione ha fatto una ragione di vita. Accanto all’ultimo scempio operato dai tagliatori di teste dell’Isis, che applicano questa criminale manìa alle stesse statue decapitandole e smembrandole assieme a capolavori millenari del museo cittadino, c’è quello della Biblioteca cittadina di cui il direttore Ghanim al-Tàan calcola un’approssimativa distruzione di circa diecimila volumi e manoscritti antichi. Una perdita che l’Unesco ha già definito inestimabile. La particolarità della biblioteca, seconda in Iraq solo a quella di Baghdad, consisteva nella presenza di migliaia di libri appartenenti alle stesse famiglie benestanti che li depositavano nelle sale di lettura e che potevano essere consultati da chiunque. Su quegli scaffali si rintracciavano testi messi all’indice nel Paese: anche teorie politiche comuniste e socialiste o questioni relative alla liberazione sessuale. Venivano, inoltre, raccolti preziosi manoscritti d’epoca Ottomana. I roghi del materiale “eretico”, relativo a religioni considerate takfir (empie), e altre questioni sgradite, erano iniziati dall’autunno scorso. Approssimativamente si stima che negli ultimi due mesi siano state arse 100.000 copie di libri antichi insostituibili.

I libri, sì sempre loro. I libri di storia c’insegnano che quattro millenni prima di Cristo in quei luoghi definiti poi biblioteche si raccoglievano tavolette d’argilla su cui venivano impresse testimonianze di vita e vicende vissute. Accadeva a Ninive, non lontano da Mosul, dove il re Assurbanipal aveva creato la maggiore biblioteca dell’antichità, dov’era riassunta l’epopea di Gilgamesh di cui va fiero il popolo kurdo che la considera l’alba della propria civiltà. Era quella l’aurora civile del mondo che trovò continuazione in altre popolazioni, oltre i Sumeri. Sebbene nelle antiche società le contraddizioni fossero molte, tutte si chinavano all’arte e a un culto solo parzialmente oscurato dalle religioni. Che spesso ordinavano e imponevano, ma preservavano anche. La conservazione del sapere venne proseguita dal mondo arabo il cui credo islamico non scivolava verso la cieca e meccanicistica follìa con cui il moderno fondamentalismo s’approccia alle opere d’arte considerandole esclusivamente idoli. Da sbriciolare e cancellare come non fossero mai esistiti. Furono i mongoli a disgregare le oltre sessanta biblioteche che la città di Baghdad aveva raggiunto in epoca Abbasside, annegando manoscritti pregiatissimi nella acque del fiume Tigri. Certo gli schiavi scalpellini messi all’opera dal rancoroso Thutmose III e dai successori, cancellarono per anni la presenza della mitica Hatshepsut, la regina egizia diventata faraone grazie ai buoni uffici del clero tebano. Ma queste distruzioni rientravano nelle lotte per la testimonianza d’un potere personalizzato, come sempre il potere è stato e come continua a essere.


L’idea che il Califfo Al-Baghdadi e suoi seguaci mostrano dell’autorità sembra basata sulla frantumazione dell’altrui potere, ossessionati dalla sostanza che idee, fedi, credenze differenti dalla propria riescano a far emergere. Timorosi del confronto di culture, incapaci di stabilire rapporti o affrontare conflitti anche oppositivi senza disintegrare il nemico. Intolleranti verso la diversità degli altri che dev’essere annullata fino a sparire. Assolutisti nell’unicità del modello proposto. Per questo frantumano a bruciano, statue, uomini, libri. Dissolvono vestigia, come hanno fatto e fanno anche i guerrafondai d’Occidente. In quella culla del genere umano che sono le pianure fra Tigri ed Eufrate, nel tragico aprile 2003 l’umanità aveva già perso il museo archeologico e la biblioteca di Baghdad. Tesori inestimabili, un milione e mezzo di libri, opere d’arte sumera, assiro-babilonese finiti sotto bombe e razzie di saccheggi. Il dolore delle anime sensibili allo scempio urlò da ogni parte del globo per limitare i danni, raccogliere e mettere a sicuro i reperti che si potevano salvare. Non fu fatto. La guerra e l’abbandono sono andate a braccetto, incuria e furti sono proseguiti per anni, abbandonando quel ch’era distrutto, portando sul mercato nero pezzi trafugati. L’Iraqi Freedom statunitense ha sostituito la satrapìa di Saddam Hussein con un caos socio-politico che portava morte nel corpo e nelle menti. L’attuale panorama, aggiunge sangue e angoscia ed è difficile preservarsi con la saggezza che faceva a dire a Marguerite Yourcenar: “Costruire biblioteche è come edificare granai, per ammassare riserve contro un possibile inverno dello spirito”.  


giovedì 26 febbraio 2015

Afghanistan, a chi serve il marchio Isis

Maschere per nuove insorgenze - Se l’Isis trova nella propaganda uno dei suoi più potenti cardini c’è chi usa questo marchio e la sua maschera per accreditare un’antica presenza nel sistema di potere afghano. Perciò la nuova vocazione di alcuni leader talebani ‘folgorati’ dal Daesh non sarebbe altro che una metamorfosi tattica.  Almeno così la spiega il locale ministro della difesa Enayatullah Nazai: “Certi comandanti trasformano le loro apparenze, addirittura mostrando una fede salafita, ma restano attaccati alla tradizione talebana”. Una posizione diversa se non opposta da quella sostenuta da taluni politologi che monitorano l’Asia centrale evidenziando fratture e defezioni nella galassia dei turbanti. Entrambe le tesi necessitano di verifiche, però certamente il combattentismo fondamentalista a cavallo del confine afghano-pachistano è in subbuglio. Il recente avvicinamento fra gli apparati di due nazioni che non si amano scaturisce da questa crisi; alle crepe talebane guardano anche gli uomini del Califfato per sondare alleanze e inserimenti possibili. Un punto a sfavore del loro programma, oltre al diverso credo islamico, è l’integralismo della propria visione di jihad, considerata superiore a qualunque altra. Essa entra in conflitto col senso di appartenenza di clan talebani poco inclini a rinunciare alle radici d’un localismo atavico. 

Infiltrazioni dei Servizi - Un politico sempre attento al peso tribale come l’ex presidente Karzai non ha dubbi e taglia corto, affermando: “Chi solleva la bandiera del Daesh in territorio afghano sono soggetti legati ai Servizi stranieri”. Idea sostenuta anche dal responsabile dell’Intelligence afghana Nabil che, nonostante le aperture e i crediti offerti dal presidente Ghani al potente vicino, non nasconde espliciti riferimenti all’Isi pakistana come struttura destabilizzante sempre pronta a mestare nel torbido. L’ipotesi, pur dettata dall’orientamento nazionale anti pakistano, può essere oggettiva, ma la stessa Islamabad è messa sotto pressione da quel ramo intransigente dei Tehreek-e Taliban nelle cui file si sono registrate defezioni in odor di Isis. Perciò una collaborazione che sta stretta ad afghani e pakistani diventa un atto di realtà politica. Fra le Intelligence anche la russa tiene l’occhio rivolto a quanto accade nelle aree a ridosso di Tajikistan e Turkmenistan, dove potrebbero crearsi sacche di adesione a quel piano e dove potrebbero addestrarsi combattenti locali o stranieri che vanno a rafforzare le milizie dello Stato Islamico. Per ora quelli conosciuti appartengono ai talebani che ospitano gli uzkebi del Movimento islamico, già attivi nella provincia di Faryab. Invece il reclutamento nelle province di Helmand e Farah ha a che fare con certe insoddisfazioni di capi talebani riguardo ai rapporti fra gruppi tribali.

Conflitti tribali – Una valutazione lanciata da alcuni ricercatori di questioni politiche afghane, che avevano esaminato e studiato il caso Khadem (il comandante talebano avvicinatosi al Califfato e caduto recentemente sotto il fuoco d’un drone americano), rileva un contrasto intestino a gruppi etnici locali come concreto motivo del suo allontanamento. Gli Ishqzai, uno dei maggiori clan del meridione afghano, già dal 2010 con due elementi minavano l’autorità del capo talebano. Il logorante conflitto avrebbe spinto Khadem ad allontanarsi con alcuni fedelissimi per cercare nuove sponde politico-militari e la prima occasione utile era diventata quella dello Stato Islamico. Comunque il leader taliban teneva a sottolineare che il suo gruppo non predicava il wahhabismo né pratiche devianti che potevano offendere la sensibilità del popolo e che non c’era alcun messaggio settario nel proprio orizzonte. Attorno a talune applicazioni della Sharia (amputazioni per furti, esecuzioni capitali per taluni crimini) ci sarebbero differenti interpretazioni fra talebani della vecchia guardia e miliziani del Daesh, quest’ultimi molto più radicali nelle punizioni e nei gesti estremi. Per tacere della facilità con cui utilizzano il termine takfir (empio) con un’accezione estrema che implica la pena di morte.

Oro bianco e cyber-jihadisti - Un ulteriore distinguo fra vecchi talebani e nuovi fondamentalisti è il rapporto con la droga. Il business dell’oppio rappresenta la maggiore entrata della “economia” afghana, assieme ai cosiddetti “aiuti” internazionali. Il mercato dell’eroina coinvolge clan tribali, familiari, politici, istituzionali. Tutte le fazioni islamiste e dei warlords accumulano proventi derivanti da questo smercio che prende la via dell’Occidente, e finanziano così le proprie attività e le bande armate. Gli stessi talebani, dopo un’iniziale contrarietà, si sono convinti della bontà del ricco bottino che ogni anno viene diviso. Quest’introiti possono far gola agli uomini dello Stato Islamico che da un punto di vista religioso dovrebbero opporsi a tale commercio. Però, valutati gli interessi in atto, i jihadisti potrebbero trattare questa come qualunque altra mercanzia, molto ma molto più vantaggiosa dell’oro nero dei pozzi occupati in Iraq. In fatto di finanziamenti anche i ricercatori afghani riferiscono i sospetti sulle donazioni provenienti da nazioni islamiche verso i talebani marchiati Isis. Poi c’è il web. La campagna comunicativa che vede l’Isis mutuare tecnologie e costruzione dell’informazione-propaganda dal proprio nemico occidentale crea fra i ragazzi afghani aperti alla rete un sentito appeal. Si può parlare di cyber-jihadisti, addirittura con presenze ufficiali sui social network e pagine su Facebook.

lunedì 23 febbraio 2015

Talebani: l’attrazione del Daesh

Storiografi e cronisti del jihadismo afghano e dei Warlords con la maiuscola presenti negli annali d’una guerra pluritrentennale devono aggiornare i taccuini. Da qualche mese l’Isis insinua i suoi progetti anche nel cuore dell’Asia per erodere, convertire, trasformare, cooptare. E fare “campagna acquisti” di combattenti. Una formidabile concorrenza all’antico strapotere degli storici signori della guerra modello Sayyaf e Dostum, da tempo integrati nel sistema dell’affarismo armato che s’è piazzato nelle istituzioni con cariche onorifiche. Il Califfato va oltre e vuole tutto. Getta il seme, in quei feudi chiamate province afghane, nelle intoccabili lande delle aree tribali, sfidando gli stessi talebani cui ruba miliziani e leader. E’ già accaduto dalla scorsa estate nel nord Waziristan dove l’esercito pakistano conduce azioni repressive a tuttotondo. Lì si sono viste azioni ribelli sotto la sigla Daesh, tanto che è ormai ufficiale il tentativo di convergenza fra una parte dei clan talebani (Shura di Quetta) e le leadership di Kabul e Islamabad che avvicinano i turbanti per un interesse quasi comune. A fine gennaio lo Stato Islamico ha anche annunciato la propria espansione nella regione del Khorasan, parte nord orientale dell’Iran che confina col Turkmenistan. E’ la sua prima diffusione fuori da nazioni islamiche del mondo arabo.

Uno degli esempi più evidenti delle acquisizioni del Daesh in Afghanistan è venuto a mancare di recente. Si trattava d’un leader significativo per i  trascorsi militanti: il comandante Rauf Khadem, colpito mortalmente da un drone statunitense, prima vittima di peso dopo l’annunciato ridimensionamento della missione Isaf. Khadem era stato a lungo un capo militare talebano, sia nell’epoca del regime dei turbanti sia nella seguente fase della resistenza all’invasione Nato. Catturato era finito prigioniero a Guantanamo Bay per poi essere sorprendentemente rilasciato nel 2007 e tornare sui campi di battaglia afghani. Ma nel rientro mostrava tendenze salafite abbracciate durante i contatti avuti con altri detenuti nel supercarcere della Cia a Cuba. Per questo era caduto in disgrazia fra i vecchi compagni d’arme che non accettavano la trasformazione. Tutti i sunniti afghani, compresi i Taliban, considerano la scuola hanafita la fonte della propria dottrina e disdegnano altre componenti come le nuove posizioni islamiche di Khadem. Lui s’era orientato verso il jihadismo marchiato dallo Stato Islamico, creava una cellula nella provincia di Helmand, e meditava d’allargarsi a Nawzad, Baghran fino ad alcune aree della federazione delle aree tribali. La sua uccisione ha solo fermato l’ampliamento dei rapporti fra una parte dei Taliban e il Daesh, non l’ha interrotto.


Ci sono anche sospetti che qualche uomo dell’Isis l’abbia venduto ai killer, ma nulla è certo. Analisti sostengono che non è ancora chiaro come l’Is risponderà alla perdita. Khadem non è affatto un caso isolato, altri emuli sono già pronti. Fra essi Saeed Khan, conosciuto col nome di mullah Orakzai e proveniente dall’ononima area tribale, viene considerato come uno dei più sanguinari e motivati nuovi signori della guerra dell’Asia centrale. Khan s’è formato nella scuola clericale Mulana Shabit, quindi nella Darululoom Islamia Hangue. Dopo aver combattuto contro le truppe Nato e aver assistito al trapasso di alcuni capi talebani delle Fata, dallo scorso ottobre si presenta nella veste di leader dei nuovi gruppi vicini al califfo Al-Baghdadi nelle zone di confine fra Afghanistan e Pakistan, con possibili progetti anche verso l’India e il Bangladesh. Un dispaccio dell’Isis lo nomina unilateralmente governatore e alcuni comandanti dei Tehreek-e Taliban  voltando le spalle alle varie Shure gli hanno giurato fedeltà. Altre defezioni di comandanti si registrano nella provincia di Farah dove i fratelli Abdul Maleq e Abdul Razek si sono orientati anch’essi verso il salafismo, confermando come la galassia dell’insorgenza sia in subbuglio e stia rinnovando gerarchie e orientamenti conflittuali.

venerdì 20 febbraio 2015

Ghani: apertura talebana

La via diplomatica che il presidente afghano Ghani sta lastricando da mesi verso due nemici storici sembra percorribile. I colloqui con varie componenti talebane (Shura di Quetta e l’inafferrabile mullah Omar, sempre che sia vivo) potrebbero iniziare entro un mese. Ad accompagnarlo nel percorso quello che fino a ieri era considerato un demone per la nazione afghana: l’establishment pakistano, che unisce velleità di supremazia regionale a non celati disegni destabilizzatori del problematizzato vicino proprio a opera della galassia talebana. Con essa, o meglio con alcune sue componenti, Islamabad è anche ai ferri corti se pensiamo alla guerra aperta coi miliziani Tehreek, autori dell’assalto alla scuola di Peshawar e le repressioni nella regione del Waziristan. Su quale sia l’aggressione e la ritorsione ogni attore racconta la propria verità. Eppure la tattica del capo delle Forze Armate pakistane Raheel Sharif alterna repressione e dialogo, ovvero le dispensa a soggetti diversi, puntando sulle loro contraddizioni. In tal senso l’Isi compie un lavoro d’informazione efficace, avendo individuato e relazionato sulle divergenze e spaccature in atto fra i clan talebani.

Ghani segue con convinzione questa linea e s’affida, raggiungendo quei colloqui il cui esito è incerto ma che, dopo l’input americano, anche Karzai praticò fra il 2009 e 2010 senza ottenere benefici e il Pentagono con lui. Stavolta potrebbe essere diverso, perché gli ulteriori anni d’insorgenza hanno logorato il Paese che è diviso nello stesso progetto di governance perseguito su pressione di Washington. L’attuale presidente afghano ha ultimamente consultato anche i vicepresidenti ex signori della guerra, uno è Dostum, e le eminenze grigie del jihadismo locale. Fra esse Sayyaf, che ha lanciato giorni fa parole durissime all’Isis, accusandolo di sporcare con la sua violenza cieca e gratuita lo spirito dell’Islam. Da questi soggetti intransigenti, oltre che dalla maggioranza pashtun e varie componenti tribali, Ghani ha ricevuto l’assenso per i colloqui coi Taliban e si sente perlomeno sicuro che il peso di quel combattentismo interno, ormai radicato in politica, approvi il suo piano diplomatico. Un piano che rilancia l’idea d’unità nazionale, esorcizzando le paure di guerra civile e di annessioni, facendosi condurre per via proprio dal diabolico stato pakistano.


Qualche osservatore ritiene la mossa presidenziale azzardata ma acuta, probabilmente l’unica possibile in un panorama che durante le elezioni di primavera aveva portato alle stelle le divisioni interne. Un panorama che vede gli Stati Uniti ridisegnare il proprio impegno militare nel Paese, dove continuano a operare almeno 13.000 soldati di altissima specializzazione, compresi reparti mercenari d’incursione, e mostra una frammentazione del fronte talebano e i tentativi d’espansione del progetto Daesh anche a est (cfr. http://enricocampofreda.blogspot.it/2015/02/afghanistan-lisis-contro-i-talebani.html). Se l’iniziativa del tavolo di trattative sarà condotta in maniera trasparente e troverà interlocutori interessati a perseguire la pace Ghani guadagnerà credito anche fra i fondamentalisti di casa, oltre che fra le nazioni del business del sottosuolo afghano, Cina in testa, che trovano negli attacchi dell’insorgenza uno degli intralci soprattutto al trasporto dei preziosi prodotti estratti. Non a caso Pechino compare fra le sedi degli incontri assieme a Kabul, Islamabad e Dubai. La retorica politica è già all’azione, l’avversario-amico Abdullah, da mesi primo ministro afghano, ha dichiarato: “Il programma di pace offrirà dignità al popolo”. A rischiare dignità e diritti potrebbero essere soprattutto le donne, la cui libertà dal 2001 ha comunque ricevuto solo minimi spiragli.

martedì 17 febbraio 2015

Guerra al Califfato, Al Sisi il salvatore

Difende l’onore egiziano il presidente Al-Sisi che non può vedere i suoi concittadini, in genere lavoratori emigrati per fame, inginocchiati e sgozzati secondo il macabro copione dei macellai dell’Isis. E coglie l’occasione per giocare una partita tutta personale aperta a più fronti, con cui cerca di mascherare contraddizioni e azioni sanguinarie che lo vedono protagonista in casa. Si rivolge al mondo arabo, assai diviso, in cui un organismo un tempo  rappresentativo qual è la Lega Araba, riesce sempre meno a decidere qualcosa. Attualmente il gruppo di potere più  forte, non solo economicamente, è il Consiglio di Cooperazione del Golfo dentro il quale le petromonarchie, molto amate e protette dagli Stati Uniti, vivono comunque constrasti, gelosie, contrapposizioni. A scontrarsi sono Arabia Saudita e il piccolo ma ricchissimo e attivissimo Qatar, ciò nonostante la lobby delle riserve energetiche impone il suo peso. Lo sguardo di Al-Sisi s’allunga all’intero Maghreb, quello dell’estremo occidente marocchino e della centrale della Tunisia. Monarchia e repubblica che cercano di sopportare l’Islam politico in una versione meno combattentistica, anche per difendersi dalle tentazioni jihadiste interne, due governi interessati a sigillare i confini ed evitare infiltrazioni dei miliziani jihadisti.

A costoro il presidente golpista dice: posso rappresentare la vostra salvezza. Il discorso di Sisi è rivolto ad altri due fronti esterno e interno. L’internazionale europeo è estremamente intimorito, Italia in testa, dallo scoprire che il Daesh è a trecento km da Lampedusa e mille dalla caput mundi della cristianità. Nella campagna di difesa dalla violenza dei drappi neri il generalissimo è disposto a impegnare la sua aviazione e magari anche i propri militari, visto che le potenze occidentali finora nicchiano sull’ipotesi d’un intervento di terra. Con questa mossa conquisterebbe non solo i cuori dei suoi mentori statunitensi e degli amanti dello stato forte in Europa, ma la simpatia di quei progressisti del vecchio continente che si chiedevano se l’attuale Egitto non fosse finito in una dittatura peggiore di quella mubarakiana. O più semplicemente se nulla fosse mutato su questo versante, visto che l’intento è far finta che la metà di quella nazione, vicina all’Islam della Fratellanza, non esiste. Politicamente non esiste più proprio per la reazione incarnata dai diciotto mesi che hanno fatto grande Al-Sisi, e questo vuoto scavato a suon di pallottole e galera rischia anche lì d’essere occupato dal jihadismo, dello stesso Isis, che può reclutare fra i ragazzi diseredati che quattro anni or sono speravano in qualche cambiamento socio-politico.

L’ultimo fronte è appunto l’interno dove si lancia come l’uomo della sicurezza. Carta giocata alle prossime elezioni (21-22 marzo e 6-7 maggio, il Parlamento fu sciolto dal Consiglio dei militari nel luglio 2012) nelle quali Sisi si misura con se stesso. I residuali della Brotherhood e il cosiddetto Fronte della Legittimità rilanciano un boicottaggio delle urne, chi guarda al voto si ritrova cooptato da una lista pilotata dallo stesso presidente. Si chiama Per amore dell’Egitto e mostra una sfilza di personaggi dell’era Mubarak. Al-Ganzouri, i liberali del Wafd, quello che fu il Free Egypt del tycoon copto Sawiris, una schiera di businessmen guidata da Fagar Anier leader degli industriali di Alessandria, il magnate automobilistico Wagih Abaza e Talaat Mostafa, sorella dell’imprenditore Tarek che al regime di Mubarak deve le fortune sue e di famiglia. In più l’ex ufficiale dell’Intelligence Al-Yazal e pure un rappresentante dei Tamarod, Mahmoud Badr. Di chi possa fare gli interessi un gruppo di tal fatta è considerazione pletorica. Fra i fondi provenienti dai prestiti esteri (soprattutto dai Saud che sono un grande sponsor di Sisi) ben sei miliardi di dollari sono stati destinati all’acquisto di 24 Rafale jet da combattimento francesi, ora ampiamente giustificati per i venti di guerra che il generale si prepara a cavalcare.


Mentre i 10 elicotteri Apache forniti da Washington per la sicurezza nel Sinai rappresentano quasi briciole. Voci ricorrenti affermano che altre armi vengono destinate dal Cairo al generale Khalifa Haftar, speranza del governo di Tobruk contro l’Isis. Di questo militare in pensione da tempo si sa che, dopo le diatribe di fine anni Ottanta con Gheddafi, di cui era strettissimo collaboratore, ma che lo vide scaricato in Ciad elle iniziative “internazionali” del colonnello, era passato per la Repubblica Democratica del Congo prima di ritirarsi a Langsley, Virginia, in una villetta non lontana dalla centrale della Cia. Un’autoesilio dorato e chiachierato, soprattutto quando riapparve in Libia durante la rivolta anti Gheddafi. Secondo alcune tesi spedito proprio dalla Cia.