Gigante al voto - L’Iran,
uno dei giganti mediorientali coi suoi 81 milioni di abitanti, va all’urna. Gli
elettori sono 50 milioni, il 60% ha al massimo trent’anni, le donne sfiorano il
49% dell’elettorato sebbene abbiano solo il 9.4% di rappresentanza
parlamentare. Domani si vota per rinnovare il Majlis, 290 seggi per oltre
seimila candidati, e l’Assemblea degli Esperti che incarica 88 membri, sui 161
ammessi al confronto, quasi tutti chierici. Quest’ultimo organismo riveste una
particolare importanza nella società iraniana perché elegge la Guida Suprema,
che in base al velayat-e faqih,
vigila sulla consonanza delle leggi emanate dal Parlamento con la dottrina
islamica. L’attuale Giuda Khamenei, che prese il posto del padre della
Repubblica Islamica Khomeini, ha 76 anni ed è stato operato per un tumore,
necessita dunque d’un erede. La partita politica la giocano sempre il fronte riformista
e quello conservatore, ciascuno con tendenze più moderate e più estreme. I temi
su cui si misurno sono svariati, interni e internazionali, abbracciano
questioni economiche, geostrategiche, religiose, culturali e non da meno
ambientali.
Dualismi - Dietro
il dualismo secolarismo-teocrazia si dipana un confronto-scontro fra gruppi di
potere e le stesse tendenze del clero sciita che vedono vecchi e nuovi
ayatollah schierati quasi agli antipodi. Seppure componenti che ora fanno corpo
unico col clero ultraconservatore, come i ‘Guardiani della Rivoluzione’,
all’epoca del presidente laico Ahmadinejad cercarono di ampliare il proprio peso
economico e politico a danno delle bonyad
controllate dal clero. In quel contrasto Khamenei fu tranciante col basij
portato tanto in alto dall’eminenza nera ayatollah Yazdi. Il presidente fu
posto sotto tutela della Guida Suprema che limitò anche le pretese dei
pasdaran, aiutato in quel caso da tutto il clero, riformista e reazionario. I
contrasti fra le parti proseguirono nel 2009, con la riconferma contestata per
brogli di Ahmadinejad, e ripropongono l’altra grande lotta, in questo caso
interna al clero, fra riformisti e tradizionalisti. A disputarsi spazi ed
egemonie nomi tutti noti da almeno un ventennio. Accanto ai Khatami e Yazdi, ai
Mousavi e Jannati, c’è la real politik dei Rouhani e Larijani che ha un grosso
peso specifico grazie ai risultati raggiunti con l’accordo sul nucleare e nei
rapporti internazionali.
Fatti - E i fatti, per
ogni elettore medio, parlano e contano. Ma la tattica che l’ala riformatrice
adotta con lo slogan “agiamo nel sistema”
e l’acronimo numerico del “30+16” (i
candidati da far eleggere nelle due assemblee), aggira quello scontro diventato
sanguinoso, fatale e improduttivo con l’’Onda verde’ del 2009. Lo dimostra
l’elezione alla presidenza di Rohani, che non è certo un Mousavi e neppure un
pensatore aperto come l’ex presidente Khatami, però da politico e ancor più da
diplomatico, ha compreso come non si potesse chiudere in faccia ogni porta alla
molta gioventù che cerca aria nuova. Su di lui i sostenitori dei riformisti
alla Reza Aref e Motahari avevano fatto convergere i voti nel 2013, e adesso
quell’area politica, dietro la quale c’è sempre la mente di Khatami, cerca di
sfruttare tutte le occasioni per rafforzarsi nella società, senza lasciare
spazio alla borghesia filoccidentale che pure agisce nel Paese. Contro tale
spettro lanciano le proprie invettive gli islamici della tradizione, non solo
degli ayatollah più reazionari - l’ottantanovenne ma sempre combattivo Jannati
e l’ottantaduenne Yazdi - ma le stesse
forze organizzate che contano, sia i pasdaran, sia i basij.
Il partito della sicurezza - I primi sono tuttora impegnati come “consiglieri” sul
fronte siriano, gli altri si passano di padre in figlio quel filo rosso con la
Rivoluzione islamica, insanguinato sul fronte iracheno, che nella regione travagliata dai conflitti
può tornare. Costoro parlano delle ‘infiltrazioni’ con cui i nemici dell’Iran
possono colpire l’unità nazionale. Fra esse quella del fondamentalismo del
Daesh è temuta, odiata e sicuramente respinta dalle ferree capacità militari. Altra
cosa è considerare nemici e infiltrati dell’Occidente, coloro che cercano nuove
vie politiche per il Paese. Ad agitare propositive ‘liste della speranza’ ci
sono i costruttori dell’attuale Iran, Rohani e Larijani, ma pure la vecchia
volpe Rafsanjani che si considera il traghettatore di quelle aperture lanciate
da Khatami. Tutti affermano che non apriranno agli estremisti, mentre i
“riformisti estremi”, per non restare fuori dai giochi, creano ponti col
realismo che porta come biglietto da visita il nuovo panorama economico che la
fine delle sanzioni crea per tutti: giovani, vecchi, businessmen, lavoratori.
Aprire nuovi orizzonti agli investimenti pubblici e privati di Paesi stranieri
non significa tradire la Rivoluzione, su questo nuovi deputati e giurisperiti
da eleggere si misurano col proprio popolo.
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