martedì 30 novembre 2021

Emirato dell’Afghanistan: le promesse, la realtà

Le vendette si consumano a freddo, anche i regimi adottano questa norma. Così mentre il premier dell’Emirato dell’Afghanistan nega che ci siano ritorsioni in corso, men che meno violente, e mentre la leadership talebana continua a rassicurare i lavoratori del vecchio governo, circola un documento di Human Rights Watch che all’inverso parla di esecuzioni sommarie verso cittadini che avevano ricevuto le medesime rassicurazioni. Afghani che nuclei di turbanti sono andati a cercare nelle loro case, li hanno prelevati e passati per le armi. La colpa: aver vestito la divisa dell’esercito locale, addestrato dalle truppe della Nato. Soggetti responsabili di ‘atti imperdonabili’ - dicono taluni comandanti taliban - che sono diventati essi stessi vittime di altrettanti ingiustificabili assassini. E’ l’Afghanistan delle faide, conosciute peraltro da decenni, cui hanno contribuito un po’ tutti i protagonisti di cinquant’anni di conflitti. Da quelli post monarchici del Partito Democratico del Popolo, all’Armata Rossa giunta in soccorso. Poi mujaheddin diventati Signori della guerra, talebani di Omar, americani e occidentali delle extraordinary rendition definite ‘missioni di pace’, loro imitatori in divisa da Afghan National Security Forces, talebani della vendetta targati Akhundzada o Haqqani. E gli ex compagni delle madrase diventati nemici sotto la sigla dell’Isis Khorasan. Contro quest’ultimi attualmente si registrano retate nella provincia orientale di Nangarhar. A Jalalabad si è verificata una vera e propria battaglia. I ricercati hanno attaccato con ogni mezzo, armi e kamikaze. Secondo una dichiarazione del  capo della polizia locale durante il combattimento, che ha portato all’arresto di due sospettati miliziani, una coppia s’è fatta esplodere in una casa. Il mantra diffuso dai portavoce ufficiali è: chiunque non deve avere timore. Ma chi osserva e vede che gli avvisi di amnistia, addirittura per i reclusi, sono di fatto aggirati da operazioni come quelle denunciate dal report di HRW, trova una discrasia fra promesse e realtà. Le testimonianze di familiari e amici parlano di sparizioni, per probabili rapimenti, e raid diretti nelle case dove elementi noti abitano o sono riparati. E’ accaduto nella provincia di Kunduz a un appartenente all’Intelligence (NDS) rifugiatosi dai suoceri e trovato morto per strada. Altre aree interessate: le meridionali di Kandahar, Helmand e a Ghazni. Secondo l’Ong statunitense ulteriori dichiarazioni ufficiali dell’attuale governo di voler prevenire abusi, finiscono per ritenere responsabili gli abusati.  

lunedì 22 novembre 2021

Telekabul del Terzo Millennio

La Telekabul del Terzo Millennio, prende corpo nella capitale afghana sotto le indicazioni del dicastero per la Promozione della Virtù e della Prevenzione del Vizio, sì proprio così. Se ne occupa direttamente il ministro Muhammad Khalid Hanafi, che ieri in conferenza stampa ha annunciato di voler reclutare giornalisti da opporre alla ‘propaganda negativa’ che investe il governo talebano. L’idea, immaginiamo, sia quella di promuovere propri propagandisti più che giornalisti, e si pensa di allargare la professione alle stesse donne. Tutto il personale dovrà essere in linea coi valori della Shari’a, ideologicamente ed esteticamente, per cui le anchor indosseranno l’hijab, e più spesso il niqab che lascia liberi solo gli occhi. Probabilmente i cronisti sfoggeranno una fluente barba. Il ministero vuole anche ricondurre la visione di film a princìpi corretti che non contrastino la legge islamica. “Ogni trama che insulti riti religiosi e la dignità umana non dovrebbe essere mandato in onda” ha dichiarato Hanafi, rifacendosi al materiale proveniente da produzioni di Paesi vicini che non adottano un adeguato “sistema di filtraggio”. Il riferimento è rivolto a filmografia e varietà considerati indecenti, tollerati e trasmessi, ad esempio dalla tivù pakistana. Ma il concetto dell’indecenza del ministro-censore è ampio, e può comprendere la presenza sulle scene di personaggi femminili. Cosicché il dicastero darebbe via libera a contenuti interpretati da soli attori di sesso maschile. Inoltre “Serie e immagini del profeta sono assolutamente vietate”. Tutto ciò non viene posto come imposizione governativa, bensì sotto forma di “consiglio” rivolto a media e addetti ai lavori. Un consiglio che va ad aggiungersi ad altri, questi più spinti e divulgati sotto forma di norme relative sempre all’abbigliamento e all’orientamento di studentesse universitarie e giornaliste, che prendendo un eccesso di libertà rischiano la fustigazione. Appena dopo la presa del potere i turbanti avevano sostenuto la volontà di rispettare l’indipendenza dei media, purché questi non ostacolassero i ‘valori nazionali’. Nel mese di settembre il suddetto ministero della Promozione della Virtù, in sostituzione del  ministero degli Affari femminili, già  impediva alle donne l’esercizio di molti lavori. Eppure nei Palazzi dell’Emirato ci si sente innovativi. Nel quinquennio 1996-2001 il governo del mullah Omar, disdegnava qualsiasi apertura ai media, vietava film e intrattenimenti giudicati nel complesso immorali. All’epoca i più facoltosi, possessori di apparecchi televisivi, rischiavano oltre alle pene di fustigazione e possibili carcerazioni lo smembramento del demoniaco elettrodomestico. L’unica stazione radio udibile era Voice of Shari’a. Oggi è tutta un’altra storia.

sabato 20 novembre 2021

India, vince la lunga marcia contadina

Vincono contro tutti gli agricoltori indiani. Contro il premier Modi, costretto a fare marcia indietro ritirando tre decreti con cui aveva “riformato” il settore. Vincono contro la stampa ufficiale sempre ambigua verso la loro rivolta, peraltro in gran parte pacifica seppure macchiata dal sangue di manifestanti caduti sotto i colpi della polizia, una lotta che i media hanno cercato inizialmente di sminuire e poi tacciare di passatismo corporativo. I contadini, quelli minuti e non solo loro, denunciavano come le presunte riforme, che teoricamente gli consentivano di smerciare direttamente i prodotti, di fatto li isolavano a vantaggio delle grandi aziende capaci di mercanteggiare coi ciclopi della produzione e i marchi mondiali. Costoro impongono prezzi insostenibili per le piccole coltivazioni improntate sui tradizionali cicli di turnazione dei prodotti, anziché sulle monocolture. Eppure i piccoli non si son persi d’animo. Dall’ottobre 2020 si sono uniti, nonostante le difficoltà imposte dalla pandemia di Covid hanno marciato verso grandi centri, compresa la capitale. Hanno bloccato il traffico con giganteschi sit-in, sono stati dispersi dalla polizia e sono tornati ad assediare quei luoghi alla guida di trattori. Hanno circondato le barriere con cui le Forze dell’Odine li tenevano lontani da New Delhi. Hanno aggirato gli ostacoli cingendo coi loro corpi lo storico Red Fort in pieno centro cittadino. Dopo le infuocate giornate dello scorso gennaio, la resistenza passiva proseguiva senza mollare di un palmo. SI opponevano a cannoni ad acqua, lacrimogeni, fucilate che colpivano, anche a morte, alcuni di loro. Hanno contato morti in una repressione durata mesi che non risparmiava neppure i vecchi delle famiglie presenti per via. Ogni mese cadevano quattro, sette, otto manifestanti, in totale oltre seicento in differenti distretti, sebbene il centro della protesta sia sempre stato l’Uttar Pradesh. Ora i politologi affermano che Modi abbia ceduto temendo quel che potrebbe accadere a febbraio prossimo nel popolosissimo Stato (oltre 200 milioni di abitanti) chiamato alle urne. Perdere in Uttar Pradesh sarebbe un colpo durissimo per il Bharatra Janata Party, già messo in difficoltà nel maggio scorso con le elezioni in alcuni Stati, su tutti un’altra regione assai popolata: il Bengala Occidentale. Comunque ciò che ha mostrato il movimento degli agricoltori, accanto a tenacia, determinazione, convinzione di potercela fare, è l’unità d’intenti, aggirando le divisioni religiose che da anni polarizzano la popolazione all’interno delle stesse categorie di lavoratori. Il superamento di contrapposizioni anche riguardo ai sistemi di coltivazione dei campi e dei prodotti, gli esempi di alcune minoranze di comunità Adivasi attente a proporre varietà autoctone di cereali, il caso di alcuni tipi di miglio che garantiscono resa e sicurezza alimentare davanti agli stessi cambiamenti climatici. Così la presunta arretratezza di talune comunità agricole risulta più oculata e attinente alla realtà di pianificazioni mercantili legate al profitto unicentrico della monocoltura. E al di là di non secondari aspetti d’organizzazione economica, tecnica e socio-politica c’è chi vede nel successo della battaglia del mondo rurale un punto fermo per quel bisogno di democrazia e dei diritti di cui necessita la società indiana. 

giovedì 18 novembre 2021

Il governo pakistano sceglie la libertà di fondamentalismo

Saluta, sorride. Riceve l’onda di giubilo di attivisti e fan Hussain Rizvi, il leader dei Tehereek-i Labbaik Pakistan, liberato stamane a Lahore. Per lui si sono spalancate le porte di Kot Lakhpat, un lager per quattromila detenuti che ne ospita più di quindicimila. Un posticino con tanto di forca per le esecuzioni dove già in passato chi era entrato in piedi ne usciva definitivamente disteso. Non è il caso di Rizvi, peraltro mica condannato alla pena capitale, ma a una reclusione (durata sette mesi) per gli infuocati interventi che ne ribadivano la collocazione nella lista dei politici settari accusati di terrorismo. La rimozione del suo nome da quella lista lo restituisce alla vita pubblica, e probabilmente a rinnovati proclami settari. Appena uscito di prigione Rizvi s’è recato nel quartier generale del partito, nella città di Lahore, nella moschea Rehmatul Lil Alameen ha incontrato, fra l’interno e l’esterno, migliaia di sostenitori giubilanti. Il rilascio era atteso, anzi rientrava nell’accordo che alcuni ministri dell’esecutivo Khan, complice il premier, avevano sottoscritto giorni or sono per far cessare la protesta dei militanti del TLP. Questi avevano bloccato importanti arterie del trasporto mercantile interno, mettendo a repentaglio forniture e commerci. La scarcerazione ha creato dissensi fra alcuni esponenti del governo, contrari alla sanatoria lanciata non solo sul nome di Rizvi, ma dello stesso raggruppamento fondamentalista. Eppure il passo è stato compiuto e ancora maggiore è la gioia dei supporter TLP perché Rizvi figlio potrà partecipare alla commemorazione dell’anniversario della morte del padre che ricorre il prossimo 20 novembre. Tutto sarà ricordato col rituale denominato Urs, detto ‘matrimonio del santo’, con cui il sufismo indica l’abbandono del corpo che si è unito all’Eterno. Per il raduno è stato predisposto dal governo un ampio apparato di controllo con telecamere e vigilanza attorno alla moschea. Dopo i festeggiamenti c’è chi s’aspetta ulteriori escalation delle posizioni settarie dei TLP, rivolte alle minoranze confessionali e a chi non pensa e non prega come loro. 


 

lunedì 15 novembre 2021

India, comunalismo di fuoco

A fine ottobre la devastazione era passata per Tripura, Stato del nord-est indiano vicino al Bangladesh. I militanti, anche armati, della destra estrema hindu del Rashtriya Swayamsevak Sangh, Viswa Hindu Parishad, Hindu Jagram Manch che fanno della violenza, spesso assassina, la loro fede ammantandola del peggiore comunalismo esclusivista, avevano bruciato case, negozi e una quindicina di moschee. Nel mirino i musulmani locali, che pativano la vendetta per brutalità anti hindu compiute nelle precedenti settimane in Bangladesh. Una catena che si alimenta a ripetizione e va a colpire nei luoghi dove ciascuna comunità risulta minoritaria. Venerdì scorso le fiamme si sono spostate di duemila chilometri, nel Maharashtra, ad Amravati, città di piccole dimensioni per l’India, circa seicentomila abitanti. Lì alcune migliaia di musulmani hanno marciato chiedendo pace, ma covando in seno gruppi che poi si sono lanciati su negozi di famiglie hindu, saccheggiandoli. Immediata è seguita la ritorsione. Guidata direttamente dal partito di governo Baharatiya Janata Party che, tramite leader locali, ha convocato i sempre allerta militanti dell’hindutva, scatenati a loro volta e per l’ennesima volta nel vandalizzare gli esercizi commerciali avversari. Come spesso accade la polizia ha evidenziato tutta la propria inadeguatezza a controllare l’ordine pubblico, giungendo in forze solo ad azioni compiute, e facendo pensare alla tattica del lasciar sfogare la rabbia fra contendenti. Così i militanti dell’hindutva e i miliziani del fondamentalismo musulmano riescono ad avere campo libero nella propria furia, possono predicare e divulgare un confessionalismo radicale, metterlo in atto, scontrandosi in una sorta di guerra civile strisciante. Quest’orizzonte coinvolge anche cittadini che nulla hanno a che fare con l’estremismo. La loro unica colpa è appartenere all’una o l’altra fede ed essere conosciuti come tale. 

 

Costoro, i propri esercizi, le loro case diventano obiettivo dei fondamentalisti. I più esposti risultano i commercianti, quelli minuti con bancarelle approssimative perdono poco, ma è un poco di guadagni già scarsi. Poi ci sono quelli appena un po’ più strutturati che egualmente non possono permettersi una vigilanza  armata, che comunque in caso di tumulti nulla può oppure si dilegua. Gli attacchi riguardano le stesse abitazioni private e i luoghi di culto. Recenti testimonianze riferiscono assalti di manipoli d’una decina di attivisti, ma in certi casi addirittura di reparti d’una quarantina di elementi, che seguendo una precisa divisione di compiti sradicano portoni, distruggono elettrodomestici, frantumano strutture lignee e metalliche oppure le incendiano. La cittadinanza accusa la polizia per la totale inerzia, visto che quando le violenze erano in corso alcuni di loro  hanno richiesto un intervento degli agenti per le strade. Ma sia venerdì, quand’erano in azione attivisti islamici, sia sabato e domenica con le scorribande alimentate dagli hindu, i poliziotti mobilitati in città risultavano solo alcune decine. L’instabilità del quotidiano va a minare la convivenza fra le comunità e gli organi preposti alla sicurezza evitano qualsiasi prevenzione. Di fatto è la politica a soffiare sul fuoco. E non tanto per immobilismo, al contrario per mobilitazione diretta. Fra i facinorosi fermati ieri – visto che, dopo due giorni di devastazioni, le forze dell’ordine domenica si sono adoperate a effettuare 72 fermi e arresti – fa bella mostra un ex ministro del governo locale appartenente al Bjp. E’ Anil Bonde che assieme al collega di partito Praveen Pote, scomparso dopo gli scontri probabilmente per evitare la cattura, ha organizzato l’arrivo in città delle bande armate dell’hindutva. Un’orda di seimila picchiatori che hanno predicato con spranghe e ordigni incendiari.  

venerdì 12 novembre 2021

Pakistan, Khan patto col terrore

Anche chi lo critica per le ultime due mosse: accordo coi Tehreek Labbaik Pakistan della scorsa settimana, avvìo di colloqui coi Tehreek-e Pakistan di queste ore, non può dire che il primo ministro pakistano Imran Khan non apparisse come un eccentrico egocentrico. Non solo per il glamour da campione del cricket e quello da sciupafemmine delle cronache rosa. Dopo aver abbracciato la politica e fondato il suo Tehreek (Movimento)-e Insaf (cioè della Giustizia) ben 25 anni or sono, aveva già detto di voler dialogare coi talebani. Certo, allora guidava un gruppetto minoritario, che solo dal 2013 ha iniziato la conquista di seggi in Parlamento, 35, sino al successo del 2018 che gliene ha dati 119. Da odierno leader di una nazione che, da quando è sorta, si destreggia fra diversità e contraddizioni Khan sembra voler lasciare il segno in un momento assai delicato per il Grande Medio Oriente. Il suo daffare s’inserisce nelle manìe di grandezza geopolitica regionale di altri premier di Islamabad, però desta anche sospetti. Tornando ai recenti passi gli si contesta l’arrendevolezza verso una formazione minuta ma agguerritissima (TLP) che ha nel fondamentalismo religioso la linfa incendiaria della sua politica. Ultimamente i Labbaik facendo leva sulla legge sulla blasfemia, presente nel Paese dal 1986, hanno avviato un braccio di ferro con le istituzioni chiedendo l’allontanamento dell’ambasciatore francese (che poi s’è dileguato di sua iniziativa) per le vignette di Charlie Hebdo e la liberazione di Rizvi, il loro capo, detenuto dalla scorsa primavera per eccessi fondamentalisti. Per ottenere ciò hanno minacciato, e per tre settimane, attuato il blocco del traffico commerciale sulle direttrici nord-sud. Alla fine l’hanno spuntata ricavando con la mobilitazione di strada un risultato più esplosivo di qualsiasi attentato o rivolta armata. I grandi imprenditori hanno spinto sul governo per una soluzione, infischiandosene di come il successo della protesta dei Labbaik ne potesse accrescere un credito politico tutto giocato sull’intolleranza. Quell’intolleranza che fa usare la ‘Blasfemy Law’ contro le minoranze cattolica e ahmadi. 

 

Khan ha avallato, incurante oppure opportunisticamente orientato a favore del sentimento più intransigente che movimenti estremisti come il TLP veicolano nel Paese. Poi ha raddoppiato, quando gli echi delle concessioni al radicalismo confessionale non s’era ancora spento. Eccolo, dunque, aprirsi ai jihadisti. Tali sono i Tehreek-e Taliban, fuorilegge per avere in quattordici anni insanguinato strade, scuole, parchi della nazione. Eppure in questi giorni il governo tratta con loro e stabilisce un mese di cessate il fuoco, sebbene alla vigilia del negoziato nel nord Waziristan quattro militari sono stati uccisi dai miliziani TTP. Che comunque per avviare una trattativa chiedono la liberazione di centinaia di loro militanti. Perché Khan sceglie questo negoziato? E’ lui a farlo? Due ipotesi. La prima: lo fa di sua sponte perché tramite i Tehreek-e Taliban vuole accreditarsi come grande amico dell’Emirato di Kabul, e collocarsi in un futuro prossimo in prima linea nel condizionare la politica del Paese vicino. Cosa che, peraltro, i leader di Islamabad provano a fare da decenni.  Seconda ipotesi: Khan subisce indirettamente la spinta fondamentalista, quella populista dei Labbaik e quella jihadista, sempre latente e pericolosa, dei taliban interni che possono tornare a colpire indiscriminatamente. Da un quadriennio hanno ricevuto colpi e perdite, sono riparati entro il confine afghano. In parte fondendosi coi miliziani dell’Isis Khorasan, ormai presenti in tante province, oltre a Kabul. Continuano a essere una mina vagante che quella parte del Pakistan legata a capitali, mercati, rapporti geopolitici non può permettersi di avere come avversario. Così Khan s’adatta a discutere con chi accampa pretese (il rilascio di soggetti accusati di terrorismo) prima che i colloqui s’intavolino, e potrebbe scoprire che a direzionare i Tehreek-e Taliban siano i turbanti d’oltre confine, non nella persona del morbido Baradar bensì nel pretenzioso clan Haqqani. Il vero jolly di una partita del fondamentalismo di lotta e di governo, ormai ultra nazionale.

 

giovedì 11 novembre 2021

Afghanistan, la morte per bombe e quella per fame

Ventitré milioni di afghani rischiano la fame, afferma un recente rapporto del World Food Programme che ha corretto in peggio, aumentandola di tre milioni di unità, la stima offerta a inizio anno d’un pericolo a livello mondiale per quarantacinque milioni di persone. Non è un caso che la disgrazia riguardi Paesi dove problemi sociali, geopolitici, climatici rendono difficoltosi anche aiuti umanitari. Oltre all’Afghanistan sono coinvolte Haiti e alcune nazioni africane (Etiopia, Somalia, Angola, Kenia, Burundi). La situazione afghana è precipitata nell’ultimo anno, anche prima della caduta di Kabul in mano talebana, per cause interne: le reiterate violenze che allontanano la popolazione d’ogni sesso dalle attività lavorative, la siccità. E per intralci internazionali: la pandemia e, ultimo, il blocco voluto dagli Stati Uniti dei fondi destinati alla nazione (9.5 miliardi di dollari) tanto per opporsi alla ricomparsa dell’Emirato. Abbiamo visto come quest’evento sia stato un tutt’uno con l’implosione del regime Ghani, il liquefarsi delle locali Forze Armate, la fuga del presidente e del suo staff con denari destinati all’amministrazione pubblica. Tutto ciò era prevedibile con gli Accordi di Doha. Ma volendo evitare di riconoscere un sistema attuato dagli uomini con cui la Casa Bianca ha trattato, ora si sta punendo un intero popolo che rischia la salute e la vita stessa. A ruota degli Usa l’Unione Europea ha tagliato i fondi destinati al Paese, e l’hanno fatto il FMI e la Banca Mondiale che avevano previsto per l’anno in corso di elargire rispettivamente 400 e 800 milioni di dollari. Quel miliardo abbondante potrebbe sfamare milioni di disperati. Egualmente i nove miliardi congelati offrirebbero un sostegno non secondario. Ma si dice di non voler offrire capitali a chi, come i taliban, possono utilizzarli per piani terroristici o per proprio tornaconto. Però per due decenni le amministrazioni Karzai e Ghani hanno incamerato dollari ed euro, anche quando a gestirli, ai vertici di svariati Esecutivi c’erano terroristi riciclati in qualità di vicepresidenti: Fahim, Khalili, Dostum, mentre  fondamentalisti del calibro di Hekmatyar e Khan agivano da politici di primo piano. 

 

Uno dei motivi del blocco, che diventa di fatto una ritorsione verso la già tanto martoriata popolazione, sono le pratiche talebane: segregazione etnica per gli hazara, segregazione di genere per le donne. Accanto alla repressione delle iniziali proteste di minuti ma determinatissimi gruppi di attiviste che lamentavano l’allontanamento femminile dalla politica e dalle professioni imposto dall’Emirato, sono comparsi: un’obbligata divisione nei corsi universitari fra studenti e studentesse, il drammatico blocco dell’attività scolastica inferiore per bambine e ragazze, la dissuasione del lavoro per le donne (rimaste occupate pur senza salario solo nei ruoli sanitario e di educazione primaria). Ancor più allarmante è il rilancio di violenze e azioni criminali, giunte sino al rapimento e all’assassinio di donne che vestivano la divisa, praticavano sport, s’impegnavano sul fronte sociale e dei diritti. Per questi casi dal ministero dell’Interno assicurano indagini, ma è proprio il radicalismo di chi dirige quella struttura – il tristemente noto Sirajuddin Haqqani – a non offrire speranze di giustizia. Tutto angosciosamente reale. Come è stata reale la pluridecennale assenza di prospettive che dessero un futuro a chi, allora come oggi, è costretto a vagare dall’Hindukush ai Carpazi e alle Alpi, abusato e usato da trafficanti di speranze umane, quelli che mercanteggiano per denaro o per intenti geopolitici. Per uscire dalla spirale di veti e divieti si dovrebbero cercare soluzioni di ripiego, perché nell’incerto spazio fra Kunduz e Kandahar, nei villaggi d’insicure valli da Herat a Jalalabad passando per Kabul, tre milioni di bambini rischiano di crepare davanti all’inverno che incede. C’è stato il caso dell’Unicef, che mantiene la presenza nei campi profughi interni impegnandosi sul fronte sanitario con le vaccinazioni contro la polio e ha negoziato un accordo coi turbanti,  accollandosi il pagamento dei salari di insegnanti. Così il servizio è comunque garantito senza un passaggio di denaro nelle mani del governo talebano. Potrebbe essere una strada da seguire anche per altri interventi, fuori da speculazioni politiche occidentali e dell’Emirato, attorno al disconoscimento o all’approvazione del regime.

lunedì 8 novembre 2021

Tehreek-i Labbaik Pakistan, il fondamentalismo paga

Vince la piazza, vince il blocco delle autostrade e dei commerci, vincono gli attivisti del fanatico Tehreek-i Labbaik Pakistan, partito che dal Punjab fa pesare la sua ombra su Islamabad e sul governo di Imran Khan. Quest’ultimo cede, e dopo le trattative condotte da due suoi ministri - Qureshi degli Esteri, Chaudhry dell’Informazione - che per giorni hanno discusso indirettamente col gruppo islamista tramite il mufti Muneebur Rehman, riescono a rimuovere i sit-in sulle vie di grande comunicazione a cominciare da Wazirabad, località orientale a un centinaio di chilometri nord da Lahore. La contropartita è pesante: un migliaio di attivisti TLP sono già stati rilasciati, taluni erano stati fermati di recente proprio per le violenti proteste contro l’ambasciatore francese, simbolo del contrasto ideologico-religioso contro le vignette blasfeme su Maometto, rilanciato dai Labbaik. Oggi viene liberato anche il leader TLP Saad Rizvi, mentre il l’ambasciatore è tornato a Parigi di sua sponte già da giorni, temendo per la sua incolumità. Forse la ritirata è stata concordata col premier pakistano, che in tal modo si risparmia una rottura diplomatica con la Francia, partner economico non indifferente per le non floride finanze interne. Ma sul governo di Islamabad incombe la richiesta di dimissioni di alcuni politici locali, come il ministro della Giustizia dello Stato del Punjab, considerato dal gruppo fondamentalista inadeguato per una corretta applicazione della legge sulla blasfemia. Proprio l’accusa di blasfemia è diventata il fulcro del programma politico del Tehreek Labbaik che la lancia contro minoranze etniche e religiose. La comunità cristiana è da tempo la più colpita, comunitariamente e individualmente. Nonostante il caso più famoso, quello di Asia Bibi si sia concluso con un’assoluzione della donna da parte della Corte Suprema, Bibi è stata costretta a riparare in Canada. 

 

Accanto al rilascio del piretico leader Saad Rizvi, che scaglierebbe l’atomica sui nemici blasfemi, il riconoscimento maggiore ottenuto dal TLP con quest’ultimo “braccio di ferro”, è la rimozione del gruppo da una lista sull’antiterrorismo frutto di una legge pluriventennale. In tal modo lo sdoganamento del movimento è cosa fatta. Il laicismo del governo dovrà sempre più fare i conti con questioni d’ordine confessionale nella maniera in cui intende il fondamentalismo islamico, che su questo terreno punta a pescare consensi in un Paese al 96% musulmano. A cominciare dalla gestione di normative che il radicalismo interpreta, e distorce, a piacimento. Questa sigla Tehreek mira a conservare visibilità e incrementare agibilità, sceglie la protesta di piazza, scagliando pietre, ma non si arma. Al confronto dei Tehreek-i Taliban e altre formazioni del jihadismo stragista pakistano imbocca vie differenti, e non è detto meno incendiarie ed efficaci. Bloccando talune importanti arterie commerciali, il contrasto delle scorse settimane ha coinvolto anche l’imprenditoria. Nel negoziato, accanto ai politici, erano presenti alcuni affaristi pakistani. Fra loro Karim Dhedhi, figlio di un magnate giunto in Pakistan nel 1947. Attualmente il gruppo di famiglia AKD, definito dalla stampa nazionale un “gigante del mercato dei capitali”, tratta risorse naturali, infrastrutture, servizi immobiliari, delle telecomunicazioni e finanziari. Lui e altri tycoon hanno spinto sui ministri di Khan affinché le richieste dei manifestanti venissero accolte, pur di liberare le autostrade, far salire merci a Islamabad, farle imbarcare nel porto di Karachi. Ecco l’arma imbracciata dal TLP, ed ecco gli alleati, seppure solo opportunisticamente orientati. Ulteriori terreni su cui spinge l’iniziativa dei Labbaik sono i social, fruibili da decine di milioni di ragazzi ben oltre le madrase, e il territorio. Metropoli e villaggi altamente popolati, rappresentano la linfa per chi vuole infiammare gli animi. Gli attivisti di Rizvi son decisi a sguazzarci.

giovedì 4 novembre 2021

Afghanistan: Haqqani, i guastatori

L’attentato, l’ultimo del 2 novembre all’interno dell’ospedale militare di Kabul, nella zona non facilmente accessibile di Wabir Akbar Khan, evidenzia tutta l’impossibilità talebana di controllare il territorio. Addirittura il centro della capitale. Più o meno quel che accadeva al peggior esecutivo Ghani da un paio d’anni a questa parte. Pur agghindati con divise recuperate nei magazzini del governo precedente, le forniture pagate coi fondi internazionali ora praticamente azzerati per la disperazione della popolazione e dello stesso Gotha dell’Emirato, i miliziani diventati esperti di “sicurezza” hanno solo potuto ingaggiare un conflitto a fuoco con gli assalitori. Ne hanno eliminati cinque – così dichiara un portavoce taliban – fra la prima deflagrazione del corpo d’un kamikaze e il secondo martire. Ma fra le vittime, salite a venticinque, c’è anche un responsabile di quelle Forze di pattugliamento gestite direttamente dalla Rete di Haqqani: Hamdullah Mokhlis, tenuto in gran considerazione dal clan. Il suo diretto superiore sia nelle veste ufficiale di ministro degli Interni, sia in quella di leader del network, Sirajuddin figlio ed erede del fondatore Jalaluddin, dovrebbe risultare doppiamente colpito. Perché ha perso un elemento di fiducia e perché il piano di controllo del Paese è palesemente in crisi. Eppure il passato, remoto e recente, degli Haqqani rende il gruppo sibillino e inaffidabile. Nei due decenni di conflitto contro le truppe Nato, la maggioritaria  Shura di Quetta in più occasioni ha riscontrato atteggiamenti riottosi di questi ‘studenti coranici’ che oscillavano fra i confratelli di Peshawar e la vicinanza al mondo qaedista. Sugli Haqqani ha sempre potuto contare l’Intelligence pakistana (Isi) interessata a manipolare le alleanze di guerra e guerriglia oltreconfine così da attuare cospicue ingerenze. Non è un segreto che nei mesi precedenti la presa del potere a Kabul, il gruppo (oltre a Sirajuddin ci sono lo zio Khalil, il fratello Anas, i parenti Najibullah e Abdul) abbia premuto per un’accelerazione della conquista di tutte le province, così da rendere smodata e caotica la ritirata statunitense. 

 

Strattonando tutti i firmatari dell’Accordo di Doha, non solo Khalilzad, gli uomini del Pentagono e della Casa Bianca, ma proprio Baradar il capo delegazione di casa, considerato un moderato. Delle varie anime della galassia taliban che ha assunto il comando del Secondo Emirato, gli Haqqani sono risultati solo parzialmente limitati. Certo, a fine agosto Sirajuddin, che ambiva a diventare premier, s’è ritrovato “solo” capo di Polizia e Intelligence, e poco importa se queste figure sono incarnate da combattenti riconvertiti in ruoli di cui hanno solo vaghezza di competenza. Di fatto il leader della Rete ha uno dei poteri più ambìti. E poi Anas svolge funzioni politiche nell’attuale transizione, Khalil patrocina il dicastero dei Rifugiati, Najibullah ha il portafoglio della Comunicazione, Abdul dell’insegnamento Superiore, non tutti sono incarichi di primo piano, però il clan è un gruppo di potere organizzato. Organizzatissimo. Il più coeso fra i talebani. E nei frazionamenti e nelle conflittualità interne potrebbe – come ha fatto altre volte – dare fondo alla doppiezza. Dunque stare nell’Emirato, ma aprire porte alla dissidenza che ha dato vita allo Stato Islamico del Khorasan. Alcuni osservatori giurano che, grazie a loro, un rilancio del qaedismo in terra afghana sia più di un’ipotesi. Del resto l’Afghanistan attuale sprofonda in un caos anche maggiore a quello degli ultimi anni. Dal punto di vista dello stragismo verso i civili la situazione insegue la frequenza di attentati dell’ultimo triennio. Mancano le incursioni dall’aria operate da caccia e droni americani, ma non è detto che simili interventi non possano riprendere. O da parte d’una Nato che torna sui suoi passi o delle potenze interessate al sottosuolo (la Cina innanzitutto) che l’insicurezza della terra di sopra blocca nel suo affarismo. E gli Haqqani? Per ora sono ministri dell’Emirato, potrebbero finire nelle maglie d’un Califfato o del terrorismo guastatore che esalta la morte a prescindere. Come ha fatto di recente Sirajuddin in un raduno di parenti dei martiri jihadisti capaci di sacrificare l’esistenza per contrastare l’invasione occidentale. Del resto gli Haqqani pensano che la trattativa in Qatar abbia rinnegato la ‘guerra santa’. Una battaglia che deve proseguire e destabilizzare la pacificazione.

martedì 2 novembre 2021

Kabul, l’Isis-K evidenzia l’insicurezza talebana

Come loro, più di loro. L’Isis Khorasan insegue da quattro anni il primato della destabilizzazione dell’Afghanistan a colpi di esplosioni e vittime civili. Cercava di colpire il governo Ghani con attentati più eclatanti e spregiudicati dei talebani. Mentre quest’ultimi indirizzavano camion-bomba e azioni armate prevalentemente contro obiettivi politici (centri dell’Intelligence, caserme dell’esercito, militari) falciando spesso anche i poveri cittadini capitati nel luogo sbagliato, i jihadisti del Khorasan mirano direttamente a quest’ultimi. Li sterminano nelle moschee sciite, nelle scuole, negli ospedali, nelle strutture per neonati. L’hanno fatto fino ad agosto scorso. Continuano a farlo nell’Emirato, con più gusto perché ora lo scontro coi turbanti non è indiretto. E’ rivolto a quest’ultimi, sebbene finora non ne abbiano sparso il sangue. Le vite troncate continuano a essere quelle della gente per via, però gli obiettivi si avvicinano agli uomini di Akhundzada. Oggi l’Isis-K ha eliminato diciannove persone. Non l’ha rivendicato, ma a tutti appare chiara la sua matrice. Il numero delle vittime, come sempre, potrà aumentare se il cuore di qualcuno dei quarantatré feriti cesserà di battere. Sono state registrate due esplosioni in successione nella capitale. In pieno centro, all’entrata dell’ospedale militare Mohammad Daud Khan, appena fuori dalla zona delle ambasciate, quella statunitense dista a mala pena cinquecento metri. L’area è stata per un ventennio una città proibita, blindatissima ai più, ipercontrollata con un triplo filtro di check-point. Eppure i taliban riuscivano a penetrarla e a uccidere lì i soldati di guardia. In quel modo dicevano a Karzai, a Ghani, ai loro padrini statunitensi, che inizialmente disponevano marines a difesa della loro ambasciata poi usarono solo contractors: “Colpisco quando voglio”. Ora i ruoli sono invertiti. A presiedere i controlli ci sono le pattuglie dei turbanti, che già in varie occasioni si sono dimostrate inadatte alla bisogna. Nei filmati sui pattugliamenti a Kabul, i giovani miliziani dell’Emirato paiono intenti a mettersi in mostra, a farsi fotografare più che a stabilire un reale controllo d’un territorio di per sé difficile da setacciare. Ma chi ne coordina il “lavoro”, gli altisonanti nomi di Yacoob (ministro della Difesa) e Haqqani jr (ministro dell’Interno), probabilmente risultava più capace a pianificare attacchi che a prevenirli. I due dovrebbero ben conoscere strategie e canali d’infiltrazione, eppure non riescono a frenare i rivali in terrore. A meno non abbiano rinunciato a priori a quel compito, cosa che non traspare dalle dichiarazioni ufficiali. La ricostruzione della “sicurezza” cerca di minimizzare: l’azione odierna è opera di un kamikaze coadiuvato da un compagno armato che ha continuato a sparare dopo la prima deflagrazione. Secondo testimonianze raccolte dall’Agenzia Bakhtar ci sarebbe stato un vero commando, riuscito a penetrare  nell’ospedale e ingaggiare un lungo conflitto a fuoco con le ‘forze di vigilanza’. Mentre un infermiere, intervistato dai media locali, ha parlato di due esplosioni susseguitesi nell’arco di dieci minuti. Non è certo se dentro o fuori dalla cerchia muraria del nosocomio.