“Cosa fanno gli Stati Uniti nel Golfo Persico?” si è chiesto
retoricamente il ministro della Difesa di Teheran Hossein Dehqan per girare la
domanda al generale Votel, massima autorità militare americana in Medio
Oriente. L’ha fatto dopo la dichiarazione di quest’ultimo sulla possibilità
d’un attacco alla nazione iraniana. E ha aggiunto: “E’ meglio che gli Usa lascino la regione senza molestarne i popoli.
E’ inaccettabile che un rapinatore armato
s’introduca nelle abitazioni altrui e s’aspetti un’accoglienza col tappeto
rosso”. Dulcis in fundo ha definito il comportamento statunitense come “un’istanza di moderna barbarie”. Insomma un bel ‘ceffone diplomatico’ allo
staff di Trump, in risposta alle provocazioni presidenziali Usa che in prima e
seconda istanza ha ribadito il divieto ai visti per i cittadini islamici di
alcuni Paesi fra cui spicca l’Iran. Per quanto dedito ai discorsi senza peli
sulla lingua, l’inquilino della Casa Bianca non s’era spinto a pronunciare dirette
minacce verso Teheran, l’ha fatto per bocca del suo ufficiale che dichiara quel
che pensano al Pentagono e nello stesso Studio Ovale: la società degli
ayatollah è una minaccia e riveste un ruolo destabilizzante nell’area
mediorientale. Volutamente dimentichi della posizione rivestita nel contrastare
il Daesh in Siria. Ma forse proprio per questo, perché le varie giunte
americane più che pensare alla permanenza o alla dismissione di Asad, erano e sono
preoccupate dal consolidato asse russo-iraniano. La risposta secca del ministro
di Teheran, travalica la medesima specificità d’un dicastero, comunque centrale
come quello della Difesa.
Dehqan, ex pasdaran
(nell’arma dell’aeronautica) appartiene a quel partito combattente che costituisce
una componente solida e pragmatica che non dispiace agli ayatollah. In realtà
durante il secondo mandato di Ahmadinejad - presidente venuto proprio da quella
cosiddetta ‘generazione del fronte’, quella dei militanti formatisi nella
guerra contro Saddam pochi mesi dopo il successo della rivoluzione khomeinista
- i pasdaran cercarono di rafforzare il loro già solido potere, forzando la
mano nei confronti del clero. Non la spuntarono. La Guida Suprema Khamenei, il
potentissimo Rafsanjani, tolsero la tutela verso il presidente-basij che
piaceva agli ultraconservatori. Lui dopo le contestazioni dell’Onda verde e i
presunti brogli elettorali, venne oscurato coi sospetti scandali del suo staff.
Al di là delle questioni personali, il clero sciita non gradiva l’ingerenza
laica delle Guardie della Rivoluzione, che da buoni sciiti non devono mettere
in discussione il velayat-e faqih.
Ovviamente il partito combattente non è amato, e in questo ricambia, dalle
forze riformiste che avevano dato vita alla primavera iraniana con la
presidenza comunque d’un ayatollah: Khatami. L’attuale presidente Rohani, uomo
del compromesso fra le fazioni, dopo la vittoria del 2013 ha inglobato varie
tendenze, aprendo le porte ai pasdaran. Il ministro Dehqan, ne è un esempio.
Nelle elezioni che s’approssimo (19 maggio) tutto riceverà una verifica, e la politica estera,
come sempre, rappresenterà un terreno di confronto fra vertici e base
elettorale. Il muso duro di Dehqan nei confronti di Washington fa parte del
gioco.
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