domenica 28 febbraio 2016

Elezioni iraniane: successo della speranza

L’onda moderata iraniana prosegue il suo flusso anche nell’urna e, appoggiandosi ai risultati diplomatico-economici del presidente Rohani, conquista 96 seggi per il Majlis, facendo l’en plein a Teheran: 30 eletti. Nella capitale un gran numero di giovani ha appoggiato la “Lista della speranza” animata da Reza Aref, che fu vice di Khatami da anni ostracizzato dagli ayatollah ultraconservatori. Quest’ultimi subiscono lo smacco di vedere solo 31° Gholam Haddad Adel, fedelissimo della Guida Suprema e suo consuocero, perché nella capitale parecchi sostenitori del “Fronte unito dei conservatori” si sono astenuti. 45% è la percentuale di voto a Teheran contro un abbondante 70% nazionale. Per i risultati finali bisognerà attendere qualche giorno; per ora si sa che agli indipendenti vanno 25 seggi mentre 52 saranno assegnati dopo un ballottaggio previsto ad aprile. Probabilmente la componente tradizionalista, che nel vecchio Parlamento contava 167 deputati (finora ne ha confermati 91), vedrà un drastico ridimensionamento. Uno dei cavalli di battaglia dell’asse riformista-moderato è stato il lodato accordo sul nucleare (realizzato grazie al pragmatico compromesso fra due moderati, il più aperto Rohani e il più fedele a Khamenei Larijani) che sposa il desiderio di apertura del Paese verso investimenti stranieri, commerci che creano opportunità di lavoro,  rompendo un isolamento quarantennale.
Una strada già conosciuta con la presidenza di Khatami e rilanciata da alcuni suoi uomini (Reza Aref, Mousavi) che, per uscire dal proprio punitivo congelamento politico, hanno aperto contatti e collaborazione con Rohani ormai da un triennio. Così l’asse politico interno, che negli otto anni dell’epoca Ahmadinejad aveva visto prevalere gli ultraconservatori appoggiati dai moderati, vede il connubio moderati-riformisti trovare idee, voglia e gambe per camminare al fianco. In un quadro difficilissimo più all’esterno che all’interno, visto che i nuovi assetti delle istituzioni devono misurarsi sul terreno geopolitico mediorientale ed economico globale. Ma  il blocco della speranza non perde l’ottimismo su tale binomio, pensando che potrà risultare il più proficuo possibile per le sorti di tutti. Anche per coloro, e sono molti pure fra i giovani, che continuano a considerare non secondario il legame con l’esperienza rivoluzionaria della Repubblica Islamica, da Khomeini ai nuovi interpreti dello Stato. Questo fattore nello scontro col blocco sunnita, nelle sue versioni filoccidentale delle petromonarchie e fondamentalista del Daesh, non decade affatto. Anzi. E lo spirito della Rivoluzione iraniana, la difesa nazionale dai subdoli giochi del Grande Satana statunitense, continuano a essere gli argomenti che gli ultraconservatori del clero e del partito dei Pasdaran oppongono agli avversari riformisti. Compresa l’accusa che l’Onda verde del 2009 fosse infiltrata dalle Intelligence occidentali e usata contro la nazione e l’intero orizzonte sciita.
Il tema continuerà e s’amplierà nel prossimo, importantissimo, passo elettorale che riguarda l’Assemblea degli Esperti, coloro che eleggeranno la nuova Guida Suprema in sostituzione di Khamenei. Un ruolo che rivede in corsa l’immarcescibile e potente volpe della politica iraniana: Ali Akbar Hashemi Rafsanjani. Uno dei padri della Rivoluzione, successore di Khomeini e presidente per due mandati dal 1989 al 1997. Un uomo ancor più pragmatico di Rohani, dotato di pedigree e legami con ogni componente della società iraniana: ayatollah, militari, imprenditori, commercianti e anche popolo minuto. Basta ricordare che fu accanto a Khomeini, guidò i Pasdaran nella sanguinosissima guerra contro Saddam (1980-1988), la sua ricchissima famiglia ha contatti coi maggiori gruppi di capitale sia le bonyad, sia le imprese di Stato controllate dai Guardiani della Rivoluzione. Ha un legame profondo coi bazari, il ceto medio mercantile e agli occhi degli abitanti delle città e delle aree rurali è un personaggio della tradizione che non resta chiuso nelle scuole di meditazione e preghiera, ma sa muoversi nel mondo. Un uomo scaltro, che fa molto anche per sé - cosa che gli innovatori gli contestano, come i conservatori l’accusano di aperture occidentaliste - però adeguatissimo al nuovo clima in atto con la presidenza Rohani.

I due si ritroveranno elettori nell’Assemblea degli Esperti, ma per la carica potentissima di Guida Suprema (in base al velayat-e faqih verifica le leggi del Parlamento, ha l’occhio sulla magistratura, controlla le forze armate, può censurare la stampa) può risultare più adatto per l’ottantunenne Rafsanjani. Ci sono altri nomi. Il sessantasettenne Shahroudi, 67 anni. Lo scorso anno doveva diventare presidente dell’Assemblea, poi è giunto l’imprevisto ritiro (frutto sicuramente d’un intervento di Khamenei) ed è stato eletto Yazdi che ha superato Rafsanjani. Gli osservatori sostengono come Shahroudi, apprezzato fra i chierici di Qom, riceve consensi anche fra politici laici e nelle strutture militari. Ma l’anno passato s’erano anche diffuse indiscrezioni su un suo coinvolgimento in inchieste giudiziarie su fondi stornati alla Mezzaluna Rossa e utilizzati in parte per acquisti di materiale bellico. Altri fondi sarebbero finiti in un network iracheno gestito dall’ayatollah che è originario di Najaf. Questo avrebbe potuto decretare l’esclusione dalla presidenza. Come Guida meglio di lui Javadi-Amoli, avanti con gli anni (82) ma forte dei consensi di alcune bonyad che controllano il ramo energetico. C’è poi l’ayatollah Sistani, 85 anni, iracheno, la cui elezione potrebbe essere letta dal mondo sunnita come una provocazione pansciita. Mossa, comunque, contemplabile in un Medio Oriente serrato in un confronto-scontro su tutti i terreni. Chi, dopo le tendenze del voto di venerdì, sembra ai margini è la triade Jannati, Yazdi, Meshab-Yazdi.  Troppo anziano il primo (88 anni) e sbilanciati nel passato gli altri, all’epoca sostenitori del presidente-basij Ahmadinejad. Insomma il rebus del futuro Iran passa per quest’elezione. Ma, per i prevedibili compromessi fra le parti, potrebbe non risultare breve. 

giovedì 25 febbraio 2016

Elezioni iraniane, ayatollah contro

Gigante al voto - L’Iran, uno dei giganti mediorientali coi suoi 81 milioni di abitanti, va all’urna. Gli elettori sono 50 milioni, il 60% ha al massimo trent’anni, le donne sfiorano il 49% dell’elettorato sebbene abbiano solo il 9.4% di rappresentanza parlamentare. Domani si vota per rinnovare il Majlis, 290 seggi per oltre seimila candidati, e l’Assemblea degli Esperti che incarica 88 membri, sui 161 ammessi al confronto, quasi tutti chierici. Quest’ultimo organismo riveste una particolare importanza nella società iraniana perché elegge la Guida Suprema, che in base al velayat-e faqih, vigila sulla consonanza delle leggi emanate dal Parlamento con la dottrina islamica. L’attuale Giuda Khamenei, che prese il posto del padre della Repubblica Islamica Khomeini, ha 76 anni ed è stato operato per un tumore, necessita dunque d’un erede. La partita politica la giocano sempre il fronte riformista e quello conservatore, ciascuno con tendenze più moderate e più estreme. I temi su cui si misurno sono svariati, interni e internazionali, abbracciano questioni economiche, geostrategiche, religiose, culturali e non da meno ambientali.
Dualismi - Dietro il dualismo secolarismo-teocrazia si dipana un confronto-scontro fra gruppi di potere e le stesse tendenze del clero sciita che vedono vecchi e nuovi ayatollah schierati quasi agli antipodi. Seppure componenti che ora fanno corpo unico col clero ultraconservatore, come i ‘Guardiani della Rivoluzione’, all’epoca del presidente laico Ahmadinejad cercarono di ampliare il proprio peso economico e politico a danno delle bonyad controllate dal clero. In quel contrasto Khamenei fu tranciante col basij portato tanto in alto dall’eminenza nera ayatollah Yazdi. Il presidente fu posto sotto tutela della Guida Suprema che limitò anche le pretese dei pasdaran, aiutato in quel caso da tutto il clero, riformista e reazionario. I contrasti fra le parti proseguirono nel 2009, con la riconferma contestata per brogli di Ahmadinejad, e ripropongono l’altra grande lotta, in questo caso interna al clero, fra riformisti e tradizionalisti. A disputarsi spazi ed egemonie nomi tutti noti da almeno un ventennio. Accanto ai Khatami e Yazdi, ai Mousavi e Jannati, c’è la real politik dei Rouhani e Larijani che ha un grosso peso specifico grazie ai risultati raggiunti con l’accordo sul nucleare e nei rapporti internazionali.
Fatti - E i fatti, per ogni elettore medio, parlano e contano. Ma la tattica che l’ala riformatrice adotta con lo slogan “agiamo nel sistema” e l’acronimo numerico del “30+16” (i candidati da far eleggere nelle due assemblee), aggira quello scontro diventato sanguinoso, fatale e improduttivo con l’’Onda verde’ del 2009. Lo dimostra l’elezione alla presidenza di Rohani, che non è certo un Mousavi e neppure un pensatore aperto come l’ex presidente Khatami, però da politico e ancor più da diplomatico, ha compreso come non si potesse chiudere in faccia ogni porta alla molta gioventù che cerca aria nuova. Su di lui i sostenitori dei riformisti alla Reza Aref e Motahari avevano fatto convergere i voti nel 2013, e adesso quell’area politica, dietro la quale c’è sempre la mente di Khatami, cerca di sfruttare tutte le occasioni per rafforzarsi nella società, senza lasciare spazio alla borghesia filoccidentale che pure agisce nel Paese. Contro tale spettro lanciano le proprie invettive gli islamici della tradizione, non solo degli ayatollah più reazionari - l’ottantanovenne ma sempre combattivo Jannati e l’ottantaduenne Yazdi  - ma le stesse forze organizzate che contano, sia i pasdaran, sia i basij.
Il partito della sicurezza - I primi sono tuttora impegnati come “consiglieri” sul fronte siriano, gli altri si passano di padre in figlio quel filo rosso con la Rivoluzione islamica, insanguinato sul fronte iracheno,  che nella regione travagliata dai conflitti può tornare. Costoro parlano delle ‘infiltrazioni’ con cui i nemici dell’Iran possono colpire l’unità nazionale. Fra esse quella del fondamentalismo del Daesh è temuta, odiata e sicuramente respinta dalle ferree capacità militari. Altra cosa è considerare nemici e infiltrati dell’Occidente, coloro che cercano nuove vie politiche per il Paese. Ad agitare propositive ‘liste della speranza’ ci sono i costruttori dell’attuale Iran, Rohani e Larijani, ma pure la vecchia volpe Rafsanjani che si considera il traghettatore di quelle aperture lanciate da Khatami. Tutti affermano che non apriranno agli estremisti, mentre i “riformisti estremi”, per non restare fuori dai giochi, creano ponti col realismo che porta come biglietto da visita il nuovo panorama economico che la fine delle sanzioni crea per tutti: giovani, vecchi, businessmen, lavoratori. Aprire nuovi orizzonti agli investimenti pubblici e privati di Paesi stranieri non significa tradire la Rivoluzione, su questo nuovi deputati e giurisperiti da eleggere si misurano col proprio popolo.

martedì 23 febbraio 2016

L’Egitto della tortura chiude il Nadeem Center

Nadeem Center deve chiudere. Questo dicono gli uomini del generale e per ora lo fanno con le buone: un avviso al destinatario. L’Ong creata, fra gli altri, da Aida Seif al-Dawla avrebbe violato le regole (sic). Quali regole non è dato sapere, c’è solo un vago riferimento a recenti normative emanate dal ministero della Sanità. Il Nadeem opera in Egitto dall’inizio degli anni Novanta fornendo sostegno medico e psicologico alle vittime di tortura. La tortura è pratica diffusa fra i vecchi e i nuovi raìs tutti provenienti dalle file delle Forze Armate, la lobby che fa di controllo, lusinga, sopraffazione dei cittadini un modello di vita quotidiana. Nei primi sette anni di attività (1993-2000) l’Ong ha trattato 1100 vittime di violenza fisica e psicologica praticate verso due terzi di popolazione maschile e un terzo femminile, ma c’erano anche casi che riguardavano bambini. Nadeem, che ha sede in una zona centrale del Cairo (non lontano da Tahrir), aderisce a una rete che s’occupa di questi problemi in vari paesi dell’area mediorientale e ha collegamenti con la Società internazionali per la salute e i diritti umani.
Con gli anni l’Organizzazione non governativa cairota ha rivolto le proprie attenzioni al problema della violenza sulle donne, questione che riguarda la mentalità maschilista tuttora assai diffusa, ovviamente non solo in Egitto. Già negli anni passati il Nadeem Center aveva dovuto fare i conti con la censura soft che lo Stato pone a simili iniziative, paralizzandole attraverso le strettoie dei controlli del ministero degli Affari Sociali. Quest’ultimo usa cavilli burocratici, richieste di autorizzazioni che giacciono inevase in uffici su cui agisce la lunga mano governo e polizia, spesso bipolarmente orientate a bloccare inchieste e denunce. Ma ora che le supposizioni di detenzioni non registrate ufficialmente, anticamera di scomparse definitive, diventano una certezza per il moltiplicarsi di casi che coinvolgono ogni oppositore al regime, ecco che presenze come il Nadeem Center diventano intollerabili. Alla stregua di quella del ricercatore-divulgatore Giulio Regeni, eliminato senza porsi molti problemi di gestione geopolitica.
Le cicatrici sul suo cadavere non differiscono da quelle denunciate dall’organismo che Sisi ora decide di cancellare. L’Ong raccoglieva notizie e svelava il volto di quest’Egitto che prima di assassinare, impone terrore e umiliazione. I documenti sulle torture a sfondo sessuale verso donne e uomini, fotografati e filmati, mirano a incrinare la solidità identitaria delle vittime, visto che si minaccia di divulgare le immagini fra parenti e conoscenti. Il presidente amico dell’Occidente vuole che non se ne parli. I governi occidentali glielo permettono. Eccezion fatta per un risveglio di alcuni media, per ora l’unica voce critica sull’omicidio Regeni e sulle sparizioni nelle carceri egiziane appartiene ad Amnesty International. Gli inquilini dei nostri palazzi  Chigi e Farnesina promettono chiarezza e giustizia, ma non obiettano nulla al vuoto totale offerto dal Cairo. Forse per quella coscienza nera e quella prossimità ai metodi spicci e alla tortura che vedevano l’Italia in prima fila nelle extraordinary rendition. Quelle per cui, oggi, la Corte di Strasburgo ci condanna. E che qualcuno Oltreoceano può sempre richiederci.

giovedì 18 febbraio 2016

Turchia, la guerra in casa


Ankara colpita come in guerra: esplode un’auto bomba e in ventotto, fra militari e civili, finiscono a pezzi e bruciati vivi. Una scia di fuoco che abbaglia la notte nel cuore teoricamente più controllato della città: vicino al quartier generale dell’esercito, dov’era in corso un vertice, e al Parlamento. Tutto ciò inquieta gli stessi fedelissimi d’un regime che da mesi non può più parlare di prosperità, intrappolato com’è in vari intricatissimi fronti. L’attacco si diversifica da quelli già vissuti sempre nella capitale turca e a Suruç per potenza e modalità. Quegli obiettivi erano diversi: pacifisti, oppositori, attivisti filo kurdi. Allora si parlò di Isis e di Servizi come possibili esecutori di offese portate in terra turca, rivolte comunque agli antagonisti del governo. Ieri la morte ha raggiunto l’apparato erdoğaniano della forza, finora bersagliato in patria solo dalla guerriglia kurda del Pkk. Il presidente, che definisce il conflitto da lui stesso scatenato entro i confini nazionali come lotta al terrorismo, pur se massacra le popolazioni civili del sud-est, ha ribadito che il sacrificio dei soldati non piegherà l’impegno delle Istituzioni contro chi attenta alla sicurezza.
Ma al di là delle dichiarazioni ufficiali e delle visite estere, bloccate per sé e il premier Davutoğlu, è innegabile che Erdoğan veda trasformarsi questioni bollenti in problemi militari su troppi terreni. E un conto è dar fondo al nazionalismo più becero per compattare l’elettorato alle urne, più complesso diventa convincerlo della giustezza dei troppi conflitti su ogni terreno inseguiti dalla sua smania di supremazia. La deflagrazione di ieri sembra già avere una matrice: secondo il governo l’ordigno-viaggiante lanciato sul convoglio militare era guidato da un kurdo-siriano, militante dell’Ypg. Questo avrebbero accertato le perizie, prelevando le impronte digitali d’un corpo comunque deflagrato e carbonizzato. Le impronte di riferimento erano state memorizzate al momento dell’ingresso del cittadino che risultava rifugiato. Versione di comodo? Può darsi. Altre ipotesi fanno pensare ai movimenti presenti sul fronte meridionale del confine siriano, dove combattono jihadisti di varia natura e lealisti di Asad con l’appoggio di Hezbollah, aviazione russa e i guerriglieri kurdi delle Ypg, recentemente vicini a questa componente.
La bomba potrebbe anche essere un avvertimento jihadista a un Paese doppiogiochista oppure una ferita che agenti, magari pasdaran o d’altra sponda, portano in casa del borioso giocatore di un’area in disfacimento.  Quando si parla di autobomba, al di là delle capacità tecniche per attivarla, non si ha mai l’evidenza immediata della matrice. Questa arriva dopo un po’, quando altre situazioni si dipanano. Certo il primo pensiero va al possibile dichiarato intervento di terra prospettato dalla Turchia sul fronte dell’accesissimo confine verso la cittadina di Azaz che può finire sotto il controllo delle truppe di Asad, lì impegnate assieme a reparti kurdi del Pyd. Quest’ultimi ricevono la visite dell’aviazione di Ankara con frequenza molto superiore, anzi quasi completa (dati di osservatori internazionali parlano dell’80% di bombardamenti turchi sulle zone controllate dai kurdi e solo il 20% rivolto ai territori sotto la giurisdizione del Daesh). Poi ci sono i missili riversati sui civili, ospedalizzati compresi, su cui tutti (russi, americani, lealisti siriani, turchi) si palleggiano la responsabilità. E questa è la guerra che nessuno vuol vedere. Però esiste. 

mercoledì 17 febbraio 2016

Regeni: ucciso come noi

Era come noi” dicono. Perciò l’hanno ucciso. Questo non l’affermano esplicitamente ma si comprende dall’aria prudente, seppure non rassegnata, di certi giovani colleghi egiziani, in questi giorni sotto i riflettori di grandi media che si sono come svegliati e citano due anni e mezzo di repressione dura e feroce. Avviata, in grande stile, con mille (la Brotherhood sostiene duemila) morti davanti alla moschea cairota di Rabaa al-Adawiyya. Ammazzati uno per uno a colpi di pistola e moschetto oppure falciati a gruppi dai mitra delle autoblindo, intervenute in forze a sgombrare il sit-in di protesta contro il golpe delle Forze Armate che avevano usato un enorme corteo anti presidenziale per deporre Morsi. Quest’Egitto spaccato e narrato solo da giornalisti stranieri - presenti con reportages o corrispondenze diventati sempre più difficili per divieti e vere persecuzioni personali - e da pochi cronisti e blogger locali, è stato a lungo celato dall’informazione mainstream compiacente col disegno securitario di Al Sisi. Il generale golpista è diventato per ciascun premier occidentale un alleato su cui contare per il controllo di quel Paese e l’affarismo di terra e di mare. Si pensi al rilancio del turismo nei resort del Red Sea e allo sfruttamento dei fondali mediterranei col giacimento Zohr.
Ma l’Egitto della speculazione economica, degli accaparramenti operati dai raìs e dai clan protetti, militari e non, della povertà ancora diffusa fra milioni di persone, della sopraffazione violenta di esercito e polizia, ha continuato imperterrito a esistere. Eguale a quello che si prestava alle operazioni di Rendition della Cia e vedeva uomini in uniforme prendere un giovane in un ahwa di Alessandria, accusarlo d’avere in tasca dell’hashish, portarlo fuori dal locale e iniziarlo a picchiare a sangue, davanti a passanti terrorizzati che non intervenivano per non subìre lo stesso spolvero. Quel giovane di nome Khaled Said, fu sfigurato a suon di botte e ammazzato. La rivolta di Tahrir si ribellava a quest’Egitto di violenza, terrore, omertà; cacciava Mubarak ma non sradicava i mubarakiani che hanno continuato a difendere se stessi e un simile sistema. Il ‘Centro di riabilitazione di vittime della violenza’ offre i dati raccolti nel corso del 2015, che segnalano 14 decessi di cittadini durante la detenzione in stazioni di polizia e oltre 600 casi di tortura. Si tratta solo di dati conosciuti. Il Centro non ha avuto la possibilità di monitorare situazioni di persone scomparse per settimane e, in alcuni casi anni, di cui parenti e amici non sanno più nulla e che il ministero dell’Interno ipotizza “possano aver lasciato il Paese” (sic).
Questa normalità di pestaggi e ferocia omicida è considerata legittima dagli aguzzini in divisa che “proteggono” da ingerenze esterne la nazione e i suoi cittadini. Per idee e voci non subordinate a questo clima invece non c’è spazio. Lo studioso Regeni che raccoglieva certosinamente note su istanze e bisogni dei lavoratori, frequentava assemblee sindacali o luoghi d’incontro, compilava report per l’Università di Cambridge, era tenuto in osservazione come persona non gradita. Il trattamento ricevuto col sequestro, l’interrogatorio, il pestaggio, le sevizie, l’uccisione è pratica abituale dei corpi di polizia ordinaria e di agenti dei Servizi del Cairo. Prima di lui altri hanno provato quei trattamenti, finendo anticipatamente i loro giorni o continuando la reclusione nelle Tora di Stato. Nelle indagini sull’omicidio, che i padroni del Cairo insabbiano sin dal primo giorno, c’è chi avanza ipotesi d’ogni tipo. Quella che Giulio fosse un esperto reclutato da Intelligence straniere, britannica nella fattispecie, era già rimbalzata. I familiari la rigettano, volendo preservare lo spirito del congiunto. Amici e colleghi ne evidenziano l’impegno di studioso socio-politico, non certo d’informatore. Che università, a maggior ragione se prestigiose, in settori di ricerca come quello di Regeni siano nel mirino di agenzie, ufficiali o ufficiose, utilizzate a loro volta dai Servizi segreti non è una novità.

Ma i distinguo sono d’obbligo: sta alla deontologia accademica usare le documentazioni acquisite solo per ragioni di studio, non per quelle di Stato. Gli scopi sono differenti, seppure certe strade possono apparire simili. Eppure crediamo che un ruolo d’ipotetico informatore, solo ipotetico, avrebbe garantito Giulio molto più che quello di studioso prossimo all’attivismo. Sul cadavere ritrovato di Regeni il giornalismo delle corazzate della comunicazione sostiene la tesi del complotto anti Sisi, operato da altri apparati (gente invidiosa, oppositori, nemici, sabotatori dei successi diplomatici del presidente?). Ipotesi aperte, sebbene incardinate sulla questione d’una lotta di potere interna che non minimizza affatto l’autoritarismo del regime, prendendone in prestito gli stessi metodi assassini. Se così fosse il generale, grazie al controllo assoluto e agli uomini di fiducia piazzati ovunque, sarebbe impegnato a svelare i misteri e smascherare l’omertà di ministri come al-Ghaffar (Interni) e al-Zind (Giustizia). Invece nulla, i due sono reticenti e al-Sisi è con loro e sopra di loro. Più che sventolare ipotetiche occulte dietrologie che, se esistessero, interessano solo il presidente-golpista, è indispensabile raccontare la cruda realtà egiziana. Per la memoria di Regeni, di coloro finiti come lui e di chi tuttora rischia la vita. 

martedì 16 febbraio 2016

Siria, la guerra agli ospedali

Nella guerra mondiale miniaturizzata in corso in Medio Oriente l’obiettivo continuano a essere i civili. Più se ne ammazzano meno problemi di gestione etnica, confessionale, amministrativa ci saranno in quella terra spettrale un tempo chiamata Siria, sbriciolata, un giorno via l’altro, col contributo di ciascun contendente. Si colpisce qualsiasi cosa attorno, ospedali compresi. Accuse incrociate: sono stati i russi, gli americani, i lealisti di Asad, i turchi filo ribelli sunniti. Poco importa. Il fronte risulta compatto su un contraddittorio obiettivo: azzerare per conservare. C’è chi vuol resistere per continuare ad esistere (Asad); chi (i ribelli moderati o fondamentalisti) spera di congelare l’enclave creata fino a invecchiare sul proprio mortaio. E poi le unità kurde (Ypg) intente a difendere e ampliare il Rojava, l’esercito turco ad attaccarle, i reparti Hezbollah a estendere il controllo nelle aree sul confine libanese dove vivono, i pasdaran iraniani a sostenerli, i miliziani jihadisti a contrastarli grazie ai petrodollari sauditi e qatarini. In questo caos sono fioriti i bombardamenti sulle strutture di Medécins sans frontières.  Ancora loro, ancora nel mirino dopo Afghanistan e Yemen, perché gli uomini che ridanno la vita non sono sopportati dai signori della guerra e morte.
Una morte generalizzata, senza scampo per chi è più fragile e ferito e giace in ospedale, per chi è debole poiché bambino oppure adulto a digiuno da settimane. Ecco gli obiettivi più esposti, seppure target diventano tutti su un fronte che spara nel mucchio, senza distinguere combattente o civile. Il nemico è chi ancora respira, fra i cumuli di macerie, al di là d’una collinetta, di un dirupo o d’un deserto che divide postazioni. Mentre colui che vola e domina può decidere a chi fare la pelle all’istante. Gli esperti bellici affermano come i caccia di Putin, accorsi in aiuto di Asad, utilizzino ancora bombe ‘stupide’. Le chiamano così, per distinguerle da quelle, egualmente assassine, ma intelligentissime atte a uccidere in maniera razionale. Sempre gli esperti chiosano che i ‘missili col cervello’ sanno dove colpire, dunque evitano di abbattere gente comune. Distinguo efficace, però approssimativo visto che i campioni delle giustificazioni a posteriori parlano spesso di “danni collaterali”. In Afghanistan, dove il tiro al bersaglio dai cieli è pratica statunitense, i dati del 2015 evidenziano un aumento dei “danni collaterali” complessivi, un po’ di morti in meno rispetto all’anno precedente (3.545) con una crescita di feriti (7.457).
Nel cimitero siriano il lugubre bollettino dei decessi violenti resta approssimativo, è la guerra stessa a impedirlo. 250.000 o 470.000 vittime, le cifre in circolazione, non cambiano l’essenza, seppure la seconda raddoppia un’ecatombe che non vede tregua né conclusione. Quando un conflitto è in corso l’industria bellica prospera più che in tempo di presunta pace. Le armi sono al lavoro, esplodono e si logorano, vanno sostituite e acquistate, perciò il business scivola meglio rispetto alle semplici manutenzioni da parata. Un conflitto è una manna per i signori delle bombe – produttori e consumatori – non bisogna archiviarlo in fretta. Anzi. Occorre usarlo, conservarlo, centellinarlo per farlo fruttare in termini di potere e d’immagine. Così da mostrare quanto si è capaci ad attaccare e a resistere, come quei pugili massacrati ma refrattari all’atterramento, che restano in piedi sul ring per incassare una borsa più corposa. Nel match siriano i contendenti non mettono in gioco la propria incolumità, ma quella d’un popolo, spettatore passivo, atterrito e sotterrato da scie sanguinolente. Gente impossibilitata a fuggire e destinata a crepare. Chi decide di tenerla in ostaggio, fra i calcoli della geopolitica del cinismo e l’ipocrisia delle diplomazie umanitarie a senso unico, ha la stessa responsabilità delle infamie dei signori della morte.     

domenica 14 febbraio 2016

Regeni: tortura e omicidio come ragione di Stato

La morte violenta, violentissima, di Giulio Regeni è già derubricata da omicidio di Stato. E non tanto perché l’impresentabile, ma presentissimo sui media nostrani, Luttwak sparge la sua spazzatura velenosa: “Magari l’ha ucciso un’amante. Se uno fa cose pericolose, si assuma i suoi rischi”. Ma perché ciò che iniziano a sostenere e divulgare gli esegeti del politicamente corretto d’ogni governo, ovviamente anche dell’attuale, già istillano fra passi di iperrealismo il perdonismo per la ragione di Stato e per la guerra al terrore. Cosa centri Regeni con tutto ciò sarebbe facilissimo da provare, se non fosse che per terrore la banda Al Sisi inserisce non solo, e probabilmente non tanto, la presenza dell’Isis in casa, che comunque c’è, ma soprattutto chi continua a ostacolare il suo gioco di raìs assolutista, con ogni mezzo lecito e illecito. Come avevamo sospettato per quel l’Egitto mostra da anni, Regeni è stato prelevato in strada da un paio di mukhabarat e condotto in uno dei mille luoghi di detenzione, ufficiali e ufficiosi. Dove gli interrogatori sono conditi da torture. Se per convalidare questa versione - sospettata dopo il ritrovamento del cadavere del ricercatore da amici, colleghi, attivisti locali con cui lui era in contatto nel soggiorno cairota - la lobby di Stato si serve di tre agenti rivelatori al prestigioso New York Times, il fine risulta quello d’uscire allo scoperto, poiché non reggono più le balle sull’incidente stradale o il crimine di piccola malavita.
Quindi s’accetta la versione della responsabilità delle forze dell’ordine, avanzata quasi compattamente anche dalla stampa mainstream finora semicieca verso la repressione dell’alleato Sisi, e si fa avanzare l’eterna e utilitaristica ipotesi di Servizi deviati o in lotta fra loro. Contro la volontà dell’ignaro presidente che sarebbe in balìa di forze che gli remano contro e cercano di ostacolarne il percorso stabilizzatore in un Paese sotto l’attacco terroristico. Che bella favola!!! Certo che in Egitto è entrato in scena, da almeno due anni, un jihadismo autoctono (Ansar al Maqdis) prima qaedista e ora dialogante col Daesh. Come può starci che, dalle settimane seguenti alle strage militare della moschea di Rabaa, una componente radicale della Fratellanza abbia scelto percorsi di lotta armata, vedendosi chiusa la strada legale e pubblica. Ma questo non può nascondere il terrore diffuso dalla lobby militare che controlla lo Stato, incrementato col golpe di luglio 2013 e la scalata nelle Istituzioni. Il ministro dell’Interno Abdel Ghaffar, generale anch’egli, continua a sviare sui temi di tortura e repressione anche di fronte alle campagne di Ong di peso come Human Rights Watch e Amnesty International. E ne ostacola sempre più le indagini. E che dire del ministro di Giustizia al-Zind che dichiara in tivù di voler applicare contro gli oppositori vendette e rappresaglie peggiori di quelle naziste o dei generali argentini? Il caso Regeni potrebbe porre l’Italia, nazione seviziata nel corpo del suo cittadino ricercatore, in testa a una campagna internazionale per curare il tumore egiziano che da due anni sta facendo precipitare la nazione nel buco nero d’una dittatura sanguinaria.

Invece il salvagente è già pronto. Fornito da cavalli di Troia del sisismo, che poi è quel sistema di feloul, che rievocano il regime amico dei raìs trascorsi (Sadat, Mubarak) utili alle manovre imperialiste in Medio Oriente. Dopo aver falisticamente ipotizzato che le autorità italiane non sapranno mai cosa sia realmente accaduto a Regeni, Sergio Romano sul Corriere della sera scrive che un passo di sdegno del nostro Esecutivo comportante l’interruzione dei rapporti diplomatici ci priverebbe “dei nostri abituali contatti con uno dei maggiori protagonisti della regione. Saremmo meno informati su ciò che accade in Medio Oriente e perderemmo il capitale (lapsus forse economico, ndr) di amicizia che l’Italia ha costruito con quel Paese nel corso degli anni”. E ancora “siamo in una situazione difficile e imbarazzante… non possiamo dimenticare che l’Egitto sta combattendo contro un mostro responsabile, tra l’altro della distruzione di un aereo russo pieno di turisti, e dei massacri di Parigi… Piaccia o no, l’Egitto, in questo momento, è un alleato, non un nemico”. Quindi concede “… abbiamo il diritto di dire al Cairo che non si vince una guerra senza il sostegno della pubblica opinione”. Ma è una boutade inopportuna che ostacolerebbe la real politik. L’ex ambasciatore da tempo opinionista mainstream, è l’altra faccia del Giano bifronte del cinismo occidentale che ha in Luttwak il volto sfrontato del negazionismo imperialista. La buona e la cattiva coscienza mediatiche son qui a convincerci che Sisi è il minore dei mali possibili e i Regeni non hanno ragione d’esistere.