venerdì 31 marzo 2017

Iran, chi va là a Trump

Cosa fanno gli Stati Uniti nel Golfo Persico?” si è chiesto retoricamente il ministro della Difesa di Teheran Hossein Dehqan per girare la domanda al generale Votel, massima autorità militare americana in Medio Oriente. L’ha fatto dopo la dichiarazione di quest’ultimo sulla possibilità d’un attacco alla nazione iraniana. E ha aggiunto: “E’ meglio che gli Usa lascino la regione senza molestarne i popoli. E’ inaccettabile che un rapinatore armato s’introduca nelle abitazioni altrui e s’aspetti un’accoglienza col tappeto rosso”. Dulcis in fundo ha definito il comportamento statunitense come “un’istanza di moderna barbarie”.  Insomma un bel ‘ceffone diplomatico’ allo staff di Trump, in risposta alle provocazioni presidenziali Usa che in prima e seconda istanza ha ribadito il divieto ai visti per i cittadini islamici di alcuni Paesi fra cui spicca l’Iran. Per quanto dedito ai discorsi senza peli sulla lingua, l’inquilino della Casa Bianca non s’era spinto a pronunciare dirette minacce verso Teheran, l’ha fatto per bocca del suo ufficiale che dichiara quel che pensano al Pentagono e nello stesso Studio Ovale: la società degli ayatollah è una minaccia e riveste un ruolo destabilizzante nell’area mediorientale. Volutamente dimentichi della posizione rivestita nel contrastare il Daesh in Siria. Ma forse proprio per questo, perché le varie giunte americane più che pensare alla permanenza o alla dismissione di Asad, erano e sono preoccupate dal consolidato asse russo-iraniano. La risposta secca del ministro di Teheran, travalica la medesima specificità d’un dicastero, comunque centrale come quello della Difesa.

Dehqan, ex pasdaran (nell’arma dell’aeronautica) appartiene a quel partito combattente che costituisce una componente solida e pragmatica che non dispiace agli ayatollah. In realtà durante il secondo mandato di Ahmadinejad - presidente venuto proprio da quella cosiddetta ‘generazione del fronte’, quella dei militanti formatisi nella guerra contro Saddam pochi mesi dopo il successo della rivoluzione khomeinista - i pasdaran cercarono di rafforzare il loro già solido potere, forzando la mano nei confronti del clero. Non la spuntarono. La Guida Suprema Khamenei, il potentissimo Rafsanjani, tolsero la tutela verso il presidente-basij che piaceva agli ultraconservatori. Lui dopo le contestazioni dell’Onda verde e i presunti brogli elettorali, venne oscurato coi sospetti scandali del suo staff. Al di là delle questioni personali, il clero sciita non gradiva l’ingerenza laica delle Guardie della Rivoluzione, che da buoni sciiti non devono mettere in discussione il velayat-e faqih. Ovviamente il partito combattente non è amato, e in questo ricambia, dalle forze riformiste che avevano dato vita alla primavera iraniana con la presidenza comunque d’un ayatollah: Khatami. L’attuale presidente Rohani, uomo del compromesso fra le fazioni, dopo la vittoria del 2013 ha inglobato varie tendenze, aprendo le porte ai pasdaran. Il ministro Dehqan, ne è un esempio. Nelle elezioni che s’approssimo (19 maggio) tutto  riceverà una verifica, e la politica estera, come sempre, rappresenterà un terreno di confronto fra vertici e base elettorale. Il muso duro di Dehqan nei confronti di Washington fa parte del gioco.

mercoledì 29 marzo 2017

Galassia talebana: i taliban uzbeki

Le trasformazioni in corso in seno alla famiglia dei taliban afghani possono aiutare a comprendere le tattiche e la strategia da loro attuate nell’ultimo biennio. Un periodo in cui questi particolari signori della guerra hanno ammesso la dipartita del mitico mullah Omar, celata per due anni, si sono riuniti per eleggere un successore, si sono divisi e contrastati. Hanno trovato la quadratura del cerchio nella nomina d’un nuovo leader (Akhtar Mansour), hanno risubìto una menomazione con la sua uccisione tramite un drone, con molti sospetti su possibili fughe di notizie verso la Cia che ha commissionato quell’eliminazione. Un supporto probabilmente giunto dall’Intellegence pakistana, imbeccata dai turbanti pakistani dissidenti. Comunque il fronte talib non s’è perso d’animo. Velocemente ha nominato un nuovo capo (Haibatullah Akhundzada), proseguendo quella campagna d’attacco contro l’Afghan National Force per dimostrarne l’inconsistenza militare, smentendo coi fatti la narrazione occidentale sulla presunta normalizzazione del Paese e avanzando le proprie pretese politiche. I successivi passi di Ghani, che già dal 2015 aveva riavviato colloqui con la Shura di Quetta per una “pacificazione nazionale”, hanno cercato un’àncora nel fondamentalista Hekmatyar affinché fungesse da mediatore verso i colleghi islamisti.
Quest’ultimi, però, puntano a far pesare nell’eventuale trattativa la logica del più forte; il loro controllo del territorio è una realtà con la quale le Istituzioni che cercano il dialogo devono fare i conti. In più si nota un altro interessante fenomeno: la scomparsa dell’unicità pashtun che fra gli studenti coranici del jihad produceva un’egemonia indiscussa. In realtà per un lungo periodo quell’etnìa ha nutrito il movimento dalle roccaforti meridionali (Kandahar su tutte), ma già dalla fine dell’esperienza dell’Emirato (2001) e dall’inizio della resistenza contro l’invasione delle truppe statunitensi e della Nato la tendenza stava cambiando. Col lancio della controffensiva, sempre crescente dal 2008 e la ricostruzione delle unità combattenti da nord a sud, il fattore multietnico è diventato una condizione nuova con cui i governi fantoccio (prima Karzai, poi Ghani) devono fare i conti. Interessante è lo studio compiuto dai soliti ricercatori locali sulla situazione di alcune province del nord a fitta presenza talebana: Faryab, Sar-e Pol, Jowzjan, Balkh, Kunduz. Aree dove i governatori che dovrebbero rendere conto ai palazzi di Kabul, possono ben poco, surclassati come sono dallo spettro dei governatori fantasma, ovviamente di marca talebana.
Voce alla loro propaganda d’opposizione al governo collaborazionista con gli invasori occidentali, la offrono anche gli imam che incoraggiano le famiglie a spedire i figli nelle madrase dove istruzione e predicazione sono ampiamente favorevoli al Jihad. Per quei ragazzi il futuro ha strade obbligate, dirette verso la religione o la militanza combattente. Nei casi osservati si nota che le province sono in buona percentuale (che non scende mai sotto il 50%) controllate da milizie talebane, composte da uzbeki, tajiki, pashtun. Il reclutamento è continuo, esistono campi d’addestramento al combattimento corpo a corpo, con armi leggere e anche all’uso di esplosivi. Sul tema vengono confezionati video promozionali. Anche quando alcuni di questi governatori-ombra sono  fermati e arrestati con operazioni repressive (sostenute dai marines statunitensi), il reclutamento non si blocca né diminuisce. I giovani miliziani d’etnìa uzbeka ostentano l’appartenenza e impegnano la propria fedeltà al nuovo emiro e ai suoi rappresentanti locali, una battaglia contro cui l’attuale governo ha provato a schierare anche un pezzo da novanta delle storiche guerre interne: il generale uzbeko Dostum, dal 2014 vicepresidente afghano.
Uomo sopravvissuto a ogni stagione e bandiera: nel 1980 combatté per il governo filo sovietico, venne poi foraggiato dagli Stati Uniti, durante la guerra civile (1992-96) contribuì a distruggere Kabul. Ha guerreggiato contro mujaheddin e taliban ma, come altri warlords soprattutto per se stesso, non ha disdegnato esecuzioni sommarie e fosse comuni per i prigionieri islamisti. Nonostante la non verde età (ora ha 63 anni) è tornato a usare nomea e carisma militari al fine di spezzare l’uzbekizzazione dell’insorgenza in quelle province del nord, anche con le consolidate maniere spicce, tanto che alcuni degli abusi sui civili menzionati dall’Unama nel 2015 sono ascrivibili alle sue truppe. L’amministrazione Ghani ovviamente nasconde le malefatte, figurarsi la Casa Bianca… Di fatto l’utilizzo del vecchio arnese della guerra per bande ha solo rinfocolato la sua forza e la sua boria, l’esercito afghano non ne ha tratto beneficio tecnico né d’immagine mentre le giovani generazioni uzbeke non hanno ceduto granché al fascino del vecchio combattente. Chi può fugge attraverso l’Iran verso i confini turchi e oltre, chi resta può scegliere fra i mercenari del vicepresidente o i miliziani di Akhundzada. Forse c’è diversità di trattamento economico, ma i taliban gettano sul piatto i temi della fede e una non secondaria ipoteca sul potere. A tutt’oggi quest’ultimi sembrano pagare.  

venerdì 24 marzo 2017

Mubarak, la sfinge che sopravvive alla rivoluzione

Torna libero Hosni Mubarak, il raìs che ha incarnato l’Egitto contemporaneo, traghettandolo dai sogni di grandezza ancora in animo nel Sadat della guerra del Kippur e poi mediatore nell’apertura all’Occidente e a Israele, alla totale subordinazione ai disegni statunitensi e sionisti nel Medio Oriente. Sia riguardo all’irrisolta questione palestinese, che durante il suo regime sviluppò nei territori attigui due Intifade, subendo le periodiche aggressioni preventive dell’esercito di Tel Aviv con un Egitto spesso compiacente alleato contro la resistenza palestinese; sia nella crescente involuzione del fronte progressista, cui lo stesso partito di Mubarak aderiva nella sedicente Internazionale socialista. Insieme ad altri capi di stato arabi, trasformatisi in autocrati e dittatori, Mubarak ha incarnato quella gestione personale e clanista del potere che ha rilanciato proteste e contestazioni popolari, oltreché il riproporsi dell’Islam politico. Era stato arrestato dopo il suo allontanamento ufficiale dalla presidenza, l’11 febbraio 2011, quando assieme al ministro dell’Interno al-Adly venne accusato di strage per le feroci repressioni poliziesche intercorse dal giorno seguente la grande manifestazione popolare di piazza Tahrir (25 gennaio 2011) che fecero 850 vittime. La contestazione crescente rilanciava il desiderio di cambiamento della nazione, già da alcune settimane richiesta anche dal popolo tunisino. Pane, libertà, dignità, gridavano le due piazze arabe, cui presto se ne aggiunsero altre. Quelle di Libia e Siria hanno avuto evoluzioni tragiche e bagni di sangue tuttora in corso.

Dopo le prime settimane di reclusione, alibi d’un tumore in realtà mai riscontrato, condussero Mubarak nelle infermerie del carcere e poi negli ospedali militari. Da quello di Maasri, dov’è rimasto pe due anni, è uscito stamane. Subito dopo l’arresto del 2011, per qualche mese s’era vociferata l’ipotesi d’una possibile condanna a morte, scartata in parte per l’età (era già ultraottantenne) e per volontà della stessa amministrazione della Fratellanza Musulmana, con Qandil premier e Morsi presidente, che non volevano rincrudire spaccature nazionali in corso. Correvano estate e autunno del 2012 e si comprese che il vecchio leone sarebbe al massimo stato condannato a un periodo di reclusione, sebbene la prima sentenza tramutò l’impiccagione in ergastolo ‘per alto tradimento, verso la nazione e il popolo’. La diplomazia internazionale con Obama, che pure guardava amichevolmente alla svolta islamica, cercava di sostenere se non il perdonismo perlomeno una linea morbida. Certamente favorevole all’anziano Capo di Stato restava una buona fetta della magistratura, tutta formata e cresciuta in carriera sotto il suo regime. Passo dopo passo i processi, che vedevano coinvolti per corruzione, accaparramenti, ruberie gli stessi rampolli Ala e Gamal, hanno smussato toni d’accusa e sono finiti nel nulla, grazie all’arrivo ai vertici dello Stato dell’ennesimo militare: il generale Al Sisi. La lobby dell’esercito, cui Mubarak apparteneva, non aveva mai cessato di avere mani e controllo sulla nazione, nella sfera politica ed economica, come a vantaggio di chi veste la divisa e distribuisce diverse tipologie di lavoro nell’indotto e ovviamente ai vertici, cui erano permessi gli arricchimenti interni al clan mubarakiano. Uno di costoro era il generale Shifiq che perse le elezioni contro Mursi. Oggi, a 88 anni, Mubarak allunga lo sguardo e saluta. Dei morti di Tahrir, torture, rendition, arresti, sparizioni e assassini alla Khaled Said nessuno più parla. Anche perché gli scempi sono sostituiti da altrettante mattanze, dalla moschea Rabaa a Regeni. E non è finita, perché al Cairo continuano a regnare le sfingi.

mercoledì 22 marzo 2017

Attentato a Londra, l’arma della normalità

Nella strategia della morte che l’Isis rivolge ai cittadini occidentali, avviata con gli attentati spettacolari di Parigi nel novembre 2015 e proseguita l’anno scorso all’aeroporto di Bruxelles e poi a Promenade des Anglais di Nizza, al mercatino antistante Kaiser-Wilhelm-Gedächtniskirche di Berlino e ancora al “Reina club” di Istanbul, traspare una sorta di evoluzione dell’attacco in due elementi chiave: l’attentatore e l’arma letale. E’ ormai noto il messaggio che il califfo Al Baghdadi, la mente o una delle menti dell’assalto all’Occidente, ha lanciato ai fedeli del Jihad: usare qualsiasi mezzo capace di seminare morte per punire gli infedeli. Così ordigni, camion, coltelli, kalashnikov possono tutti servire allo scopo, come mille altri strumenti.Tant’è che temendo il “plastico” inserito in un pc portatile, le sicurezze americana e britannica iniziano a vietare il trasporto in cabina di questi apparecchi (e sfugge perché li si ammetta in stiva). La via del terrore scelta dall’offensiva jihadista nel cuore dell’Occidente ha, dunque, la forza di utilizzare gli elementi della vita normale per praticare la propria guerra. Inoltre sta diversificando le figure di attentatore.
Alla cellula aggregata e protetta nel quartiere d’immigrazione, com’era il caso del sobborgo di Molenbeek, va sempre più inserendo il “lupo solitario”, spesso un marginale indottrinato in carcere dalla rete dei reclutatori com’era Mohammed Lahouaiej-Bouhel, che nella festa di Francia azzerò ottantadue vite. Oppure Anis Amri, il “camionista” di Berlino fuggito in Italia e freddato mentre s’aggirava davanti la stazione ferroviaria di Sesto San Giovanni. Insomma il miliziano potrà essere un tiratore esperto come Abdulgadir Masharipov, l’uzbeko che nella notte di Capodanno ha rovesciato vari caricatori sugli avventori dell’esclusivo locale sul Bosforo, o adattarsi a colpire con qualsiasi cosa, utilizzando l’unica arma imprevedibile contro cui le Intelligence non possono nulla: l’adesione alla ‘guerra santa’. Taluni commentatori vedono nella tipologia dello strumento d’offesa utilizzato una debolezza dei terroristi, evidenziano le difficoltà nel procurarsi quel materiale (ordigni esplosivi) che aveva caratterizzato le stragi qaediste del 2005 a Londra e Madrid. Merito – sostengono – del lavoro dei Servizi. E così sarà.

Eppure ciò che destabilizza il cittadino medio delle metropoli europee, e l’intero sistema che gli gira attorno e nel quale è inghiottito, è proprio la banale normalità con cui si presenta la nuova frontiera di attentati. Assolutamente imprevedibili perché scaturiti da quel che c’è nella nostra quotidianità. La mente perversa di Al Baghdadi (o chi per lui) avrà pure partorito il topolino, ma è questo che tiene in scacco le Intelligence che pur si vantano di studiare e prevenire ogni azione. Dall’11 settembre francamente non si sa chi abbia fatto più strada… Certo quella che potrebbe disattivare la citata arma letale che è la scelta della ‘guerra santa’ viene meticolosamente aggirata da parlamenti e governi occidentali, che verso il mondo islamico nel suo insieme, alzano muri e controffensive come se si stesse davvero all’epoca di Saladino e Riccardo Cuor di Leone. Così ci si perde fra ipotesi di soluzioni tecniche e militari e competizioni ideologico-confessionali fra civiltà che fanno la gioia dei predicatori salafiti e di chi nell’Islam cerca potere. Con simili presupposti ai reclutatori del Jihad i kamikaze non mancheranno. Quanto all’arma basta guardarsi attorno: il quotidiano è un bazar fornitissimo per la morte.

Droni: il tiro a segno su talib e civili

Fra i compiti della struttura statunitense Joint Special Operations Command, ricordati di recente (http://enricocampofreda.blogspot.it/2017/03/afghanistan-una-guerra-ravvivata-dai.html) - dalla ‘guerra al terrore’ di bushana memoria alla ‘rivoluzione obamiana’ che ha intrecciato iperinterventismo e uscita - si collocano le missioni particolari, effettuate con caccia e droni. La specializzazione ha ricevuto molte contestazioni da parte delle stesse Nazioni Unite per gli scellerati massacri di civili, colpiti nonostante il mantra delle “operazioni chirurgiche mirate”. Un esempio particolarmente insanguinato riguarda i territori di confine fra Afghanistan e Pakistan, le aree tribali denominate Fata, che vedono un’alta presenza di taliban, anche perché costoro  cercano di reclutare giovani nei tanti campi profughi sorti in quelle terre e sempre arricchiti da nuovi flussi di sfollati da zone dove il conflitto è cronico. La Central Intelligence Agency, che suggerisce e supervisiona simili operazioni, definisce ‘ibrida’ un’attività rivolta alla sorveglianza e agli attacchi militari. Entrambi iniziati in sordina, e per lungo tempo né negati né ammessi dalle istituzioni statunitensi militari e politiche. Ma dal 2004 i sorvoli sui cieli delle Fata e i bersagli da colpire sono divenuti crescenti, si rivolgevano ai gruppi dei Tehreek-e Taliban pakistani, che in quella fase non erano affatto interessati alle questioni afghane.
Alcuni studi del Bureau of Investigative Journalism, che si sta occupando del fenomeno combattentistico dei TTP dalla fase dei loro crudelissimi attentati del 2014-16 (scuola di Peshawar, chiese cristiane e parco giochi di Lahore) fino all’uccisione del neo leader Mansour in Baluchistan, sostengono che il crescendo stragistico talebano sia un effetto-ritorsione proprio per i continui massacri operati sulla popolazione civile. Anche gli omicidi mirati destabilizzano non poco il quadro geopolitico e gli stessi rapporti diplomatici: l’eliminazione di Mansour era fortemente osteggiata da Islamabad, che ovviamente pensava alla sua sicurezza interna, messa in ginocchio dagli eventi seguenti. Il governo pakistano vorrebbe una compartecipazione a certe decisioni, chiede che si evitino gli attacchi clamorosi e avverte Washington dell’effetto boomerang che viene innescato dal puntare il mirino sui TTP o sui miliziani di Haqqani. La Cia se ne infischia dei consigli. Lo fece durante le gestioni di Panetta e Petraeus, l’ha continuato a fare con Brennan, che ha supportato e incrementato il ‘piano droni’ ordinato da Obama. Un programma zeppo di contraddizioni, con buchi informativi casuali o voluti ed effetti devastanti sulla popolazione di ciascuna area geografica interessata. Anche quando il piano ha trovato ulteriori applicazioni in Yemen e Somalia i “danni collaterali” sono risultati copiosi e naturalmente odiosi. Ma alla Casa Bianca se ne infischiano, e Trump fa pensare che la musica proseguirà. La superficialità e gli errori commessi in talune operazioni di Intelligence si trasformano in colpi portati su obiettivi sbagliati.

A questi s’aggiungono uccisioni immotivatamente allargate. Ci riferiamo sia ai casi in cui non si va tanto per il sottile e per colpire un bersaglio importante si fanno fuori anche i miliziani o le guardie del corpo che l’accompagnano, sia ad altre  situazioni in cui si spara nel mucchio, eliminando chi ha la sfortuna di trovarsi nel momento sbagliato nel luogo sbagliato e finisce sulla linea del fuoco. Operazioni tutt’altro che chirurgiche diventano automaticamente stragiste. Il passo successivo è quello di nascondere, per quant’è possibile, i danni e sottostimare il numero delle vittime. Il sistema coinvolge buona parte dei media mainstream, seppure in certi casi non tutti, e punta alla disinformazione o all’informazione pilotata che, nel caso dei droni, cavalca la storia della precisione tecnologica del mezzo. Notizia in gran parte vera, peccato non si entri nel merito alla cruda realtà degli eccidi di civili. Questi portano acqua alla causa fondamentalista che, ad esempio, nelle Fata trova linfa fra i giovani diseredati che sentono l’angosciosa condizione di vivere sotto un cielo portatore di morte. Eppure questa sembra la via “antiterrorista” del futuro. Tutte le maggiori potenze si dotano di droni e c’è chi si chiede se si giungerà a loro utilizzo per colpire quelli nemici. Sicuramente si eviterebbero le perdite di piloti, non dei bersagli fissi e mobili. Comunque con un fare assai soft, perché, come ebbe a dire il principino Harry, che da pilota ha servito la Corona in Afghanistan nel biennio 2007-2008: “Sparare ai talebani coi droni è proprio come un videogame“.