martedì 31 ottobre 2023

Af-Pakistan, le luci del cricket e il buio dei migranti

 

In quella che anche i cronisti sportivi definiscono come un’immensa campagna pubblicitaria per le prossime elezioni indiane a tutto vantaggio del premier Modi, la Coppa del Mondo di cricket organizzata nelle metropoli di Delhi, Mumbai, Bangalore ma anche in località più decentrate, attira l’attenzione dei media sulle squadre  partecipanti e le stelle che si contendono titolo e onori nel mese di durata del torneo. Fra i Paesi partecipanti alcuni appartengono al triangolo in cui questo sport - d’origine britannica e importato nella colonia indiana - si è sviluppato. Da oltre un secolo e mezzo continua a coinvolgere in maniera passionale popolazioni che per altri aspetti operano distinguo e revisioni rispetto a un passato di sottomissione imperialista. Misteri del fervore sportivo. Del resto proprio l’attuale governo indiano - guidato dal partito che esalta anche faziosamente le proprie origini linguistiche, geografiche, etniche e da anni conduce una campagna ostile al passato coloniale trasformando anche i nomi delle città - sulla questione sorvola. E’ noto come la macchina organizzativa di grandi eventi sportivi, festaioli, di rappresentanza d’ogni genere, inneschi una spirale affaristica, peraltro solo in parte virtuosa e legale. Spesso il lobbismo, con tutto il suo apparato clientelare ben collegato alla politica, trascina l’illecito di favoritismi, combine, scommesse e mercanzia varia. Solo un anno fa, durante i Mondiali di calcio a Doha, venivano alla luce, solo parzialmente e per poco tempo, le pressioni di funzionari e faccendieri marocchini affinché il Paese maghrebino ricevesse favori da parlamentari presenti nell’Unione Europea (peraltro italiani e legati al Pd) per il suo import-export. Accadeva mentre il pubblico internazionale apprezzava le ottime prestazioni della nazionale di Rabat alla quale “l’affaire” non ha certo giovato. 

 

Sport veicolo d’investimenti, orientamenti elettorali, coinvolgimenti e distrazioni di massa, tanto che anche i regimi ritenuti più refrattari al carrozzone spettacolare prestano comunque attenzione alla pubblicità indiretta e diretta che un mondo posto costantemente sotto i riflettori riesce ad offrire. Tornando alla Coppa del Mondo di cricket, solo le testate sportive e quelle più attente passano la notizia della partecipazione al torneo della formazione dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan. E’ solo parzialmente una novità, perché dicevamo che questo sport è diffuso oltre che in India e Pakistan anche nell’altra area del Pashtunistan, diventata a fine Ottocento e per volontà del Segretario del Raj britannico sir Mortimer Durand, regno afghano. Farebbe più effetto riferire che i turbanti di Kabul, mentre non trovano fondi per finanziare le scuole femminili, li hanno scovati per sostenere la nazionale di cricket. Maschile e mascolina, ovviamente. Che se la gioca muscolarmente con altri lanciatori e battitori di nazioni vicine e lontane. E che nei giorni scorsi è riuscita in un’impresa che entra nella storia: battere addirittura il team pakistano. Un successo festeggiato con fuochi d’artificio e spari, stavolta a salve, per le strade della capitale. Autorità con tanto di turbante al settimo cielo, ma mentre si festeggia la stella del boundary Rashid Khan stesso cognome d’un altro campione, quell’Imran diventato presidente pakistano, il limes fra i due Stati sta per essere varcato da un milione e settecentomila profughi afghani che Islamabad rispedisce oltre confine. Vendetta per la sconfitta sportiva? Probabilmente no. Le autorità pakistane avevano in animo questo rimpatrio per contenere le proteste dei propri cittadini riguardo alla ribollente condizione sociale. Crisi economica, problematiche varie (il Paese deve far fronte a un’epica migrazione interna scaturita dalle alluvioni dei mesi scorsi che coinvolge trenta milioni di persone), l’instabilità politica e le elezioni che dovrebbero tenersi entro l’anno hanno orientato il governo Sharif verso la scelta. Smaltita l’euforia per il successo sugli ingombranti vicini ora i taliban dovranno trovare, magari fra gli sponsor del cricket, qualche aiuto per l’inaspettata emergenza migratoria. 


 

domenica 29 ottobre 2023

Turchia pro palestinese

 


Rossa come il sangue versato dalla gente di Gaza, compresi i fratelli di Hamas nient’affatto terroristi. Rossa come la bandiera-patria festeggiata nel giorno del centenario, la marea turca mossa dal presidente Erdoğan a sostegno del popolo palestinese ha sopravanzato ogni altra manifestazione di solidarietà che il mondo ha inanellato in questo fine settimana. Lo spazio antistante l’ex aeroporto Atatürk di Istanbul si è riempito all’inverosimile con una folla strabordante in quello che il governo ha definito “Grande incontro palestinese”, svoltosi mentre le bombe israeliane continuavano a squarciare edifici e vite umane nella Striscia. Intervenendo Erdoğan è stato perentorio: “Il principale colpevole del massacro che si svolge a Gaza è l'Occidente" e ha ribadito: “Hamas non è un'organizzazione terroristica. Israele è stato molto offeso da quest’affermazione... Israele è un occupante, io parlo chiaramente perché la Turchia non ti deve nulla”. Presenti nella piazza turca i leader della coalizione governativa, fra cui Devlet Bahçeli del Movimento Nazionalista, del Grande Partito dell'Unione Mustafa Destici, il nuovo responsabile del Partito del Welfare Fatih Erbakan, del Partito della Causa Libera Zekeriya Yapıcıoğlu e del Partito della Sinistra Democratica Önder Aksakal. Insomma è stato un incontro in grande stile dell’intero gruppo dell’Alleanza nazionale che ha riscosso successo nelle elezioni politiche e presidenziali del maggio scorso. Nessuna presa di posizione da parte del Partito repubblicano. Fra le sferzate rivolte ai politici occidentali il presidente turco ha rilanciato la proposta dell’immediato cessate il fuoco per porre fine a quello che ha detto ha il contorno “d’un genocidio”. Secondo le autorità sanitarie palestinesi, dal 7 ottobre almeno 7.703 palestinesi sono morti per i bombardamenti dell’Idf, tra essi 3.000 bambini. Più di 1.400 persone sono state uccise nell'attacco di Hamas contro i kibbutz nel sud di Israele.  

 


giovedì 26 ottobre 2023

Gaza, il nemico deve solo morire

 


Né ‘pausa dei raid’ israeliani, proposta dagli Stati Uniti e bocciata dalla Russia, né ‘cessate il fuoco umanitario’, lanciato dalla Russia e bloccato da Stati Uniti e Gran Bretagna, trovano spazio per i veti di chi ha questa facoltà nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Uniti. E della buona volontà dell’Onu restano soltanto le intenzioni visto che gli interessi di parte bloccano ogni cosa, come del resto accade da decenni. Se il Segretario generale dell’Assemblea esprime una valutazione sull’operato di una nazione, Israele, non d’un suo gruppo terroristico del passato che pure ha lastricato la creazione di quello Stato, un operato in perenne disconoscimento delle risoluzioni Onu (questo ricordava Guterres per quanto avvenuto dal giugno 1967 a oggi)  quest’uomo, questo politico, quest’autorità super partes viene giudicata persona non gradita. A chi? Alla politica di Tel Aviv, costantemente impositiva sui propri desiderata. Mentre tutto questo avviene, Israel Defence Forces continua a tirare giù quanti più edifici possibili su Gaza e sotto quelle macerie le vittime sono più di settemila. Ma non bastano. Eppure l’Idf sostiene di abbattere esclusivamente i palazzi dei capi di Hamas e punire solo quei miliziani. Prendendo per buone tali attribuzioni Hamas risulterebbe non proprio  una forza minoritaria, come sostiene la tambureggiante informazione pro Israele coi suoi distinguo fra popolo palestinese e gruppo terroristico. Ci si è messo il presidente turco Erdoğan a rigettare l’epiteto e collocare il Movimento di Resistenza Islamica nella categoria che dalla nascita nel 1987 gli appartiene: si tratta di resistenti, combattenti, patrioti della causa palestinese. Una verità innegabile. La quale prima di non piacere a Israele e a tutto l’Occidente che lo bolla come terrorista, non piace al partito palestinese rivale (Fatah) solo un tempo maggioritario. Poiché se il suo raìs Abu Mazen - il politico che Tel Aviv e Washington hanno prescelto come interlocutore privilegiato in virtù della disponibilità di aprire la Cisgiordania a ogni volere di Israele e all’occupazione ‘pacifica’ dei suoi coloni – permettesse ciò che impedisce da un quindicennio, le elezioni, Hamas mostrerebbe quel consenso che il mondo gli nega, seguito dappresso dalla Jihad Islamica.

 

Piaccia o meno ai sedicenti democratici del mondo politico. Il prolungato non voto ha incistato una condizione di blocco non solo per una reale rappresentanza del volere palestinese. Ha stabilito il coma d’una presunta nazione, scippata dello stesso territorio riconosciutogli dagli Accordi di Oslo e, dalle stesse direttrici di quel trattato-farsa, impedita a un’autodeterminazione economica; svuotata di risorse primarie (si pensi al noto scippo dell’acqua da parte israeliana); piegata all’elemosina dell’assistenza e dunque alla dipendenza da chi ti dà e ti toglie in base a quanto la Cisgiordania che il sionismo tollera risulti collaborativa e genuflessa. Tale condizione inquinata da una disponibilità privata di ogni dignità e foriera di corruzione ha squassato Fatah. Magari sul fronte opposto s’è creata eguale dipendenza fra il ceto politico islamista e i suoi protettori e finanziatori (il Qatar su tutti), ma gli odierni politologi e pure i comunicatori puntano dita e occhi solo su quest’ultimo peccato. Fra i mediatori di quel che appare impossibile e che invece andrebbe imposto: impedire lo stillicidio di morti innocenti che invece Israele continua a imporre, mentre accusa di barbarie chi ha ucciso i suoi civili, Erdoğan rivendica alla sua maniera un ruolo di pacificatore. Rompendo lo schema buoni-cattivi, soldati-mercenaridrogati, difensori della civiltà-terroristi. Lo fa con cattiva coscienza, perché poi in casa bolla come terroristi i militanti del Pkk e non solo loro, ma tant’è, se si sta dietro a Netanyahu e Biden, occorre ascoltare anche Erdoğan e magari Putin e Xi. Nessun capo mondiale vanta una limpidezza nell’operato recente o, per chi cavalca il potere da decenni, di lunga data. Però il doveroso richiamo del leader turco: "Quante altre tonnellate di bombe devono cadere su Gaza e quanti altri bambini devono morire per chiedere un cessate il fuoco? Qual è il vostro piano?” rappresenta una sferzata di realismo che troppi premier e presidenti volutamente evitano.

mercoledì 25 ottobre 2023

Khan Younis, tre fratelli

 


Piangono, laceri e sporchi, ma solo leggermente feriti, seduti su un lettino del Nasser Hospital di Khan Younis, Striscia di Gaza. Salvi, per ora. I più piccoli abbracciano il fratello maggiore, bambino anche lui, che comunque a dieci anni ha già conosciuto altre guerre, altre devastanti bombe. A osservarli, senza nulla sapere di loro, potrebbero essere orfani o magari no. Certo il giorno, i loro giorni s’inanellano bui e terrificanti senza un senso per il domani. In quella manciata d’anni che sommano in tre dovrebbero avere un presente e un futuro, proprio perché l’infanzia fa rima con vita. Non è così. Per loro non è così e già lo sanno. Lo vedono quotidianamente, non solo quando cadono le bombe sulle case di gente comune, non solo dei capi di Hamas, ma in quell’anormalità di un’esistenza ostacolata, bloccata, impedita. Così se questi bambini, e a ogni altro minore contro la sua volontà affogato nello strazio del conflitto israelo-palestinese, si ammalano e muoiono per morbi virali talune statistiche non li conteggeranno fra le vittime della guerra. E’ già accaduto nella Striscia, in Afghanistan, in Iraq, in Siria. I signori delle guerre lo proporranno altrove. Mentre i signori delle statistiche enumerano i corpicini dilaniati da esplosioni, e magari crolli, colpi di artiglieri e mitraglia, non contano chi muore per tifo e difterite, curabili ma non senza medicinali. Di solito non elencano chi muore per fame e sete, né per la paura che tutto quello che gli occhi infantili vedono provoca nelle loro piccole anime.  341 erano i minori vittime di Piombo fuso, 35 di Colonna di nuvole, 532 di Margine di protezione, 66 nel conflitto del 2021, oltre 2000 in questi sedici giorni mentre Israele, che ha il copyright delle citate morti, attende di scagliare un’offensiva ancora più piena di terrore da imprimere su quei volti e quei cuori. Questi se riusciranno a esistere, a resistere non potranno che diventare combattenti, guerriglieri, miliziani portatori essi stessi di morte. E’ la logica impressa dallo Stato sionista dalla sua nascita, e anche nei tragici giorni in cui Israele conosce una diffusa violenza subìta dai suoi figli pure bambini, sceglie di seminare altra morte. L’unica via che sembra appagarlo.  

martedì 24 ottobre 2023

La paura della pace

 


Shalom con cui l’ostaggio ottantacinquenne Yocheved Lifshitz s’accomiata dal miliziano di Hamas, suo sequestratore che l’accompagna verso la liberazione, è la parola che spiazza i due fronti dell’attuale scontro israelo-palestinese. E’ quello che non vuole il governo Netanyahu che fa bombardare case, ospedali, feriti, medici, civili in movimento in attesa di un’invasione di terra rimasta in souplesse. Mentre il gruppo islamico allunga la trattativa sugli ostaggi e, per restituirli, chiede contropartite che Tel Aviv non vuol dare, nonostante siano solo queste a poter riconsegnare i rapiti alle famiglie. Non vogliono la pace i teorizzatori dell’annientamento del Movimento di Resistenza Islamico e chi fra costoro e la Jihad palestinese reclamano l’azzeramento di Israele. Ma nelle tragiche ed estenuanti ore d’un conflitto allungato, finora, a sedici giorni con vittime crescenti fra i palestinesi (5.791, con punte di 700 morti al giorno) e i 1.400 cadaveri contati dagli israeliani, chi ritiene impossibile un pensiero di  pace è chi sarebbe deputato a questa ricerca, proprio nella difficoltà del momento. All’odierna assise al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite il ministro degli Esteri di Tel Aviv lì presente Eli Cohen ha sprezzantemente ripreso il segretario generale Guterres  che aveva ricordato come “… il popolo palestinese è stato sottoposto a cinquantasei anni di soffocante occupazione”. E sempre Guterres: “le sofferenze del popolo palestinese non possono giustificare gli spaventosi attacchi di Hamas, ma quegli attacchi spaventosi non possono giustificare la punizione collettiva del popolo palestinese”. Stizzato Cohen ha replicato “In che mondo vive, signor segretario generale? Certamente non nel nostro”. E ancora: “Dopo il 7 ottobre non c’è più spazio per un approccio equidistante. Hamas deve essere cancellato dal mondo”. Ancor più tranciante Gilard Erdan, ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite: “Guterres mostra comprensione per la campagna di omicidi di massa di bambini, donne e anziani: non è adatto a guidare l’Onu. Si dimetta immediatamente”. Non ha puntualizzato se negli omicidi cui faceva riferimento fossero contemplati bambini, donne e anziani della Striscia di Gaza. All’Assemblea dell’Onu non c’era alcun membro di Hamas (sic), probabilmente non avrebbe pronunciato frasi pacifiche e distensive. Sicuramente non pronunceranno più nulla i capi dell’organizzazione, Jamila al-Shanti al-Rantisi e Jehad Mohaisen obiettivi mirati e disintegrati in questi giorni da Israel Defence Forces. Assieme a migliaia di civili.  

lunedì 16 ottobre 2023

L’eterna pulizia etnica di Israele

 


C’è una guerra che Israele ha sempre praticato, addirittura prima di nascere ed essere riconosciuto come Stato, quella agli abitanti di Palestina. Gli effetti maggiori di questa guerra eterna non erano soltanto le enunciazioni ottocentesche del padre del sionismo Theodor Herzl; né gli assalti ai villaggi arabi organizzati e realizzati dai gruppi paramilitari (l’odierno teoricamente corretto direbbe terroristi) dell’Haganah che interpretava la difesa insita nel nome atterrendo i palestinesi; e neppure la vicinanza o la militanza che taluni padri della patria ebbero coi crimini delle bande Irgun e Stern. Quel che è avvenuto dal 1947 in poi – dearabizzare la Palestina – deflagra più d’ogni bomba tuttora sganciata sulle ultime generazioni palestinesi. Certo, parlare di Storia e degli sviluppi delle micro storie a essa legate può risultare ingombrante e noioso. Così il panorama dell’informazione e dello stesso approfondimento è disposto a spingersi indietro d’una decina d’anni o giù di lì. Quando a Gaza Hamas prendeva il potere mitragliando Fatah, spiegando che trattasi di faide interne alla politica  palestinese che aveva ricevuto poco prima (2005) l’autogestione della Striscia di Gaza grazie alla caparbietà del generale e poi premier che l’aveva sgombrata da esercito e coloni. Quell’Ariel Sharon comandante in Libano ai tempi dell’occupazione che chiudeva gli occhi davanti al massacro falangista di Sabra e Shatila. Ecco, abbiamo già fatto un saltino indietro di quarant’anni, parlando di campi profughi, l’unica patria che Israele concede ai palestinesi espellendoli dalla Palestina. Quest’effetto crea più vittime di quante ogni conflitto, imposto o subìto, da Israele va sommando decennio dopo decennio. 

 

Gli 800.000 palestinesi fuggiti a seguito della tragica ‘catastrofe’ del 1948 pesano nelle vicende di questo popolo come un macigno perché costituiscono l’allontanamento dalla propria terra che il sionismo teorizzatore di Israele considerava vuota. Quella regione che vuota non era, ma che fu ‘alleggerita’ dalla presenza araba compiendo massacri come a Deir Yassin e decine di piccoli villaggi, consentiva all’Agenzia Ebraica e quindi a Israele di attuare il presunto socialismo kibbutzino, segnato dal potente marchio nazionalista, e correlare il proprio stabilirsi in quei luoghi alla cacciata dei palestinesi. Questa pulizia etnica somma l’emarginazione degli attuali arabi di Israele (1.900.000 cittadini colpiti nei diritti basilari, sfavoriti e sottopagati nel lavoro, piegati da umiliazioni, trasferimenti forzati, detenzioni amministrative, soggetti di fatto ad apartheid, nonostante quel che dicano i frequentatori dei salotti televisivi d’un Occidente dalla visione univoca) alle angherie rivolte agli abitanti della Cisgiordania (circa tre milioni, privati del proprio spazio vitale con tutto quel che si sa: la separazione fisica dei settecento chilometri di Muro, l’esproprio di terreni e l’abbattimento di case, l’insediamento di oltre mezzo milione di coloni nell’area riconosciuta a un presunto Stato Palestinese). Fino ai più bersagliati di tutti: i 2.3 milioni di palestinesi della Striscia, che nella sua presunta guerra contro Hamas, Israele vuol azzerare all’essenza di esiliato a vita, come all’epoca della Nakba. Una pulizia etnica che di recente la Comunità internazionale ha deciso di far sopportare ai 120.000 abitanti del Nagorno Karabakh riparati a ranghi quasi completi in Armenia. Con qualche mal di pancia dei politici di Erevan, ma con uno sviluppo in corso, cosa impossibile per i gazesi che né Egitto né Arabia Saudita accetteranno, nonostante le illazioni diplomatiche lanciate in queste ore. Israele sta rioccupando mezza Striscia da cui espelle un milione di cittadini che s’ammassano sull’altro milione disastrato nei venti chilometri che restano a loro. Per quanto non si sa. Mentre i fratelli della Cisgiordania sono avvertiti, il loro turno arriverà. A spingerli fuori, insieme all’Idf, è pronto un altro mezzo milione di coloni. 


 

venerdì 13 ottobre 2023

Le ore contate dei gazesi

 

L’idea umanitaria di Israele consiste nell’evacuare la metà della gente di Gaza. Tutti via da Gaza city che fa 800.000 abitanti e dalla fascia di Gaza nord, 400.000. Così nell’indispensabile prossima operazione militare, già denominata ‘Spade di ferro‘, atta a bonificare-punire-azzerare l’area da cui è partita l’azione che Hamas ha chiamato ‘Tempesta di Al Aqsa’, ci sarà qualche morto in meno. In attesa del via libera ponderato da Netanyahu all’estero e all’interno, coi colloqui col Segretario di Stato americano Blinken e con l’ampia coalizione politica che affratella ogni partito della Knesset attorno  allo Stato ebraico, si prospetta di travasare oltre il confine di Rafah  una massa di persone più numerosa di quella che oltre un settantennio fa diede origine alla Nakba. Le Nazioni Unite hanno già lanciato l’allarme, parlando di catastrofe umanitaria. Un simile trasferimento non è possibile né auspicabile per la destabilizzazione che creerebbe nel vicino Egitto, da parte sua nient’affatto disponibile ad aprirsi a una simile soluzione. Per ora prevale il tono bellico-burocratico con cui Israel Defence Forces ordina a ciascun gazese: "Potrai di tornare a Gaza city solo quando un altro annuncio lo permetterà. Non avvicinarti all'area della recinzione di sicurezza con lo Stato di Israele”. Oltre la metà di chi deve sloggiare sono bambini, molti sotto i sei anni d’età. Se non li hanno perduti sotto le bombe dipendono totalmente dai genitori, e tutti dipendono dal sostegno economico internazionale che è stato in parte bloccato, in parte potrebbe esserlo a breve. L’altra voce che circola fra le macerie e nelle case ancora in piedi è dell’autorità del Movimento di Resistenza IslamicaNotizie false – dice del proclama dell’Idf e poi – restate nelle vostre case (dove comunque non c’è luce, né acqua e chi resoconta da lì dice che l'aria di morte è dentro ogni pertugio rimasto ancora in piedi) occorre rimanere fermi davanti a questa guerra psicologica disgustosa condotta dall'occupazione”. Farlo accettare a vedove con cinque minori al seguito non è un automatismo. Forse chi fra queste donne ha uno, due o più figli combattenti fra le fila Hamas o della Jihad può obbedire a un suggerimento che comunque ha il sapore di martirio. E trasformare i civili in martiri non è un’idea vincente, per tutto quello che sta mostrando su entrambi i fronti. Mentre l'Unrwa ha trasferito il suo centro operativo e il personale a sud per continuare le proprie iniziative  umanitarie e il sostegno dei rifugiati, i vertici dell’agenzia Onu provano a far recedere i contendenti dai citati propositi che in ogni caso si scaricano su una popolazione in preda al caos oltre che angosciata dal panico per quanto visto e subìto. Chi accettasse di farlo si chiede dove poter andare. Di fatto la stessa decina di chilometri verso il confine sud - da Khan Younis a Rafah - che contano settecentomila abitanti, non potrebbero raccogliere neppure all’aria aperta in eventuali  campi attrezzati, la massa di sfollati proveniente dalla parte nord della Striscia. “Il tracollo sarebbe totale” dichiarava stamane ad Al Jazeera un responsabile dell’Unrwa. Mentre Omar Shakir, direttore di Human Rights Watch per Israele e Palestina sostiene che "La comunità internazionale deve agire per prevenire una calamità causata da questo massiccio spostamento”. Ma gli sviluppi della vicenda si decidono fuori dal Palazzo di Vetro, e le diplomazie mondiali comunque tutte mobilitate non stanno trovando la quadratura del cerchio. Il cerchio che si stringe è la risposta che Israele ‘deve’ dare. I falchi come il ministro della Difesa Gallant hanno deciso lo sradicamento e l’annientamento di Hamas quante salme si lasceranno dietro le ‘Spade di ferro’ si vedrà a breve. Per i registi della vendetta non è cinismo. E’ la giusta punizione per i mostri di Hamas, una vendetta umanitaria che dice a un contorno di due milioni di anime dannate: “andate via”, e poco pensa anche ad anime e corpi dei suoi centotrenta figli ostaggi del mostro. 


 

martedì 10 ottobre 2023

Gaza e noi

Proviamo a immaginare, noi cittadini che viviamo in uno spazio geografico nazionale particolare e limitato, lungo comunque 1.200 km, una fuga di massa a un evento terribile come un bombardamento dal cielo e da terra. Circoscriviamo la situazione alle tre città italiane più popolate e paragoniamola ai quaranta chilometri per quindici piatti, rettangolari, ossessivamente sigillati della Striscia di Gaza. Dove si riparerebbe il milione e mezzo di milanesi se da Loreto dovessero andare verso nord: Gorla, Sesto, Cinisello, Muggiò, Lissone Seregno? Un muro di palazzoni e villette, magari tanta strada comunque un mondo di gente stipata e ansante alla ricerca di riparo. E i romani nella direttrice della ‘regina delle strade’ dal Tuscolano ad Anagnina e Ciampino, Marino, Ariccia. Tre milioni, uno in più dei gazesi, ma la fuga sarebbe possibile solo dopo Velletri, in una campagna romana rimasta tale solo nel nome poiché l’edificazione intensiva l’ha cementificata. Asfissiante come nella Striscia sarebbe l’abbandono di Napoli, a nord verso Caserta? a sud verso Salerno? Sembra di ripercorrere il dramma che i parenti sopravvissuti al secondo conflitto mondiale si sono portati nella tomba o possono ancora raccontare ai nipoti. E il terrore delle bombe dalla cui deflagrazione ci si salvava nel tufaceo ventre cittadino è rimasto il chiodo fisso d’una vita. Chi in questi giorni diventa l’obiettivo delle bombe d’Israele su Gaza non può andare oltre Seregno, Velletri, Castellammare, può trovare riparo sottoterra. Nelle viscere del rettangolo maledetto si finisce cadaveri, senza neppure un funerale  perché il vivo non può deflagrare per onorare il morto; oppure si sta ansanti e celati. Potranno i famosi tunnel della resistenza palestinese dare riparo a due milioni di gazesi? Sicuramente no. In superficie si dovrà decidere chi sta dentro e chi fuori. I miliziani, in opposizione combattente alla preannunciata invasione da terra, immoleranno se stessi ad Allah, tanti civili saranno i ‘danni collaterali’ della reazione di Israele all’attacco e affronto subìti. Gli uomini di buona volontà dicono di non farlo, ma si farà. La quota sacrificale la deciderà la cruda cronaca delle ore a venire. Inevitabile, inesorabile. Perché questo decide chi comanda oltre quel confine violato da Hamas che ha provocato ottocento vittime, migliaia di feriti, centotrenta ostaggi israeliani. Lanciando migliaia di razzi che nell’impari lotta israelo-palestinese può far meditare i vincitori di sempre che i ruoli possono diversificarsi e si può morire non solo da un lato. Prima dell’assalto nell’ora x Israele ha già deciso di prendere per e fame e sete le vittime di domani, impedendo anche forniture elettriche ed energetiche. “Sono animali” ha sentenziato Galant, il suo ministro della Difesa, l’assedio sarà totale. Immaginiamoci a Roma e Napoli di stiparci nelle fungaie dell’Ardeatino, negli ipogei dei quartieri spagnoli ma non per percorsi turistici e di svago. Farlo sotto le bombe che cadono, come e peggio di quanto succedeva ai nostri genitori. A Gaza accade in queste ore. 

domenica 8 ottobre 2023

La guerra di Hamas e l’incubo dell’irrisolto

 


Non è dato sapere se l’ennesima infuocata crisi, riempita di sangue e di morte, fra palestinesi e israeliani durerà giorni, settimane o mesi. Di fatto “la questione” dura da settantacinque anni e la via intrapresa dalla dirigenza antica, trascorsa e presente dello Stato sionista, tende a renderla eterna. Con tutte le inevitabili conseguenze radicali e violente. Che esistono su ogni fronte, perché anche i commando di Settembre nero assaltavano e uccidevano quando Hamas e Jihad islamica non c’erano, e come prima di loro avevano fatto l’Haganah e l’Irgun. Il problema è che quelle epoche e quelle pratiche si riproducono, anzi Israele le ha continuate a far sue non più con gruppi paramilitari bensì con un esercito nazionale, protetto, equipaggiato ed   ipertecnologico. Mentre si è cristallizzata la non soluzione di uno Stato palestinese, avvelenata, non solo e tanto dalla vuotezza degli Accordi di Camp David e poi di Oslo, ma dalla ebreizzazione di Israele e dall’infiltrazione nel corpo della gente con cui si dovrebbe vivere accanto, perché i trojan degli insediamenti dei coloni non rendono possibile una convivenza pacifica. Questo racconta la storia recente della Cisgiordania. E in queste ore in cui le cifre di morti- feriti-ostaggi raggiungono quote drammaticamente luttuose con possibili aumenti esponenziali (seicentocinquanta vittime israeliane, quattrocento palestinesi accertate alle 18 dell’8 ottobre) il commento mediatico si spalma  sull’evidente dolore, sostenendo la sorpresa di fatti i cui prodromi erano da mesi sotto gli occhi. Ma di chi voleva vedere. Un po’ più in là del confine di Gaza, dal gennaio scorso 180 palestinesi non incontrano più la luce del giorno, freddati dalle armi di Israel Defence Forces. Stessa sorte hanno subìto 28 israeliani, assaltati da miliziani e da singole azioni disperate e omicide di chi osserva le cose sul fronte opposto. Le inenarrabili violenze odierne seguono inenarrate violenze quotidiane, nessuna si giustifica, ma tutte esistono in una storia maledettamente lasciata sospesa.  

 

Le novità apparse con l’organizzatissima “Tempesta Al Aqsa” di Hamas sono sfuggite solo al preparatissimo Shin Bet. Se involontariamente, volutamente, per recondite ragioni di supponenza, per eccesso di fiducia verso controlli elettronici inadatti a operazioni di ‘sofisticata artigianalità’, lo stanno scandagliando gli esperti dell’Intelligence. Certo, la debolezza iniziale è apparsa palese e la difesa del territorio, di villaggi, famiglie, beni deve fare i conti con la determinazione di attaccanti fortemente motivati. Israele l’inviolabile è stato colpito, Israele l’invincibile ha subìto uno smacco, come nell’agosto 2006 contro gli hezbollah libanesi. Questo fattore determina il presente non solo per mettere nell’angolo gli sbandierati ‘Accordi di Abramo’ che quietavano i rapporti fra Tel Aviv e Riyad, ma irridevano i palestinesi privati, anche sulla carta, del 30% dei loro territori inglobati da Israele. Fa riflettere sul perché il miliziano di Hamas, che la maggior parte della comunicazione occidentale definisce terrorista, sia ferocemente disposto a uccidere e a morire. Può ben raccontarlo chi è passato nella Striscia di Gaza, figurarsi chi ci sopravvive da bambino. E ora a diciotto o venticinque anni, sigillato in quella prigione a cielo aperto, da dove Sharon ritirò truppe e coloni nel 2005, l’orizzonte da osservare può anche essere azzurro, però regala periodicamente le bombe punitive dell’aviazione israeliana, da ‘Piombo fuso’ in poi. Non è Mohammed Deif  a creare i “terroristi”, come non era l’ingegnere Ayyash a incrementare i kamikaze. Loro li organizzano, li guidano, a detta di molti analisti li sfruttano, come peraltro ogni politica utilizza i propri attori siano combattenti, militari in divisa, civili pacifici oppure armati. E’ la non soluzione dell’annosa “questione” a produrre il dolore che televisioni e video amatoriali stanno mostrando. Anche perché quando Hamas, cinque anni addietro, lanciò la pacifica  ‘marcia del ritorno’ in ricordo della Nakba del 1948, i soldati di Tsahal facevano il tiro al bersaglio sui manifestanti che alzano bandiere non khalashnikov accanto alle reti metalliche che ieri hanno sfondato. Duecentotrentaquattro furono i morti, fra il disinteresse di autorità e comunità internazionali e di tanti media dimentichi del proprio ruolo.

 

Straniamento e paura sono le umanissime sensazioni che la gente d’Israele manifesta nel fosco presente, avendo cercato di contestare, ma non a maggioranza perché lui continua ad essere al vertice del Paese, il premier Netanyahu, non il sistema. Probabilmente il tema che tiene accesa la brace mediorientale prenderà in questi giorni contorni rinnovati rispetto al quadro asfittico conosciuto negli ultimi tempi. Ci sarà tanta Geopolitica con la maiuscola, come e più delle guerre del Kippur o di quella dei ‘Sei giorni’. Ma quegli eventi bellici non risolsero anzi inasprirono “la questione”, e la diplomazia di decenni e decenni seguenti ha peggiorato il presente. Nello smacco odierno da cui Israele deve riprendersi e trovare soluzione c’è la vicenda degli ostaggi. Un centinaio e forse più, che rappresentano l’attuale arma più potente che il Movimento Islamico di Resistenza mette sul piatto di possibili trattative. Tutti i missili lanciati finora, che hanno messo in difficoltà il non più salvifico Iron Dome, non hanno lo stesso impatto di uomini, donne, bambini, anziani,  militari sequestrati e portati oltre il confine al cospetto dell’Inferno di Gaza. Umanamente c’è da sperare che non diventino scudi umani, dipenderà anche da quello che faranno Netanyahu e l’esecutivo con l’avviata reazione dal cielo e da terra. Mette i brividi l’ipotesi che possano essere sacrificati alla ‘ragione di guerra’ finendo sotto le bombe di chi dice: appiattiamo Gaza. Un’ipotesi ottimistica può pensare agli scambi di prigionieri, visto che la dirigenza di Hamas li considera tali. E’ il valore del baratto che può diventare pesante se dodici anni fa per restituire ai cari il caporale Shalit, prelevato da un commando sempre nei dintorni di Gaza, ci vollero cinque anni e mille detenuti palestinesi. Nell’ipotetica trattativa dei cento ostaggi le prigioni d’Israele dovrebbero svuotarsi. Chi spera che tuttociò s’avveri, magari facendo anche tacere le armi, è un formidabile sognatore. Eppure in queste ore buie ancor più ottimistico sarebbe non solo la sortita dalle galere di Gaza e di Tel Aviv, ma l’uscita dall’incubo della “questione irrisolta”. Altrimenti non ci sarà mai luce, né per Hamas né per Israele. 

sabato 7 ottobre 2023

Hamas fa la sua guerra d’Ottobre

 


Quaranta morti, settecentocinquanta feriti tutti israeliani colpiti da combattenti di Hamas che stamane hanno lanciato la propria guerra d’Ottobre. Quella storica, ricordata in Occidente come guerra del Kippur, è del 1973, un colpo a sorpresa degli eserciti egiziano e siriano che nel giorno della festività ebraica attaccarono Tsahal, infliggendogli lo smacco di una rioccupazione del Sinai e delle alture del Golan. Poi, anche grazie all’ausilio statunitense, gli israeliani riconquistano tutto e al cessate il fuoco del 25 ottobre, le posizioni di partenza erano ristabilite. Israele si riprendeva quanto aveva ottenuto con la guerra-lampo dei ‘sei giorni’. Stamane Hamas, silente da tempo, ha lanciato l’attacco lungo vari punti del confine della Striscia di Gaza con gli insediamenti meridionali di coloni israeliani. Sono state interessate anche cittadine prossime alla frontiera, come Sderot, colpite assieme a città più distanti da un intensissimo lancio di razzi, forse cinquemila. Sono questi ad aver prodotto vittime e feriti, ma diverse persone sono state freddate a colpi d’arma da fuoco dai commando penetrati in territorio israeliano. Risultano sequestrati e condotti entro i confini della Striscia un numero imprecisato di civili e militari, considerati da un comunicato di Hamas, prigionieri di guerra. Un conflitto che la direzione del partito Islamico giustifica quale risposta alla “profanazione della moschea di al-Aqsa e all’aumento delle violenze dei coloni”. Dichiarazione risuonata come musica nelle orecchie del premier Netanyahu che infiammato dalle drammatiche notizie della mattinata afferma che i territori di Gaza riceveranno quella punizione che finora non avevano mai conosciuto. E pensando a tutte le azioni militari avviate dal cosiddetto ‘Piombo fuso’ e susseguitesi per anni potrà elevare il numero delle vittime palestinesi a diverse decine di migliaia. Ma stamane i morti sono stati di parte avversa, ad eccezione dei miliziani falciati dall’iniziale reazione dell’esercito di Tel Aviv, che comunque appunto come accadde cinquant’anni fa non attendeva l’attacco. Pur nel giorno dello Shabbat, nell’anno in corso lo Yom Kippur è stato festeggiato due settimane fa, evidentemente lo Shin Bet, nonostante le spiate e le reiterate infiltrazioni, non aveva notizie fresche dalla Striscia. Per ora l’aviazione d’Israele ha lanciato pesanti raid sui cieli dei quaranta chilometri abitati dai palestinesi, colpendo obiettivi militari (depositi e caserme) e abitazioni civili. Secondo la febbre d’intervento mostrata dai vertici sionisti dopo le notizie mattutine lo scontro sarà sanguinoso. Già si contano 200 morti e un migliaio di feriti. Secondo indiscrezioni raccolte dall’emittente Al Jazeera i miliziani islamici in azione nel territorio d’Israele sono stati un migliaio. Giunti via terra, tagliando le reti metalliche del confine, aggredendo le pattuglie in alcuni snodi e atterrando anche con deltaplani a motore che si son spinti all’interno per qualche chilometro. Le valutazioni strategiche sull’azione si vedranno nei giorni a seguire, per ora l’iniziativa appare come un compattamento interno dell’organizzazione verde, negli ultimi anni messa in crisi di vocazione e reclutamento dai gruppi della Jihad islamica