mercoledì 29 dicembre 2021

India, lavacri e comunalismo per celare la crisi

Haridwar, città indiana dell’Uttarkhand neanche tanto popolosa, 230.000 abitanti, è un luogo di grande spiritualità hindu con templi e un fervore religioso nei ghat, le scalinate in discesa verso l’acqua, illuminate di candele e pieni delle voci gioiose d’intere famiglie riunite in preghiera. Le gigantesche statue dedicate a Shiva, di cui la città è costellata, decorano la tappa finale del pellegrinaggio Kumbh Mela che conduce annualmente per il bagno rituale milioni di fedeli hindu sulle rive del Gange. Fin qui l’hinduismo dei riti e delle preghiere che è sempre più pervaso, insidiato, strumentalizzato da chi della fede vuol fare l’arma del proprio estremismo politico. Proprio a Haridwar, dal 17 al 19 dicembre scorso, s’è svolto un incontro chiamato Dharma Sansad, considerato un Parlamento religioso. Dharma in hindi denota l’ordine morale, in senso lato la virtù, eppure i dialoghi inanellati da taluni personaggi lì riuniti e accomunati da un’oratoria faziosa, risultano nient’affatto virtuosi. Sacerdoti hindu insigniti del ruolo di maestro hanno proposto, come usano fare da anni, concetti violenti che avvantaggiano l’ala oltranzista del partito di governo, quella che fa della dottrina dell’hindutva un modello di razzismo e sopraffazione. Al meeting partecipavano esponenti del Bharatiya Janata Party pronti a chiamare ‘bastardi’ i musulmani ed esaltare la memoria di Nathuram Godse, l’assassino del Mahatma Gandhi. Insomma un ambientino che definire fanatico è fargli un complimento. 

 

Ovviamente il premier Modi non si cura di questi particolari, visto che la svolta ipernazionalista assunta dal partito gli consegna un potere crescente e indiscusso. I suoi capibastone in tunica arancione si chiamano: Yati Narsinghan, ordinato di recente capo sacerdote del tempio di Dasna Devi a Ghaziabad nell'Uttar Pradesh. Probodhananda Giri, assertore d’una minaccia per l’hindutva che s’aggira anche nei templi della propria religione. Difenderne i princìpi fascistoidi è indispensabile, e per farlo ordina alle coppie di fedeli di procreare almeno otto figli, così da sopraffare demograficamente musulmani e cristiani. Mentre Yogi Adityanath, da quando è premier dell’Uttar Pradesh ha moderato i toni e propende per semplici ‘sputi in faccia agli islamici’. Commentatori politici hanno messo in relazione la teorizzazione della denigrazione delle minoranze religiose ripetutasi a Haridwar con le violenze rivolte ultimamente ai cristiani (assalti a luoghi di culto e pestaggi a sacerdoti) sebbene l’anno rosso sangue sia stato il 2020 con decine di vittime islamiche, colpite anche nei luoghi di lavoro e nelle proprie abitazioni con incendi e devastazioni. Chi studia il retroterra dell’ideologia hindutva e alcuni dei suoi gruppi armati (Rashtriya Swayamsevak Sangh, Viswa Hindu Parishad, Hindu Jagram Manch) sostiene come il piano per polarizzare la società indiana abbia intrapreso una strada senza ritorno. Fra l’altro con l’impotenza dei maggiori partiti del Paese: Partito del Congresso e Bahujan Samai Party di tendenze socialdemocratica e socialista, che dovrebbero puntare il dito sulla quantità d’inadempienze governative riguardo a prevenzione dalla pandemia, salute e disoccupazione. 

 

Ma le tematiche religiose soppiantano i buchi neri sociali, si discute su templi da costruire, proselitismo anti hindu, pericoli jihadisti, mentre anche l’unica lotta che ha piegato il governo, quella dei contadini, deve comunque fare i conti con quello che tante categorie di lavoratori, in maggioranza hindu, hanno sotto gli occhi. Inflazione al 15%, che colpisce ancor più i poveri, rincaro dei carburanti fra il 40 e il 50%. Questo nonostante una ripresa che dall’estate a novembre ha portato i valori del Pil a crescere fino all’8.4%. Eppure si tratta d’una ripresa fittizia, che può fermarsi, anzi in certi settori produttivi la disoccupazione aumenta (+9%) e i consumi generali decrescono del 7.7%. Gli economisti evidenziano come il colpo maggiore l’abbiano subìto micro e medie imprese dove, peraltro, lavorano (è più corretto dire lavoravano) 110 milioni di persone. Un settore che finora ha costituito un terzo del Pil nazionale, copre oltre il 90% della merce d’esportazione e dà da mangiare a mezzo miliardo d’indiani. Non sostenerne la crisi può produrre non solo un grave colpo all’orgogliosa avanzata economica della nazione, ma squilibri sociali di portata epocale. Per ora, oltre Delhi oltre a registrare un mercato competitivo rimpicciolito, consta d’uno spostamento di gente che ha perso il lavoro urbano nelle campagne. Ma anche lì la prospettiva non è rosea. Studiosi locali dell’Istituto economico dello sviluppo sostengono che il Paese avrebbe bisogno di riforme e piani per una competizione globale, maggior impulso tecnico e digitalizzazione. Ma in realtà manca un ceto dirigente preparato e adeguato. Modi ha cooptato militanti politici e religiosi piazzandoli in ruoli amministrativi di cui non sanno nulla. Loro se la prendono con le minoranze religiose e additando capri espiatori,  pensando così di svoltare la notte della pandemia e della nullità di programmazione.

martedì 28 dicembre 2021

India, odio di Natale

Un silenzio incendiario, più delle fiamme che di recente ad Agra hanno avvolto un Babbo Natale di stoffa, bruciato da militanti hindu. Il silenzio rovente è opera del premier Narendra Modi che normalmente di focoso ha l’eloquio con cui commenta e giustifica le violenze dei suoi seguaci. Quando queste colpiscono gli “animali a due zampe”, che per gli attivisti del Bharatiya Janata Party sono i cittadini musulmani, Modi plaude e arringa ancor più gli attivisti. Ultimamente bersaglio dei suoi picchiatori è stato un Cristo di Nazareth distrutto nel distretto di Haryana. Nessuno spargimento di sangue, ma nell’Uttar Pradesh dove la furia arancione è sempre viva, capannelli di fanatici hindu intonavano cori contro il Natale, i cristiani, le loro chiese, le conversioni. Idem a Delhi, Bihar, Karnataka, Kerala. Il clima rovente non ha interessato il governo e il leader ha scelto il silenzio, come se nulla stesse accadendo. Del resto per tutto il 2020 diversi Stati della Federazione indiana hanno conosciuto un crescendo di aggressioni, in quel caso anti islamiche. Venne anche coniato il termine Coronajihad con cui s’addossava ai musulmani la responsabilità di diffusione del Sars CoV2. In effetti nel marzo di quell’anno la confraternita Tablighi Jamaat riunì duemila adepti in un’area di Delhi, senza che l’esecutivo vietasse un raduno responsabile d’un primo slancio ai contagi. Egualmente un anno dopo, quando gli effetti della pandemia erano ben più gravi e il Paese aveva conosciuto un’emergenza diffusa con strutture ospedaliere al collasso e decine di migliaia di pire che bruciavano i cadaveri delle vittime, Modi non vietò il mega raduno hindu sulle rive del Gange per la festa del Kumbh Mela

 

Un’irresponsabilità reiterata e accresciuta dai grandi numeri, visto che quella ricorrenza si prolunga per tre mesi e vede la partecipazione di milioni di fedeli. Ma sul fronte religioso l’India di Modi concede e limita, secondo le appartenenze. Così le Missionarie di Madre Teresa di Calcutta si son viste negare contributi finanziari e i seguaci della chiesa cattolica temono di finire aggrediti e fatti a pezzi come la statua del Gesù. Quest’ultimi avevano osservato sgomenti, ma inerti l’onda d’odio che colpiva i cittadini islamici. Molti media di Stato, mentre davano voce ai capibastone dell’Hindutva pronti a proclamare in diretta come sia giusto “uccidere i traditori, gli eredi di Ali Jannah”, hanno tralasciato di evidenziare le ultime intolleranze religiose. Di fatto l’incontro fra il leader Bjp e papa Francesco è servito alla promozione personale che il Primo Ministro indiano fa di se stesso. Pacato, a mani giunte, quasi beato nelle assise internazionali, feroce in casa e favorevole al peggiore fondamentalismo degli squadristi del Rashtriya Swayamsevak Sangh (il gruppo paramilitare alleato) o di fanatici come il monaco Yogi Adityanath  primo ministro dell’Uttar Pradesh un tempo critico con la ‘moderazione’ del partito di maggioranza. Dal 2017 i rapporti fra Adityanath e Modi si sono rinsaldati anche per l’immenso potere assunto dal monaco-politico nel proprio Stato. Lui controlla direttamente la quasi totalità dei ministeri e copiosi affari. Tre anni addietro, con un accordo fra India e Corea del Sud, nella regione è stata creata la maggiore fabbrica di produzione di smartphone del mondo. Politologi indicano Adityanath quale futuro premier indiano nelle elezioni del 2024. Col monaco hindu al vertice cristiani e musulmani potranno solo tremare.

mercoledì 22 dicembre 2021

L’Afghanistan affamato manifesta

Fateci mangiare”.Dateci i nostri soldi congelati” dicono i cartelli dei cittadini di Kabul, quelli che non vogliono né possono fuggire. Desiderosi di vivere nella propria terra, da cinquant’anni stuprata da soggetti politici - interni e internazionali - che hanno inanellato disastri, lasciandosi alle spalle scie di sangue e un vuoto di futuro. Gli ultimi sono gli occidentali, di cui anche la nazione italiana ha fatto parte, dileguatisi nell’agosto scorso, passando il testimone agli ex nemici talebani diventati statisti. Del resto il simulacro di nazione supportato per vent’anni da statunitensi ed europei aveva posto nella cabina di comando mafiosi e corrotti come Hamid Karzai, fantocci come Ashraf Ghani, criminali come Dostum e Hekmatyar, può quindi ospitare Baradar e Haqqani. Con cui Washington per due anni interi (2019-2021) ha amoreggiato nel perfido nido delle trattative di Doha, ottenendo la promessa talebana di non ospitare più terroristi qaedisti, mentre i jihadisti del Khorasan sono l’avversario tuttora all’opera per contendere agli uomini di Akhundzada, leadership e controllo del territorio. In cambio l’US Forces e la Nato ricevevano la possibilità di andar via senza lasciare propri cadaveri a terra. Questo è l’unico accordo che ha tenuto, le due parti si sono riconosciute e rispettate. I morti delle settimane e dei giorni che hanno preceduto la ritirata appartenevano al disgregando esercito afghano e alla gente comune, quest’ultima sempre bersaglio di tutti. Dallo scorso settembre costoro, che restano nel mirino dei talebani dissidenti riuniti sotto la sigla dell’Isis-K, sono oggetto della velenosa coda del ritiro occidentale. Per volere dell’amministrazione Biden fondi appartenenti al governo di Kabul, circa 10 miliardi di dollari, restano congelati nelle banche americane. La presidenza di Washington ha fermato il denaro perché non considera l’attuale dirigenza afghana - gli ex nemici talebani, diventati amici per la propria fuoriuscita dal Paese - soggetti affidabili per democrazia e diritti civili. 

 

L’azione preventiva, diventata estorsiva, non colpisce i miliziani islamici che hanno propri canali di sostentamento, si ritorce contro la popolazione, sicuramente nei centri urbani, ma pure nelle campagne colpite da un biennio di feroce siccità. L’agenzia delle Nazioni Unite che s’occupa di alimentazione globale ha lanciato da due mesi un messaggio disperato: 23 milioni di afghani risultano al di sotto di una minima alimentazione, rischiano la fame. Oltre tre milioni di neonati e bambini sono in pericolo di vita. Come non definire cinica l’azione della Casa Bianca, che fino allo scorso agosto dava ai taliban una patente di affidabilità, per poi togliergliela a esclusivo danno della popolazione locale? Lo scempio prosegue, con la solita codardia politica dell’Unione Europea, sempre succube ai voleri dell’alleato d’Oltreoceano. L’oggettivo impoverimento anche di professionisti lasciati senza stipendio (medici, insegnanti) ha assunto risvolti drammatici nell’impossibilità di reperire viveri e prodotti di primo consumo. Un disastro umanitario innescato dalla geopolitica, che dice di voler limitare il futuro dell’Emirato mentre fa morire di fame un intero popolo. Oltre cinquanta nazioni musulmane si stanno occupando della vicenda, l’Organizzazione della Cooperazione Islamica s’è riunita per premere sul governo statunitense affinché sblocchi i fondi afghani. A guidare l’iniziativa è il Pakistan, che col suo ministro degli Esteri Qureshi ricorda come, accanto al rischio di morte per fame, s’accompagneranno flussi di rifugiati e nuove motivazioni per l’estremismo fondamentalista. Il Paese confinante teme ondate di profughi, già conosciute dopo il ritiro sovietico (fine anni Ottanta), durante il conflitto fra Signori della Guerra (metà anni Novanta) e con l’inizio dell’Enduring Freedom (fine 2001). Varie componenti pakistane che siedono al Parlamento, dirigono l’Intelligence, animano il fondamentalismo mirano a ‘orientare’ l’Afghanistan, mantenendolo in una posizione politico-economica, amministrativa, militare subalterne, non però in una drammatica miseria, foriera di malattie e morte. Da parte sua l’Occidente, creatore dell’ennesimo Stato fallito, rilancia la sua cinica ricetta di assistenzialismo a singhiozzo e asservimento.

lunedì 20 dicembre 2021

Egitto, per la Corte Fattah non è Zaki

La sentenza l’ha annunciata la sorella Mona Seif, facendo correre la notizia sui social media: “Il giudice è troppo codardo per divulgarla” ha scritto su Twitter e a malincuore ha confermato che ad Alaa Abdel Fattah sono stati inflitti cinque anni di reclusione. S’accompagnano a due condanne di quattro anni ciascuno per il blogger Mohamed “Oxygen” Ibrahim e per l’avvocato Mohamed El-Baqer. Tutti rei di diffusione di notizie false. La stessa accusa che ancora pende sulla testa del dotttorando Patrick Zaki, attualmente libero, ma atteso davanti alla Corte il 1° febbraio prossimo. Le condanne in questione non sono appellabili, l’approvazione finale spetta al presidente egiziano e un suo assenso lascerà in galera il terzetto sino a fine 2026. Le speranze sono flebili perché Alaa è considerato una testa calda di vecchia data. Attivo nella Primavera di ribellione che abbatté Mubarak, l’attivista ha conosciuto altre reclusioni, sempre per opposizione politica e attacco alla “sicurezza dello Stato”. Quest’ultima accusa, atta a limitare la libertà di parola e pensiero, le uniche armi usate da Fattah, appartiene alla fase iniziale della svolta repressiva del generale golpista, che dal 2015 ha inanellato un crescendo esponenziale portando in galera sessantacinquemila cittadini. Una prigionia con intenti persecutori verso individui come Alaa, di cui la madre - una professoressa, lei medesima vessata e intimidita dal regime - addita la foga poliziesca basata su torture esplicite e sullo sgretolamento della personalità: ad Alaa è negato l’accesso a libri e radio, gli è vietato camminare fuori dalla cella, le uniche occasioni in cui può lasciarla sono le visite dei parenti (per tutta una fase impedite con cavilli burocratici) e il trasloco nei tribunali per le udienze. Sui due volti del Sisi, spietato e compassionevole, discutono osservatori internazionali, provando a decriptare azioni e comportamenti d’una spregevole tattica, volta a distinguere nel fronte carcerario reietti irrecuperabili e soggetti lusingabili con una liberazione frutto d’altre contropartite. 

 

Involontariamente il caso Zaki potrebbe finire in questo sporco gioco. Lui figlio d’una posizionata famiglia di religione copta, studente modello culturalmente attivo in un contesto internazionale occidentale, attorno al quale s’è creata un’ampia solidarietà che varca l’orizzonte delle Ong, spesso detestate dal regime militare, ma sostenuta dalle autorità italiane cui il Cairo guarda per i propri affari. Mentre da Roma si guarda al grande Paese arabo per quel Pil nazionale (in questi mesi in forte crescita) che ha nei proventi di Eni e Finmeccanica due irrinunciabili pilastri. Su tale terreno il doppiogiochismo di Sisi è addirittura più viscido di quello annunciato a fine dello scorso ottobre con le “carceri modello” e “la cancellazione dello Stato emergenziale”. Iniziative propagandistiche che non mutano la condizione generale per il detenuto tipo: soggetto marginale e povero, di confessione musulmana, non necessariamente aderente all’Islam politico della Fratellanza. Oppure politicizzato in quanto oppositore, militante, sindacalista. E ancora giornalista, animatore di organismi per i diritti civili, avvocato dei diritti. Costoro, a migliaia, riempiono da anni le supercarceri di Tora e simili. Ciascun detenuto è un soggetto a sé stante, ma il panorama egiziano sotto la regìa del generale Sisi ha una trama comune. Fattah e Zaki sono vittime della stessa repressione. Come Zaki e Regeni, pur con l’irreparabile gravità dell’omicidio del ricercatore friulano, sono stati l’obiettivo d’un sistema violento e sanguinario sul cui operato  Sisi deve rispondere. Flettersi a un possibile ricatto di salvare il primo e dimenticare il secondo, come ha mostrato di voler fare il nostro ministro degli Esteri, è una mossa insostenibile, un gesto di collusione con un assassinio di Stato in cambio d’una liberazione cui non deve ambire solo Zaki, ma Fattah, Ibrahim, El-Baqer e migliaia d’incatenati dai militari d’Egitto.

domenica 12 dicembre 2021

Talebani e noi

Partecipando, nella settimana appena conclusa, ad alcune iniziative pubbliche in presenza e online (con le scuole di Treviso e un’assemblea a Verbania per la giornata dei diritti umani, presentazione di un libro sulle donne afghane a Roma) alcuni temi sono emersi nel trattare la tragica attualità afghana. Il filo conduttore che ha fatto riflettere studenti, attivisti, cittadini sulla condizione femminile nella travagliata terra dell’Hindu Kush e dei profughi che da lì fuggono a causa del rinnovato Emirato talebano, non può esimerci dal ricordare tre tratti del ventennio segnato dalle missioni Enduring Freedom, Isaf, Resolute Support. Volute politicamente da Stati Uniti e Unione Europea, organizzate militarmente dalla Nato con l’adesione di 36 Paesi membri e dei propri militari lì inviati (fino a 130.000 uomini), sostenute dai finanziamenti dei rispettivi Parlamenti con spese onerosissime. Fino a duemilatrecento miliardi di dollari, dieci miliardi di euro per l’Italia. Tre tratti che ci conducono nelle buie stanze dove rimbomba l’eco di falsità, fallimenti, crimini. 

 

L’ultimo dei crimini in corso riguarda 23 milioni di afghani che secondo un dettagliato rapporto Onu rischiano una gravissima denutrizione; fra loro 3.2 milioni di neonati e bambini la cui crescita, e in tanti casi la stessa vita, sono messe a repentaglio per la carenza di cibo. Per decisione dell’amministrazione Biden le banche statunitensi trattengono da quest’estate quote degli aiuti internazionali (9.5 miliardi di dollari) destinati all’Afghanistan. Il motivo è la mancanza di garanzie del governo di Kabul verso diritti civili e di genere, di cui gli statunitensi stranamente si rammentano dopo aver per due anni concordato coi talebani stessi una sorta di pacificazione della nazione. Quegli accordi, firmati a Doha nel febbraio 2020, sono stati un riconoscimento ufficiale dell’ex nemico. Un attore indifendibile agli occhi dell’Occidente armato patteggiatore e pure di quello disarmato che si attiva per salvataggi e corridoi umanitari, ma di fatto attuale ceto dirigente del Paese. L’embargo che sta bloccando l’acquisto del cibo, il pagamento di salari per la maggioranza d’un popolo che in Afghanistan, volente o nolente, ci resta, non colpisce Baradar e soci bensì milioni di persone che rischiano la fame. E’ un crimine odioso al pari dei bombardamenti con caccia e droni che hanno mietuto vittime fra la gente, pashtun, tajiki, uzbeki, hazara e decine di micro etnìe, mai citate e mai sostenute da dentro e da fuori. 

 

Le falsità che per duecentotrentasei mesi si sono susseguite nelle nostre abitazioni erano frutto di tanta e varia propaganda dei governi coinvolti nelle missioni. Bugie in molti casi sostenute anche da quella stampa non posta a controllo della politica, ma sua indiretta portavoce. S’iniziò nel novembre 2001 con la Conferenza di Bonn, riunita quando ancora rombavano i motori dei caccia dell’Us Air sull’area di Tora Bora e le bombe mettevano in fuga taliban e probabili qaedisti lì presenti. Bonn decideva l’Afghanistan futuro, promuovendo un inflessibile sistema presidenziale che non rifletteva le diversità politica ed etnica del Paese. La rinascita della nazione era messa in mano a clan tribali e l’investitura del pashtun Popalzay Hamid Karzai, fortemente voluta da George W. Bush, dava spazio alle attività criminali sue e dei fratelli. Ahmad Wali, narcotrafficante che la Cia fece suo referente per la provincia di Kandahar, zona ridiventata nel tempo ad alta produzione di papavero da oppio, Mahmoud coinvolto nelle ruberie di Kabul Bank, Qayum faccendiere delle tangenti con e per conto di società di boss e Signori della guerra. La presunta democratizzazione cerca spazi in un sistema senza partiti, davanti a clan, taluni tribali, altri esplicitamente malavitosi. Alle elezioni del 2004, che danno a Karzai la presidenza ufficiale, partecipa circa il 60% del corpo elettorale. Dopo cinque anni l’elettorato crolla a meno del 30%, Karzai viene rieletto nonostante palesi brogli, mentre Holbrook, il consigliere del  presidente Obama, definisce la macchina elettorale una finzione di democrazia e un elemento di distrazione di massa. 

 

Il fallimento legislativo è ben espresso dai nomi dei vicepresidenti scelti prima da Karzai poi dal successore Ghani: Fahim, Khalili, Dostum – Jang salane, Signori delle guerra – ripuliti per la politica di rappresentanza. Le loro facce sono l’immagine d’un sistema impresentabile incentrato sul sopruso e la corruzione. Eppure si prosegue. Il fallimento militare è quello più noto ed evidente. L’avevano costatato i generali americani che orientavano l’inconsistente amministrazione Obama già nel 2010, l’anno orribile per la Nato, colpita da una guerriglia riorganizzata, che nei dieci anni seguenti s’è fregiata del ruolo di patriota, difensore del suolo invaso da eserciti stranieri. I centotrentamila soldati della coalizione calzavano scarponi non più adatti a calpestare un terreno infido e nel 2011 l’Isaf  stabilisce due piani: operazioni nei cieli, la guerra coi droni che mese dopo mese ha provocato un’infinità di ‘danni collaterali’, vecchi, donne, bambini vittime assieme ai taliban. E le spedizioni straordinarie, incentrate su incursioni notturne nelle abitazioni civili, sequestri e deportazioni, torture di sospettati spesso del tutto estranei alla guerriglia. Così i turbanti hanno iniziato a reclutare giovani anche fuori dalle madrase, ragazzi non indottrinati dal credo fondamentalista deobandi, ma dalla convinzione che l’Occidente cattolico, protestante, ortodosso perseguitava la gente afghana. Così la Jihad ordinata dal mullah Omar è cresciuta. Intanto al Pentagono pensavano: “Se non li scanniamo noi, facciamolo fare a chi li odia” e lo suggerivano allo Studio Ovale. Pronta pianificazione con gli alleati europei e proposta d’investire sull’Afghan National Forces, un esercito addestrato dai marines e pure dai nostri incursori, Carabinieri e Col Moschin. I numeri crescevano, fino a 350.000 unità, cresceva pure la quantità di denaro rivolta a reparti che non reggevano lo scontro diretto, seppure meglio equipaggiati. Un clamoroso flop di cui i bollettini delle varie Forze Nato, evitavano di parlare, tranne venir smentite dai fatti. Diserzioni, infiltrazioni, scoraggiamento, e una campagna acquisti che i turbanti - tornati a trafficare oppio e riscuotere dazi su importanti vie di comunicazione, per il semplice motivo ch’erano loro a controllare il territorio - potevano permettersi. Offrivano ai soldati afghani anche il triplo dello stipendio, e quei giovani che vestivano la divisa solo per far campare i familiari transitavano sul fronte opposto. Nell’ultimo anno in cui l’esercito autoctono si sfaldava sono comparse le rivelazione dei vertici di quell’esercito diventato fantasma: “Non eravamo così numerosi, falsificavamo i numeri per intascare più denaro”. 

 

La quantità di denaro che ogni anno i Parlamenti nazionali destinavano alle missioni serviva a nutrire il gigantesco apparato militare, logistico, amministrativo. Continuava ad alimentava un progetto già catastrofico dopo un decennio, che è durato per altri tremilacinquecentocinquanta giorni o giù di lì. Si trascinava dietro altre bugie o illusioni. Una riguarda le donne. Una buona legge contro la violenza di genere venne approntata col contributo di consulenti e giuristi occidentali, con una propria impostazione del diritto comunque utile alle donne. Peccato che c’era chi remasse contro. Ancora lui, il presidente benvoluto dall’Occidente, Hamid Karzai, non permise a questa norma di finire in Parlamento perché non approntò mai il decreto presidenziale necessario all’iter legislativo. Così la buona legge restava sulla carta. Le attiviste della Revolutionary Association Women of Afghanistan, impegnate nell’organizzare, fra l’altro, case rifugio per donne abusate, testimoniavano l’impotenza: solo qualche volta le uccisioni, gli stupri, le violenze finivano davanti a un giudice. E nei rarissimi casi di condanna dell’assassino o violentatore gli avvocati difensori ricorrevano e facevano cancellare la sentenza. I parlamentari, le parlamentari occidentali avrebbero dovuto ascoltare questa triste realtà, in certi casi la conoscevano ma per ragion di partito tacevano. Non tornava comodo a coalizioni e governi ammettere l’ennesimo fallimento. 

 

Eppure il danno maggiore la gente afghana, e soprattutto i suoi giovani, l’hanno ricevuto dal nulla economico. Niente è stato fatto per creare un’economia interna. Il ceto politico corrotto ha pensato a sé, con ruberie e intascando proventi destinati allo Stato.  Sempre Karzai sottoscrisse con China Metallurgical Group un contratto di sfruttamento minerario – rame, oro, ferro, litio e terre rare – per trent’anni in cambio di tre miliardi di dollari. Quei denari non gonfiarono le casse statali, finirono a Watan Group, una società di cui il clan Karzai era il maggiore azionista. Le scuole aperte a ragazze donne erano in gran parte private, frutto d’iniziative delle ong locali e straniere. Spesso sono state ostacolate, non aiutate dai governi di Kabul, i responsabili perseguitati come “istigatori della prostituzione” o “mercanti di minori”, mentre chi realmente attuava simili pratiche, se ben protetto dalla politica, continuava indisturbato la turpe opera. In tutto questo tempo le strutture ospedaliere sono state create da Croce Rossa, Emergency, Médecins sans Frontières. Hanno lavorato e lavorano, quando non sono finite sotto le bombe punitive statunitensi per aver curato i talebani feriti. E’ accaduto a Kunduz nell’ottobre 2015, quarantadue morti fra pazienti, medici, infermieri. Nella seconda decade di occupazione occidentale s’è sviluppata una bolla edilizia, soprattutto nella capitale si costruivano abitazioni moderne per il personale afghano impiegato nei ruoli di supporto all’apparato straniero. Case dagli affitti costosi, che però l’élite locale, retribuita anche con duemila dollari mensili, poteva permettersi. Parimenti gli occidentali hanno creato la bolla degli impieghi di sostegno alla propria presenza, per uomini e donne: interpreti, mediatori, segretari, autisti, cuochi, camerieri e l’illusione di poter continuare a svolgere quei lavori ad libitum. Non poteva esserci bugia più scottante. Le missioni occidentali non sarebbero potute durare, ma producevano la chimera di protrarre nel tempo quelle occupazioni. Anziché inserire queste figure in apparati amministrativi locali (in genere gestiti dai clan della politica, non solo maschile, anche talune deputate si sono spese per tali consorterie utili alle proprie carriere e ai governi di cui sono state la maschera femminile) la macchina occidentale le ha usate e illuse. Abbandonandole dopo il 15 agosto. Facendo piatire loro una salvezza da possibili vendette talebane, visto che venivano bollate di collaborazionismo. Una situazione orrenda, foriera di corse per i “visti della salvezza” per alcuni e non per altri. Di folli inseguimenti sulle piste di voli illusionisti e squilibrati. La promozione di corridoi umanitari, di cui ora tanto si parla per chi sceglie di lasciare un Paese sotto la pressione di terrore e violenze, poteva essere praticata nel corso d’un ventennio in cui si prometteva pace e si è praticata guerra. Come purtroppo era accaduto nei trent’anni precedenti. Ma si può evacuare un popolo? La risposta la offrono gli stessi afghani che non possono o non vogliono allontanarsi da quella terra che è la loro, nonostante talebani, fondamentalisti, warlords, corrotti. A queste generazioni il futuro è scippato da mezzo secolo per il ciclo perenne di conflitti e l’assenza di autodeterminazione economica. L’arma subdola con cui il colonialismo di ritorno, crea soggetti subalterni, privati della dignità economica, soggetti da nutrire o far morir di fame. Sequestrati da una realtà fallimentare come ha fatto la coalizione Nato per vent’anni, come sta facendo il governo statunitense da tre mesi. Unendo al disastro talebano, il proprio velenoso disastro.  

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Le splendide immagini usate nell’articolo sono di Shah Marai, fotografo dell’Afp, vittima di un attentato nel 2018 assieme ad altri nove giornalisti



martedì 7 dicembre 2021

Zaki libero, ma per sempre

Per avere al fianco Patrick e non la sua immagine o il suo cartoon, gli amici, i colleghi dell’Università di Bologna dovranno attendere. Molti sono ormai specializzati dopo il Master che invece Zaki ha dovuto forzatamente interrompere. Per ora si sa che il dottorando egiziano potrà uscire dal carcere di Mansoura anche domani. Forse non sarà neppure sottoposto all’obbligo di firma, ma l’accusa di aver calunniato il governo del Paese resta. Come rimane lo spettro dei cinque anni di condanna. La sua avvocata, felice per l’apertura dei giudici dopo oltre ventidue mesi di detenzione, ribadisce l’inconsistenza del castello accusatorio: i fatti citati nei commenti postati sui social dal suo assistito erano e restano veri. Lui non ha diffuso false notizie, né calunniato nessuno. Però l’incertezza sull’andamento dei prossimi passi resta. Ormai il suo caso - simile a migliaia di altri che hanno recluso concittadini d’ogni età - è diventato di pubblico dominio. Anzi, la diffusione mediatica con cui familiari, amici, attivisti hanno giustamente cercato di mobilitare ampi strati d’opinione in Egitto, in Italia e altrove, diventano lo specchio con cui il regime repressivo di Sisi deve misurarsi. Su un terreno egualmente giuridico, mediatico e politico, - sebbene dai risvolti tragici, che vede su fronti opposti il grande Paese arabo e il nostro Paese - quello dell’omicidio Regeni, il comportamento egiziano è stato di totale chiusura. Praticando la difesa a oltranza dei mukhabarat assassini, Sisi difende se stesso, non tanto dall’ipotetico e mai provato complotto ai suoi danni. Difende il sistema che ha predisposto a tutela del proprio clan familiare e della casta delle Forze Armate, la spina nel fianco d’una democrazia egiziana, mai stata tale, e con la sua gestione diventata un’autocrazia criminale. Lo scenario per Zaki potrebbe essere diverso e il proditorio castello d’accuse nei suoi confronti cadere. Ognuno lo spera vivamente. In tal modo il regime anziché smentirsi manifesterebbe una sorta di magnanimità verso un accusato diventato ingombrante, proprio per il sostegno internazionale che l’accompagna. Questo passo felice per Zaki, potrebbe assimilarsi al segnale offerto due mesi or sono sul cosiddetto termine dell’emergenza securitaria. Note ong egiziane, fra cui spicca l’Arabic Network Human Right Information, si erano mostrate fortemente critiche verso il tam tam mediatico con cui i Palazzi del Cairo avevano sostenuto quella misura. Di fatto una pura formalità, visto che i sessantamila detenuti, fra cui Zaki, erano rimasti sepolti vivi e i loro processi aperti. Taluni trascinati ad libitum. Insomma guardiamo il bicchiere mezzo pieno, ma la strada per la liberazione dei prigionieri politici d’Egitto passa per la liberazione del Paese dal suo attuale raìs. Come nella Primavera che scacciò Mubarak.

lunedì 6 dicembre 2021

Qatar-Turchia, baratto anticrisi

Merce in cambio di truppe va a sancire Recep Tayyip Erdoǧan volato a Doha dall’emiro Al Thani. Ovviamente tutto avviene all’interno d’un incontro ufficiale, il settimo del Supreme Strategic Committe, che accanto al tema della ‘sicurezza’ prevede investimenti per cultura, sport, salute, affari religiosi, commerci e un’altra voce non meglio identificata. Quest’ultima potrebbe portare liquidità a taluni mega progetti pubblici rimasti in sospeso come il secondo Canale sul Bosforo. Bloccati dalla crisi inflattiva della lira turca, messa ancor più a repentaglio dalla linea di condotta voluta dal presidente stesso, contro il parere della Banca Centrale e dell’ultimo ministro delle Finanze, immediatamente sostituito. Qatar e Turchia avevano allacciato i rapporti del Supreme Committe nel 2015. Nel 2017 Erdoǧan aveva gettato il suo peso internazionale a sostegno dell’emiro qatarino che, su regia di bin Salman, subiva l’embargo dei Paesi del Golfo. Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto imposero il blocco mercantile a Doha, accusandola d’ingerenza negli affari delle altre petromonarchie, sostegno ideologico e politico alle Primavere arabe, peraltro da tempo sfiorite e represse. Allora gli aerei turchi portarono derrate al piccolo e ricchissimo emirato, stavolta accadrà il contrario. Ma accanto alle note diffuse su merci in viaggio verso la Turchia (probabilmente anche le costose materie prime che ovunque nel mondo producono la febbre inflattiva) saranno nuovi finanziamenti miliardari che il Capo di Stato turco riesce a ottenere per raddrizzare, almeno parzialmente le casse statali. Come accadeva nell’estate 2018. 

 

Da parte sua Ankara offre un servizio finora assai efficace, quello dei militari. Peraltro, dopo le epurazioni dell’ultimo quinquennio, fedelissimi alle decisioni del ‘sultano’. E non c’è solo Al Thani. Terminata la crisi fra gli Stati del Golfo, una distensione si era verificata anche con la Turchia e ora che la crisi economica morde i Palazzi di Ankara, potenziali investimenti provenienti da quei Paesi che puntano a diversificare la propria economia fuori dall’area e dall’energia appaiono come una manna insperata. Il principe di Abu Dhabi Mohammed bin Zayed Al Nahyan ha incontrato Erdoǧan il mese scorso. Ora provvede al rimpatrio di personaggi poco raccomandabili (boss mafiosi) presenti negli Emirati, di cui il governo turco aveva a lungo chiesto l’estradizione senza essere esaudito. Sono gesti distensivi che la Turchia ricambia riallacciando relazioni interrotte da Riyad al Cairo. Di mezzo c’erano stati il golpe del 2013 contro il governo della Fratellanza Musulmana, e il torbido omicidio del giornalista Khashoggi consumato nel 2018 sul suolo turco, all’interno del consolato saudita a Istanbul. Per puntellare l’economia Erdoǧan fa di tutto, e passa oltre pure su prossime esplorazioni compiute dalla Qatar Petroleum per conto di Cipro. In quelle Zone Economiche Esclusive fino a qualche tempo fa oggetto di pattugliamenti della marina turca osannante la sua ‘Patria Blu’.

giovedì 2 dicembre 2021

Turchia, girandola di ministri e lira a picco

Inflazione alle stelle, valore della lira a precipizio è il ritornello che fa fibrillare la politica turca e un po’ lo stesso presidente, tanto efficace nelle questioni internazionali, così claudicante sul fronte finanziario interno. Ma questa carenza, che pure fa crescere i malumori popolari e mette a repentaglio il traguardo del centenario (2023), un obiettivo inseguito da Erdoǧan da quando ricopriva l’incarico di primo ministro, non mette di buon umore l’opposizione. Seppure una sconfitta elettorale facesse saltare il banco politico dell’alleanza fra partito della giustizia (Akp) e movimento nazionalista (Mhp) che guida il Paese dal 2017, l’opposizione avrebbe l’ingrato compito di gestire la delicata faccenda economica. Già, l’opposizione. Quale? I repubblicani (Chp) col partito filo kurdo (Hdp) che ha buona parte della dirigenza incarcerata? oppure un connubio dei primi con l’ex “lupa grigia” Aksener che col suo Buon partito (İyi) è accreditata anche del 15% d’un elettorato conservatore strappato alla maggioranza. Tutte restano solo ipotesi, visto che la vera politica non è fatta di proiezioni elettorali. Poi ci sono i raggruppamenti degli islamo-conservatori, ex pupilli di Erdoǧan, allontanati da lui o allontanatisi da lui: il ministro di un’economia che fu, Ali Babacan, leader del raggruppamento Deva e il professore prestato agli Esteri Davutoǧlu, il teorico del “nessun problema coi vicini”, l’esatto contrario di quanto il premier e poi presidente ha realizzato dal 2012 in poi. Quest’ultimi mettono insieme inezie, percentuali del 3-5%. Soltanto se si riunissero tutti, l’attuale maggioranza avrebbe problemi di maggioranza. 

 

Resta la realtà che parla d’un nuovo ministro dell’Economia, Nureddin Nebati, 57 anni, master in Scienze sociali all’Università di Istanbul e dottorato di Scienze politiche e Pubblica amministrazione all’Università Kocaeli, un’accademia efficiente che ha come motto: “educare, ricercare, produrre per la Turchia”. Un buon viatico, oggi difficile da attuare. Dopo l’intervento della Banca Centrale Turca per sostenere la caduta di circa il 30% del valore della lira contro il dollaro (negli ultimi quattro anni la flessione è stata del 59%), serviva un nuovo volto per il dicastero. Dunque via Lufti Elvan, dentro Nebati. Il ministro uscente - che aveva ricoperto anche la carica di responsabile di Trasporti, Navigazione e Comunicazioni – si era mostrato poco incline ad avallare la linea di bassi tassi d’interesse sostenuta da Erdoǧan. Aveva a sua volta sostituito il chiacchierato affarista e genero del presidente, Berat Albayrak, che s’era fatto le ossa nella Holding Çalık, colosso dell’energia, di minerali, edilizia, tessile e telecomunicazioni. Un addestramento che lo lanciò, anche perché giovane, interno all’Akp e marito di Esra, la terzogenita di casa Erdoǧan. Nella direzione del dicastero energetico Albayrak ha vissuto l’intoppo delle rivelazioni Wikileaks su vendite, attraverso la Turchia, di partite di petrolio gestite dallo Stato Islamico. Vere o false che fossero le notizie, la sua immagine s’offusca, lo salva lo stato di famiglia. La successiva nomina al ministero delle Finanze ha un esordio da incubo: all’annuncio del suo nome la lira perde in un’ora circa 4 punti. Nella carica dura anche tanto, fino al novembre 2020, quando si dimette adducendo motivi di salute. 

 

Gli osservatori finanziari sono più trancianti degli scoop di Wikileaks: sotto la gestione Albayrak la Banca Centrale ha venduto sui mercati buona parte delle proprie riserve in valuta estera, senza riuscire a correggere la tendenza al ribasso. Eppure la grande malata è l’economia nazionale. Al di là del politico che sale ai vertici del dicastero, nei cui panni ormai pochi uomini d’apparato vogliono stare, la motrice turca non tira più. E questo sebbene ci siano ancora in ballo gli avveniristici progetti del secondo canale sul Bosforo e cose simili. La crisi morde non solo per l’inflazione stellare - dal 20 al 30% che oggi alla massaia fa costare un litro d’olio 80 lire, mentre a inizio anno ne bastavano 32 - ma per le stesse teorie presidenziali. A suo dire alte aliquote d’interesse causano l’aumento inflazionistico, invece tassi bassi stimolano la crescita, incrementano l’esportazione e creano lavoro. Però gli investimenti stranieri calano, di recente Wolkswagen ha rinunciato a un impianto previsto a Izmir. Dal 2019 il presidente  ha licenziato tre governatori che s’opponevano ai suoi desideri di bassi tassi d’interesse. Egli accusa attacchi alla moneta nazionale frutto di volute turbolenze straniere sui mercati. E se i dati del terzo trimestre dell’anno mostrano una crescita economica (+7%), gli analisti ammoniscono: l’aumento potrebbe risultare fittizio e avere breve durata per l’elevata inflazione e il crollo valutario.