Sangue
lavato col sangue.
Come aveva già fatto re Abdallah di Giordania dopo l’esecuzione
spettacolarmente crudele del suo pilota - abbattuto, catturato e bruciato dai jihadisti
- egualmente il presidente egiziano Sisi fa lanciare i missili dei suoi caccia
sulle zone dove i miliziani neri avanzano. Per vendicare i 21 copti sgozzati
sulle rive del Mediterraneo, tornato a essere proscenio degli scannamenti di
epoche lontanissime e vicine. Alla maniera degli alleati statunitensi e dei confinanti
israeliani il presidente-generale parla di “Diritto
di rappresaglia, con modalità e tempistiche che l’Egitto ritiene necessarie”.
Il rischio che quelle bombe non cadano sulle teste dei soli jihadisti è reale.
Lo insegnano altri interventi reattivi o meditati, taglioni o umanitari. Del
resto la guerra si fa principalmente con le armi e l’uso di queste può essere
offensivo oppure difensivo. Il coro dei sostenitori del ‘giusto intervento’ prende
le misure per disegnarne le ragioni da porre accanto alla dimensione emotiva,
ben sostenuta dallo sdegno per i crimini che sopravanza la stima di sé come
stati, popolazioni, culture, civiltà. Minacciati.
Eppure la
difesa,
che per taluni non è guerra mentre per altri lo deve essere con la maiuscola, pare
solo incarnata dalla tecnologia del fuoco dei cieli. Qualcosa che, ad esempio
in Libia s’è usato e non è stato sufficiente, perché non faceva i conti con
quello che a terra, fra i locali in armi o i mercenari di passaggio, doveva
scaturire per andare oltre, con un nuovo governo, nuova classe dirigente sia amministrativa
sia economica. Si dirà che soluzioni politiche non erano nei progetti di chi
come Sarkozy sceglieva la via muscolare credendola una facile scorciatoia, e
scoprendola un nodo scorsoio non solo per il futuro d’una nazione diventata
terra di nessuno, ma per gli stessi dirimpettai d’Europa. Delle sciaguratezze
dei giocatori d’azzardo che governano il vecchio continente si discorre da
oltre un biennio e, sia dove sono intervenuti coi propri caccia (Libia) sia
dove lasciano fare alle bombe altrui (Siria e Iraq), le situazioni sono
precipitate. Negli stati disgregati, nei non luoghi caotici chi come il
jihadismo fondamentalista pone la guerra come primo obiettivo del suo programma
ha un considerevole punto di forza.
L’ipotetico
altro versante,
dov’è adagiato l’Occidente, s’arrabatta fra ricordi di potenza e magari la
volontà di rilanciarla in una convinzione d’egocentrica superiorità (tecnologica,
strategico-militare, ideologica, filosofica, religiosa e chissà quant’altre
capacità in vari campi) e latenti frustrazioni o insicurezze frutto delle
divisioni, delle mollezze d’un sistema in crisi sistemica non solo
nell’economia delle cose ma nel decorrere di esistenze inappagate,
contraddittorie, infelici. Frutto delle ingiustizie subìte da chi non crede in
un sistema iniquo. Chi sul nostro fronte parla di guerra, può vantare solo la
delega nel combatterla. Un passare il testimone ai professionisti in divisa,
cui gli esempi afghano o iracheno di Saddam, mostrano i limiti visto quello che
lì è accaduto e tuttora accade. Così a difendere dall’oppressione la bella
bandiera della libertà e della democrazia, non diciamo di quel collettivismo da
società nuova e autogestita che spaventa le menti placide della storia,
lasciamo a rappresentarci e a combattere le ragazze e i giovani kurdi del
Rojava. La domanda è semplice e solo parzialmente surreale: se la vecchia
Europa dovesse, o se dovrà, difendere Roma e Parigi dai terribili piani esibiti
dall’Isis su chi può contare? I jihadisti si battono per il Califfato e noi?
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