“Era come noi” dicono. Perciò l’hanno ucciso.
Questo non l’affermano esplicitamente ma si comprende dall’aria prudente,
seppure non rassegnata, di certi giovani colleghi egiziani, in questi giorni
sotto i riflettori di grandi media che si sono come svegliati e citano due anni
e mezzo di repressione dura e feroce. Avviata, in grande stile, con mille (la Brotherhood sostiene duemila) morti
davanti alla moschea cairota di Rabaa al-Adawiyya. Ammazzati uno per uno a
colpi di pistola e moschetto oppure falciati a gruppi dai mitra delle
autoblindo, intervenute in forze a sgombrare il sit-in di protesta contro il golpe
delle Forze Armate che avevano usato un enorme corteo anti presidenziale per
deporre Morsi. Quest’Egitto spaccato e narrato solo da giornalisti stranieri -
presenti con reportages o corrispondenze diventati sempre più difficili per
divieti e vere persecuzioni personali - e da pochi cronisti e blogger locali, è
stato a lungo celato dall’informazione mainstream compiacente col disegno
securitario di Al Sisi. Il generale golpista è diventato per ciascun premier
occidentale un alleato su cui contare per il controllo di quel Paese e l’affarismo
di terra e di mare. Si pensi al rilancio del turismo nei resort del Red Sea e
allo sfruttamento dei fondali mediterranei col giacimento Zohr.
Ma
l’Egitto della speculazione economica, degli accaparramenti operati dai raìs e dai
clan protetti, militari e non, della povertà ancora diffusa fra milioni di
persone, della sopraffazione violenta di esercito e polizia, ha continuato
imperterrito a esistere. Eguale a quello che si prestava alle operazioni di
Rendition della Cia e vedeva uomini in uniforme prendere un giovane in un ahwa di Alessandria, accusarlo d’avere
in tasca dell’hashish, portarlo fuori dal locale e iniziarlo a picchiare a
sangue, davanti a passanti terrorizzati che non intervenivano per non subìre lo
stesso spolvero. Quel giovane di nome Khaled Said, fu sfigurato a suon di botte
e ammazzato. La rivolta di Tahrir si ribellava a quest’Egitto di violenza,
terrore, omertà; cacciava Mubarak ma non sradicava i mubarakiani che hanno
continuato a difendere se stessi e un simile sistema. Il ‘Centro di
riabilitazione di vittime della violenza’ offre i dati raccolti nel corso del
2015, che segnalano 14 decessi di cittadini durante la detenzione in stazioni
di polizia e oltre 600 casi di tortura. Si tratta solo di dati conosciuti. Il
Centro non ha avuto la possibilità di monitorare situazioni di persone
scomparse per settimane e, in alcuni casi anni, di cui parenti e amici non
sanno più nulla e che il ministero dell’Interno ipotizza “possano aver lasciato il Paese” (sic).
Questa normalità
di pestaggi e ferocia omicida è considerata legittima dagli aguzzini in
divisa che “proteggono” da ingerenze esterne la nazione e i suoi cittadini. Per
idee e voci non subordinate a questo clima invece non c’è spazio. Lo studioso
Regeni che raccoglieva certosinamente note su istanze e bisogni dei lavoratori,
frequentava assemblee sindacali o luoghi d’incontro, compilava report per
l’Università di Cambridge, era tenuto in osservazione come persona non gradita.
Il trattamento ricevuto col sequestro, l’interrogatorio, il pestaggio, le
sevizie, l’uccisione è pratica abituale dei corpi di polizia ordinaria e di
agenti dei Servizi del Cairo. Prima di lui altri hanno provato quei
trattamenti, finendo anticipatamente i loro giorni o continuando la reclusione
nelle Tora di Stato. Nelle indagini
sull’omicidio, che i padroni del Cairo insabbiano sin dal primo giorno, c’è chi
avanza ipotesi d’ogni tipo. Quella che Giulio fosse un esperto reclutato da
Intelligence straniere, britannica nella fattispecie, era già rimbalzata. I familiari
la rigettano, volendo preservare lo spirito del congiunto. Amici e colleghi ne evidenziano
l’impegno di studioso socio-politico, non certo d’informatore. Che università,
a maggior ragione se prestigiose, in settori di ricerca come quello di Regeni siano
nel mirino di agenzie, ufficiali o ufficiose, utilizzate a loro volta dai
Servizi segreti non è una novità.
Ma i distinguo
sono d’obbligo:
sta alla deontologia accademica usare le documentazioni acquisite solo per
ragioni di studio, non per quelle di Stato. Gli scopi sono differenti, seppure
certe strade possono apparire simili. Eppure crediamo che un ruolo d’ipotetico
informatore, solo ipotetico, avrebbe garantito Giulio molto più che quello di
studioso prossimo all’attivismo. Sul cadavere ritrovato di Regeni il
giornalismo delle corazzate della comunicazione sostiene la tesi del complotto
anti Sisi, operato da altri apparati (gente invidiosa, oppositori, nemici, sabotatori
dei successi diplomatici del presidente?). Ipotesi aperte, sebbene incardinate sulla
questione d’una lotta di potere interna che non minimizza affatto l’autoritarismo
del regime, prendendone in prestito gli stessi metodi assassini. Se così fosse
il generale, grazie al controllo assoluto e agli uomini di fiducia piazzati
ovunque, sarebbe impegnato a svelare i misteri e smascherare l’omertà di
ministri come al-Ghaffar (Interni) e al-Zind (Giustizia). Invece nulla, i due
sono reticenti e al-Sisi è con loro e sopra di loro. Più che sventolare
ipotetiche occulte dietrologie che, se esistessero, interessano solo il
presidente-golpista, è indispensabile raccontare la cruda realtà egiziana. Per
la memoria di Regeni, di coloro finiti come lui e di chi tuttora rischia la
vita.
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