Il battibecco a distanza
fra Angela Merkel e Recep Tayyip Erdoğan sta allargando l’orizzonte e rischia
un attrito diplomatico di più ampie proporzioni. Ieri il presidente turco ha agitato
lo spettro del nazismo, lanciando pesanti accuse all’intero establishment
tedesco, a suo dire responsabile del divieto (seguito a quelli già espressi da
Olanda e Austria) rivolto a membri dell’Akp di tenere incontri con gli
immigrati turchi in Germania sul tema del referendum sul presidenzialismo
previsto per il prossimo 16 aprile. Si tratta d’un elettorato che sfiora i tre
milioni di cittadini, e ha un peso in ogni consultazione. Parlando a Istanbul
Erdoğan ha chiesto retoricamente se le autorità di Berlino pensano con questa
misura di favorire il fronte del No, ma soprattutto ha dato fondo a un attacco
polemico: “La Germania dovrebbe sapere
che il suo attuale comportamento non è diverso da quello del periodo nazista”.
Il ministro degli Esteri tedesco Gabriel, che fra due giorni dovrà incontrare
l’omologo turco Çavușoğlu, ha cercato di stemperare i toni, sostenendo che la
profonda amicizia e i reciproci interessi (economici) che legano i due Paesi non
possono permettersi cadute d’odio. Ha, comunque, sottolineato che i politici di
Ankara desiderosi d’intervenire in terra tedesca, devono rispettare leggi, princìpi e decenza.
Materia scatenante era
stata il ministro turco della Giustizia Bozdağ, cui una municipalità del
sudovest germanico aveva revocato il permesso di tenere un comizio sulla
materia referendaria fra i propri connazionali lì presenti. Secondo il ministro
stesso quell’impedimento era stato deciso ben più in alto, dai poteri federali
e forse dall’Intelligence, la neanche
molto velata insinuazione del politico è che questa struttura anziché
collaborare col governo turco, chiuda un occhio su immigrati della comunità
kurda sospettati di terrorismo. Ma contrasti fra le due nazioni sono cresciuti
attorno al recente arresto di Deniz Yucel, reporter della testata Die Welt e cittadino turco-tedesco,
accusato di attentato alla sicurezza della nazione turca, un refrain che
caratterizza il repulisti condotto in prima persona da Erdoğan dal giorno
seguente il tentato golpe del 15 luglio scorso. Del caso ci siamo occupati qui
(http://enricocampofreda.blogspot.it/2017/02/caso-yucel-le-vendette-del-sultano.html)
e la vicenda, nient’affatto sanata, avrà sicuri strascichi. Rammentiamo che carezze
e minacce fra i due statisti erano già comparse in occasione del piano sui
profughi siriani che vide la Cancelliera parlare a nome dell’Europa, preoccupandosi
sia di nazioni fuori dal suo controllo (non solo l’Ungheria di Orban, ma la
stessa Austria che ama Hofer) che delle “democratiche” solo a parole.
L’Unione preferì pagare
dazio alla Turchia perché diventasse l’area di parcheggio dei flussi migratori
che da est seguivano la rotta balcanica. Erdoğan alzò il prezzo dell’accordo,
per agguantare euro (3 miliardi che sarebbero raddoppiati) e nuovi crediti
politici. Un capitolo parzialmente chiuso, più per la diminuzione dei profughi,
dopo l’accordo seguito allo straziante assedio di Aleppo, che per soluzioni definitive.
Visto che tanti campi profughi sono in condizioni disperate e recenti
reportage, che non si sa se saranno più permessi dalle autorità turche,
mostrano precarietà e abbandoni simili a quelli conosciuti nei ghetti della
“giungla di Calais”. L’accusa è che
Ankara incassi i fondi europei, spendendo poco e niente per l’assistenza reale
alle persone lì ammassate. Ai giornalisti della stampa estera che “impudentemente”
mostrano simili carenze e vergogne la polizia turca in divisa e in borghese
sequestra camere e passaporti, è accaduto giorni fa. Poi il maltolto viene restituito, ma segue l’invito a non ripetere
simili lavori. Se la dissuasione, perpetuata con la persecuzione che
l’informazione interna subisce da mesi, non dovesse bastare gli agenti del Mıt
rinfrescano la memoria, forti di quel che il presidente grida in casa e fuori.
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