venerdì 17 luglio 2015

Vedetta egiziana centrata da un missile dell’Isis

Colpito e affondato, con tanto di foto su twitter. Nessun videogame, ma un gioco di guerra neppure tanto piccolo visto il missile utilizzato per affondare una vedetta egiziana. A sparare da quella che definiscono “Provincia del Sinai” sono stati i miliziani locali alleati dell’Isis che gongolano per l’ennesima prova muscolare contro chi vanta una forza militare capace di schiacciare ribelli e dissenzienti. L’episodio è avvenuto nel tratto di mare prospiciente la costa all’altezza di Rafah, dunque non lontano dalla Striscia di Gaza. La marina del Cairo non ha lamentato vittime, ha dovuto constatare la perdita dell’unità navale e subire uno smacco finora non catalogato. Così oltre che su terra anche la sorveglianza via mare diventa problematica per Al Sisi, che si prepara a celebrare con enfasi (saranno presenti capi di Stato e premier provenienti da più parti del mondo) l’apertura del secondo Canale di Suez. Una delle opere su cui ha puntato il programma del presidente per rilanciare la grandeur egiziana: 250 milioni di metri cubi di dragaggio con 70 milioni di metri cubi di scavo che porta a 312 metri l’ampiezza del canale rispetto ai 61 precedenti.
Un’opera faraonica che nella propaganda diffusa per mesi dal regime richiamava i lavori pubblici attuati a partire dal 1960 da Nasser con l’ampliamento del progetto della diga di Aswan, che segnava il trattato di amicizia con l’Urss kruscioviana finanziatrice per un terzo di quei lavori. I capitali per il secondo Suez vengono in parte dalle stesse Forze Armate egiziane, attraverso un’apposita società che gestisce i dazi doganali del canale. E poi da elargitori della regione che vedono in prima fila emiri e petrodollari, principalmente sauditi. La dinastia Saud è attualmente uno dei grandi sponsor economico-politici del modello imposto dal generale Sisi. In questo quadro la questione sicurezza della nazione, e in particolar modo della zona del Sinai, rappresenta una spina nel fianco dell’amministrazione cairota, ripetutamente colpita anche nel cuore della capitale e per la prima volta anche per mare. Secondo testimoni il missile sparato dalla riva ha centrato la vedetta distante almeno tre chilometri, si tratterebbe d’un tipo di razzo utilizzato nella battaglia contro mezzi corazzati di terra come i carri armati. Una tipologia facilmente reperibile nell’ampio fronte conflittuale presente oggi in buona parte del Mediterraneo orientale. Fra auto-bomba e missili anti-vigilanza i seguaci di Al-Baghdadi ingombrano la scena egiziana che Sisi vorrebbe tutta per sé, di fronte a cittadini plaudenti o ingabbiati.

giovedì 16 luglio 2015

Il rifugio di Angela




Potevano le lacrime d’una studentessa palestinese mutare la linea della fermezza con cui Frau Angela solidifica il Castello tedesco d'Europa? Non c’è riuscita la Grecia che in questi anni le ha provate tutte, dando fondo a sconfinate azioni di partecipazione, voto, protesta, dignità, fierezza, democrazia di cui è capace un popolo; non ci riesce una rifugiata palestinese, incontrata in uno studio televisivo improntato in una scuola di Rostock dove la Merkel era in visita, fra una pausa e l'altra delle incendiarie trattative di Bruxelles sui debiti ellenici. In quella scuola la ragazza narrava con semplicità le vicende della famiglia proveniente dai campi libanesi, una storia riempita di ricordi, dolore, sofferenze. La Cancelliera non s’è scomposta, come se rispondesse a un collega della Commissione Europea ha detto che no “non si possono far giungere tutti i profughi di quelle zone” anche se si tratta di ragazzi che, come la giovane, hanno un bagaglio zeppo di sogni e speranze per lo studio e la vita. Alla rifugiata,  che non sa se potrà restare in Germania, sono spuntate le lacrime. Angela, leggermente imbarazzata, le ha fornito il fazzoletto, come ai greci aveva offerto il prestito-ponte e i miliardi futuri, per poi fare piazza pulita di profughi, greci e ulteriori Piigs.  

mercoledì 15 luglio 2015

Afghanistan, sui colloqui di pace il fantasma di Omar

Dicono che strizzando l’occhio abbia annuito e apprezzato la mossa diplomatica. Fra mistero e mito aleggia un messaggio attribuito al mullah Omar, lo si rintraccia su un sito web divulgatore del verbo talebano. E’ un’approvazione dei colloqui che la scorsa settimana si sono svolti nei pressi di Islamabad, impegnando lo staff e il presidente afghano Ghani in trattative con un gruppo di leader talebani anti Isis. L’incontro, preceduto nel mese di maggio da informali chiacchierate intercorse in territorio cinese e qatarino, stabilisce la palese intenzione di cooptare i capi Taliban disposti ad accordarsi su una tregua e una successiva pace. Insomma si reimposta la linea di condotta tenuta da Karzai e Petraeus, che fra il 2009 e 2010 avevano avviato trattative per poi lasciarle cadere. I tempi son cambiati. Le truppe Nato di terra lasciano l’Afghanistan, ma fra i combattenti della regione il fondamentalismo resiste creando spaccature nella già divisa famiglia talebana.
Ora il pericolo sono gli irriducibili avvicinatisi allo Stato Islamico, o che comunque ne usano la sigla come sta accadendo in altre aree orientali fortemente instabili. Far parlare il mullah Omar è un azzardo assoluto. Di lui non si ricordano apparizioni pubbliche dalla caduta del governo dei turbanti nel 2001. Nei primi mesi dell’anno seguente all’intervento delle truppe Nato si diceva combattesse trasferendosi di provincia in provincia. Dicerie. Col tempo gli stessi esponenti della Shura di Quetta hanno iniziato a dubitare della sua presenza in vita. All’opposto nessun nemico occidentale, né avversario interno dell’area dei Warlords ha potuto mai vantare di averlo catturato o eliminato. Così la figura del coriaceo monocolo è un’ombra che diventa leggenda fra i resistenti. Attribuire allo sfuggente Omar un benestare verso i colloqui di pace, assume i contorni d’una magnifica propaganda rivolta ai miliziani più giovani, in genere energetici e desiderosi di proseguire il conflitto contro le stesse istituzioni afghane.

Queste sono da mesi sotto pressione e continuamente colpite dai talebani più intransigenti come i Tareek-i-Talib, radicati dal Waziristan alla zona delle Fata. Gli attacchi sono giunti sin dentro il Parlamento. Dire che Omar annuisce, serve allo stesso Ghani che guida il Paese in cogestione con tajiko Abdullah, una diarchia creata per evitare lo scontro fra i maggioritari pashtun contro altre etnìe. Il conflitto civile, condizione esplosiva degli anni Novata mai disinnescata da nessun intervento di guerra o di pace, è un processo strisciante che di fatto è già presente. A rilanciarlo afghani in divisa dell’Anf e talebani fondamentalisti che si palesano o s’infiltrano nell’esercito senza che nessuno riesca a prevalere. Dai mesi invernali timori crescenti sono sorti attorno alla scelta d’un jihadismo settario e assoluto, il modello propugnato dall’Isis.

domenica 12 luglio 2015

Le minacce delle Stato Islamico egiziano

Erano tutti per noi i 450 chili di tritolo (250 secondo la polizia egiziana) che lo Stato Islamico ha rivendicato, sebbene s’indaghi ancora sulla provenienza dell’annuncio. A lanciarlo non sono stati i jihadisti locali di Ansar che ormai fiancheggiando l’Isis si denominano “Provincia del Sinai”, ma direttamente un sedicente Stato Islamico egiziano. Il breve proclama, che ringrazia Dio per la riuscita dell’attacco portato dai ‘soldati islamici’, avverte esplicitamente i musulmani di stare alla larga dalla contaminazione occidentale e da coloro che combattono l’Isis, direttamente e per interposte alleanze. E’ una fotografia del nostro governo che, ad esempio, avalla la linea della fermezza del presidente Sisi e ipotizza di programmare un intervento di polizia internazionale in Libia. Siamo tornati bersagli, come ai tempi di Nassyria, in un Paese che nonostante tutti i programmi e le militarizzazioni in atto non riesce a controllare il cuore della sua capitale. Il Cairo come Kabul o Peshawar? Ancora no. Però la metropoli egiziana precipita a livelli d’insicurezza propri degli attuali scenari di conflitto aperto, con la possibilità di veder realizzate quelle tipologie di stragi che giungono improvvise attraverso gli ordigni.


Il sistema è subdolo, non solo perché spesso colpisce anche o solo cittadini inermi, ma perché è condotto da un nemico celato, dietro il quale si possono nascondere le mani più varie, come insegnano percorsi di stragismo ovunque attuati. La misura dello scontro si eleva, l’uso di esplosivi presuppone maestri e luoghi di addestramento, orientandosi su una militarizzazione del conflitto che passa in mano ai professionisti delle armi. Uno scenario al quale Al-Baghdadi prepara ogni suo adepto se hanno un senso i riferimenti alla figura di ‘soldati islamici’ che sono molto più di semplici miliziani. Se in Egitto la lobby delle stellette avrà pane per i suoi denti, saranno i cittadini e la forma politica giocata alla luce del sole che spariranno definitivamente, come ormai è accaduto da oltre un anno. Soffocati dalla repressione e ora esautorati dall’ennesima guerra per bande gestita da Signori della guerra in uniforme cachi oppure nera. Per tacere di quanto sullo stragismo possano crescere gli spargimenti di sangue col solo fine di terrorizzare la popolazione di cui sono maestre le Intelligence, specie quelle che monitorano e manipolano la geopolitica mediorientale.

mercoledì 8 luglio 2015

Afghanistan, Ghani dialoga coi talebani anti Isis


Continui approcci diplomatici e militari sono in atto fra talebani e istituzioni afghane. Quest’ultime provano a limitare l’antico fronte conflittuale coi Talib della vecchia guardia (Shura di Quetta) puntando ad avvicinarla e accordarsi con una componente che si scontra con attuali dissidenti incentivati dallo Stato Islamico. Negli ultimi mesi l’Isis ha inserito alcune sue “menti” nella crepa che s’è creata fra gruppi come i Teerik-e Taliban e tutti coloro che dubitano della presenza in vita d’un leader che ha segnato la storia recente di questo movimento combattente: il mullah Omar. Nelle scorse settimane unità di veterani talebani hanno attaccato a sud e a est di Jalalabad gruppi di colleghi schierati da mesi con lo Stato Islamico e per questo diventati nemici. In un distretto i fedeli ad Al Baghdadi avevano rimpiazzato i talebani locali, avviando incursioni anche nei territori delle aree tribali (Fata). Ne sono seguite crudeli esecuzioni che prevedevano la decapitazione di quei guerriglieri fuggiti di fronte a una delle rare offensive dell’esercito afghano.
Nelle località dove i talebani hanno cambiato bandiera, finendo sotto lo stendardo nero, le atrocità verso le persone sono aumentate e fra le vittime s’annoverano anche gli insorgenti che evitano di mettersi al servizio del Califfo di Raqqa. L’offensiva talebana di primavera ha visto in prima fila questi soggetti particolarmente aggressivi, contro tutti. Lo scontro fra fazioni s’è impossessato del panorama politico-militare di alcune aree, riproducendo schemi che ricordano la sanguinosissima guerra civile che imperversò dal 1992 al 1996 fra molti Signori della guerra. Proprio l’attuale vuoto di leadership (che fa pensare a una dipartita o una defezione di Omar) sta incentivando la miriade di schegge impazzite in misura mai vista in precedenza. Lo Stato Islamico prosegue la sua pubblicità itinerante sulla violenza, che risulta estrema anche per gli standard talebani. Così nelle aree tribali di Nangarhar, Bati Kot – a sud-est di Jalalabad – pare che i vessilli di chi appoggia i combattenti Isis non siano ben visti.
E sul versante opposto del Paese, verso l’Iran, in provincia di Farah, i vecchi talebani sono riusciti a sedare una momentanea dissidenza del gruppo. Quando l’Isis ha stabilito lì un campo di addestramento, reclutando centinaia di giovani, prevalentemente combattenti o simpatizzanti, il comandante talebano ha invitato alla preghiera e alla meditazione gli scolari delle madrase e la gente delle maggiori moschee, sostenendo come tale presenza fondamentalista sarebbe risultata pericolosa (sic). Fonti locali hanno rivelato che l’iniziativa ha dato i suoi frutti: oltre la metà dei giovani è rientrata fra le file talebane. Insomma il presidente Ghani che avvia oggi, in terra straniera (a Murree, vicino a Islamabad), incontri con tre turbanti tradizionali cerca di attirare a sé la componente a tutt’oggi meno feroce verso il governo di Kabul. Governo aggredito in queste settimane dagli attentati filo Isis anche nel Parlamento, e difeso unicamente dal cielo: giorni addietro i droni statunitensi hanno colpito a morte 49 miliziani pro Isis. I tre talebani d’antan hanno affermato di parlare a nome personale, tanto che gli eventuali patti possono restare flebili parole. Difficile, ma realistico pensare che nei palazzi di Kabul si rimpianga il mullah Omar.  

martedì 7 luglio 2015

Esraa, quotidiane sparizioni egiziane

L’avvocato Al-Baqr che si sta occupando della difesa legale della fotoreporter egiziana Esraa al-Taweel, ha dichiarato al Daily News Egypt, fra i pochi quotidiani che trattano il tema: “Solo dopo la comunicazione ai familiari che Esraa era rinchiusa nella prigione femminile di Qanater abbiamo potuto ricevere sue notizie e incontrarla. La ragazza sosteneva d’aver dormito, mangiato e risposto a serrati interrogatori restando sempre bendata”. Insomma le è stata applicata la “cura Sisi”, neppure nella versione più robusta, perché attivisti del Movimento 6 Aprile usciti, per loro fortuna, da galere come Tora, Al-Aqrab hanno parlato di soggiorni molto più stringenti, non solo in fatto di bendature. Tanto che da oltre un anno, come altri “tamarod“ si sono ricreduti sul ruolo di salvatore della patria del generale-presidente e hanno formato assieme al Partito della Costituzione, all’Alleanza popolare, al Partito Karama, ai socialisti una struttura denominata Freedom for the brave che cerca, per quanto possibile, notizie sui desaparecidos egiziani (sul tema vedi http://contropiano.org/esteri/item/10929-i-desaparecidos-di-piazza-tahrir). Operazione spesso improba, perché il ministero dell’Interno nega che le forze di polizia stiano effettuando prelevamenti forzati di attivisti e oppositori.
Su tali vicende si muove anche il National Council of Human Rights, ma il muro di gomma del golpista dalla faccia per bene s’ispessisce. Inoltre la sua disponibilità di acquisire tecnologia armata statunitense e riversarla indistintamente su jihadisti e abitanti del Sinai, fa passare oltre qualsiasi considerazione delle Nazioni Unite. Che del resto in zona di bombardamenti a raffica ne ha conosciuti (Piombo fuso, Pilastro di difesa, Margine di protezione) continuando a lasciar correre. Una mezza ammissione c’è per i militanti della Fratellanza Musulmana, posti da due anni fuorilegge e perseguiti per ragioni di ‘sicurezza nazionale’. Negli ultimi mesi sono stai direttamente paragonati ai jihadisti alleati dell’Isis e per loro c’è la pena capitale, che ora Sisi propone di rendere esecutiva appena la sentenza viene pronunciata col primo grado di giudizio. Nello scontro senza quartiere che s’è aperto due anni or sono col defenestramento del presidente Mursi, i massacri del 14-15 agosto 2013 (dai mille ai duemila morti, anche lì ci sono ‘desaparecidos’ i cui corpi non sono stati ritrovati, ma di cui testimoniano i familiari), la persecuzione sistematica d’ogni opposizione, islamica e laica, e infine la comparsa d’un combattentismo alleato all’Isis, la restrizione della libertà è l’unica certezza presente della vita quotidiana.
L’Egyptian coordination of rights and freeedom solo negli ultimi due mesi ha denunciato la scomparsa di circa 800 cittadini. Testimonianze riparlano di quell’area plumbea, omertosa, piena di paure che circolava prima della speranzosa Rivoluzione del 25 gennaio 2011, quando i mukhabarat di Mubarak avevano carta bianca sulla vita della popolazione. Il mai abolito articolo 54 della Costituzione prevede arresti o restrizioni della libertà del cittadino solo a seguito d’investigazioni su reati di cui ci siano prove; mentre da tempo si ripetono situazioni in cui uomini in borghese, che non si fanno identificare, fermano e prelevano persone in strada, conducendoli in prigione in maniera totalmente illegale. I socialdemocratici hanno recentemente rivolto un appello al presidente perché chiarisca simili comportamenti, ma le sue scelte sono più che chiare nel voler aumentare lo strapotere poliziesco e giudiziario contro qualsiasi controllo dal basso sull’uso della repressione. Un andamento approvato dal partito Wafd che, accusando le associazioni dei diritti umani d’ingerenza sulle questioni interne, sostiene come fra fermati e reclusi possono sicuramente esserci cittadini atti a delinquere; perciò la prevenzione prevale su qualsivoglia presunta libertà. Per le Esraa d’Egitto l’orizzonte resta nero, come se le vicende di Samira Ibrahim e Said Khaled non fossero mai accadute.  

venerdì 3 luglio 2015

Armatori, quei greci che impoveriscono la Grecia

Se la ride, e come non potrebbe, mister Niarkos, figlio d’arte e di privilegi. Il papà Stavros, armatore, rivaleggiava con quell’Aristotele che conosceva un’unica filosofia: il denaro. Le dinastie degli armatori greci: Niarkos, Onassis, Vardinoyannis, Latsis, Alafouzos, Marinakis, le sanguisughe delle casse statali che per decenni hanno incamerato dracme, dollari, euro senza versare nulla in patria. Quintessenza dell’egoismo padronale. Accresciuto dall’articolo 89 della Costituzione che li esenta dal versare tasse, privilegio chissà perché congelato visto che una reale democrazia può richiedere una revisione costituzionale. Una vera democrazia, questo è un problema irrisolto nella terra del governo del popolo. In un rapido volo fra le biografie degli armatori che furono e degli epigoni in navigazione, c’è un comune denominatore: umili origini (per padri e nonni), in famiglie talvolta numerose, tal altre migranti e voglia di arrivare. Ma dietro questi uomini fatti da sé, marchiati da nomi epici ci sono fortune misteriose, ambigue, bordeline. “Derrière chaque grande fortune, il y a un grand crime” sosteneva un letterato testimone degli arricchimenti della prima grande borghesia mondiale.
E le vite, gli affari, lo splendore di alcuni di questi greci imbarcati fra il primo e secondo Novecento, hanno il sapore delle ambiguità del grande Gatsby fitzgeraldiano. Tutte nascono Oltreoceano, appoggiandosi a business mai trasparenti legati a petrolieri (trasporto e smercio di greggio), militari (rifornimenti alle navi della Us Navy), legami matrimoniali con clan statunitensi della finanza, economia e politica che si chiamano Ford e Kennedy. Sembrano davvero trame di romanzi. Certuni si fanno una guerra perlomeno sui rotocalchi, spendendo e spandendo fiumi di denaro ovunque, tranne che nelle casse statali. Perché già prima del famigerato passo della Costituzione del triste 1967 i signori delle navi pensavano bene di non battere la bella bandiera di casa. Qualcuno (Latsis) si trascinava vecchie storie di collaborazionismo con l’occupante nazista, che si faceva perdonare con regalìe ed elargizioni allo Stato. Ma nessun ripensamento sulle imposte che la casta ritiene “non dovute”. Il più narciso (Onassis) coltivava la fama di seduttore e collezionista di donne famose (Maria Callas e Jacquelin Bouvier, vedova Kennedy, le più in vista), si comprava un’isola e organizzava feste mondane.

Molti, già straricchi, hanno svariato con ulteriori affari nei trasporti (Olympic Airways, Singapore Airlines, compagnìe low cost) oppure si sono dilettati con lo sport e i media, fra squadre di calcio (Olympiakos, Panathinaikos, padrone del campionato, rissose in campo, sugli spalti e nelle riunioni di Lega, tanto da costringere nello scorso febbraio uno scandalizzato Tsipras a sospendere il campionato), canali televisivi (Mega Channel, Smart tv, Antenna 1), radio (Skai, Antenna 97,1), quotidiani (Kathimerini,  Mesimvrini). Un’orgia di potere, denaro e sollazzi durati decenni all’ombra di altri potentati, appartenenti ai clan familiari del bipolarismo Nea Dimokratia–Pasok (soprattutto Karamanlis e Papandreou, con la variante Mitsotakis), che si sono a lungo spartiti maggioranza parlamentare e governo. Senza muovere un dito contro i vantaggi goduti dalla lobby degli armatori, la componente più corposa del capitalismo greco. Il Paese accanto alle navi può vantare la sola risorsa del turismo, un ulteriore colabrodo per il fisco nazionale. Così, negli anni di crisi e di attacco della Troika, a versare sono rimasti i più deboli, quei dipendenti e pensionati ora incolonnati per raccimolare i 50 euro settimanali distribuiti in questi giorni.