martedì 18 aprile 2017

Erdoğan, i buchi neri del trono più grande

Fra il successo storico proclamato dal mentore della Turchia del Terzo Millennio, i festeggiamenti e le prime esuberanze dei propri fan, i complimenti che sanno di promozione dei grandi che contano (Trump e Putin), compaiono i buchi neri d’una vittoria dimezzata. In testa le accuse diirregolarità  su cui ha detto la sua la stessa Osce, che per bocca di osservatori locali afferma “talune procedure del voto sono risultate irregolari“. Il riferimento riguarda la conta avvenuta in parecchi seggi di schede non timbrate dagli addetti alle operazioni di voto, schede dunque che potrebbero essere contraffatte. I rappresentanti del fronte del no denunciano brogli e hanno presentato ricorso. La Commissione elettorale s’è presa una decina di giorni per esaminare dette schede e sancire il risultato definitivo. Per ora il successo del sì - che mostra un margine dell’1,4% pari a circa un milione e trecentomila voti su 58 milioni di votanti, oltre l’86% degli aventi diritto - è ufficioso ma gode già dell’ufficialità del governo, felice di un avvìo “democratico” del regime. Agli sconfitti che hanno ripreso il concerto di pentole e padelle, come all’epoca delle contestazioni di Gazi park, non resta che sperare nel miracolo di una decisione straniante della Commissione: l’annullamento del voto. Sembra fantascienza perché un passo simile potrebbe davvero condurre il Paese a uno scontro aperto, da quello delle risse per via, che già in qualche caso si sono verificate, a operazioni repressive dettate dalla difesa della “sicurezza nazionale”. Il referendum stesso, fortemente voluto dal presidente e dal suo staff ristretto (qualche nome noto dell’establishment dissentiva), si è svolto in pieno clima di emergenza, la cui legge speciale è stata di recente prorogata ancora una volta di tre mesi.
Dal fallito golpe del luglio 2016, grazie a tali normative decine di migliaia di dipendenti statali (impiegati, insegnati di scuole primarie, secondarie e università,  militari, poliziotti, magistrati) sono stati licenziati o messi a riposo. Migliaia di attivisti kurdi e di sinistra arrestati, finanche parlamentari dell’opposizione (Hdp) accusati di terrorismo e prossimità al Pkk. E ancora, molte testate e tv sono state chiuse o riconvertite a posizioni filogovernative, centocinquanta giornalisti sono tuttora in galera. In una Turchia crudamente divisa, dove una metà accusa l’altra di sovversione e terrorismo mentre essa è detestata per servilismo verso un megalomane del potere che odia avversari e vede (o dice di vedere) complotti in ogni angolo, il rischio d’una caduta verso lo scontro aperto non è affatto escluso. Certo la stessa classe dirigente politica ed economica turca non dovrebbe spingere verso la conflittualità delle piazza. I nemici interni armati, che esistono e agiscono, e sono solo parzialmente colpiti dalla repressione che punta soprattutto ad azzerare voci e coscienze critiche dei cittadini, non possono che avvantaggiarsi da un’aperta conflittualità. Ma è egualmente vero che la repressione erdoğaniana, avviata con la coercizione dei contestatori di strada, giovani e studenti, ecologisti e femministe, antagonisti dell’Istanbul laica e cosmopolita, tuttora vivi e urticanti tramite il voto, ha raggiunto punte elevatissime nei mesi seguenti il tentativo di colpo di mano.

Dunque, per il potere il presidente assoluto, sembra disposto a tutto. Prendendo anche più delle cento e uno posizioni mostrate in politica estera sul versante mediorientale. Così in queste ore, come suo solito, ha alzato i toni. Ha smentito le insinuazioni dell’Osce, messe sullo stesso piano delle esternazioni di quei Paesi europei con cui si contrasta da settimane proprio sul tema referendum. Una battaglia che fra l’altro paga, visto come ha risposto l’elettorato tedesco in Olanda e in Germania: 70% e 60% a sostegno del sì. Perciò, nelle infuocate ore del dopo voto, Erdoğan da quel fine animale politico, da quel giocatore d’azzardo che è ha pensato: perché non accelerare? E sta già spiazzando tutti, dirigendo lo sguardo dalle schede non timbrate e irregolari, e dal tintinnìo delle padelle, altrove. Ora parla di pena di morte. Rivolta a chi? Certamente ai terroristi, che al suo sentire sono tutti gli oppositori. Ovviamente ne seguono sdegno interno e internazionale. Dall’opposizione di Chp e Hdp alle molte voci anche illustri dell’intellighenzia interna, fino ai membri Ue che già esprimono condanne: ”in questo modo il presidente esclude a priori ogni possibilità di dialogo e di entrata in Europa”. Ma lui francamente se ne infischia. La partita con l’Europa sembra averla già chiusa, per tenere saldo il potere sembra voler sacrificare ogni cosa. Oppure pratica il doppio-gioco di cui è maestro, sia perché non vuol perdere il tanto business che il vecchio continente procura (sebbene abbia in cantiere ulteriori piani con altri partner), sia perché sa che i tre milioni di profughi siriani costituiscono comunque un deterrente per il Parlamento di Bruxelles. Il braccio di ferro prosegue, a tutto campo con tutti.

domenica 16 aprile 2017

Turchia, il presidenzialismo passa di strettissima misura

Evet vince ma non libera Erdoğan dall’incubo di un immenso hayır che diventa un muro di ventitre milioni e mezzo di contrari, il 48,67% del voto finale di un elettorato che ha raggiunto l’alta partecipazione dell’86%. Così il margine fra la Turchia che approva riforma e quella che la voleva respingere s’assottiglia a un milione duecentocinquantamila elettori, pochissimi se si pensa alla prosopopea con cui il governo ha sostenuto il referendum e s’aspettava una maggioranza schiacciante. E’ stata invece confermata la proiezione che, nell’ultimo mese, dava il no in netta rimonta sul fronte del consenso, sia fra la base nazionalista ribellatasi agli inciuci di Bahçeli, sia in taluni settori dei fan dell’Akp. I kurdi poi hanno risposto all’unisono contro il presidente, perché l’altra faccia del quesito referendario riguardava l’autoritarismo, che nelle province del sud-est assume il contorno di spietata repressione, come mostra la carcerazione preventiva di centinaia di attivisti dell’Hdp con in testa i co-segretari Selahattin Demirtaş e Figen Yüksekdağ, accusati di terrorismo. A questo punto il referendum che ha polarizzato il Paese, passa per una manciata di voti  e già si parla di brogli, tema che renderà accesissima la fase non solo di commento ma di attuazione di una riforma così perentoria per la vita nazionale.
Il sì cede nelle città simbolo, a Istanbul e Ankara, dov’era in vantaggio e ha visto spegnersi il primato ed essere superato da chi rifiuta il presidente-padrone. Certo si tratta d’un divario dell’1% o poco più, ma è il medesimo che il sì vanta sul territorio nazionale per un progetto che cambia il modello della Repubblica e mette il Paese nelle mani di un solo uomo. Gli conferisce un potere assoluto, più di quanto ne avessero il padre della Turchia novecentesca Atatürk e più dello stesso sultano, che in fondo ammetteva la presenza del Gran visir. Invece la modifica costituzionale azzera la figura di primo ministro, introduce decreti presidenziali che possono scalzare leggi parlamentari, designa un buon numero di giudici della Corte Suprema, ponendo potere esecutivo, legislativo, giudiziario e ovviamente militare al super presidente. Erdoğan vorrebbe restare in carica sino al 2029, guidando i festeggiamenti del centenario della Turchia moderna (2023) e puntare a un ulteriore mandato, visto il nuovo sistema glielo consente. Però il lasciapassare nel Paese che ha plasmato a tal punto da farlo tornare al passato, potrebbe annebbiarsi con questo successo appena accennato.
Nelle urne di Adana e Antalya il rifiuto è pesante: il no vice col 59% e 58% a Izmir addirittura col 68%, per tacere di Mardin, Dıyarbakır e altri centri refrattari a ogni mossa governativa. Prevedendo un ampio consenso fra i concittadini, alla vigilia del voto Erdoğan parlava di popolo che “cammina verso il futuro”. Nella smania d’innovazione accentratrice, che ha fatto dire anche a commentatori super partes come in Turchia i princìpi pluralisti e democratici siano ormai a rischio, il presidente dovrebbe prendere atto che il voto referendario ha rafforzato gli oppositori, molto più che lui stesso. Nell’aria c’è una reazione oltre che a un piano autoritario, anche contro la sua persona. Se la matematica non è un’opinione questa ha già organizzato una fronda fra gli islamisti considerati reprobi, che nelle settimane scorse avevano rifiutato di farsi vassalli del sultano. Non si tratta di gülenisti. Sono quegli uomini di primo piano della politica nazionale e internazionale (due nomi per tutti Gül e Davutoğlu) messisi da parte o estromessi dall’uomo che non vuole attorno né avversari né compagni d’ideali. L’unico ideale inseguito è personalistico, sebbene la platea e il consenso sembrano restringersi e gli applausi nei comizi che saluteranno la vittoria dell’evet non saranno così ottimistici. 

sabato 15 aprile 2017

L’Iran di Rohani, convergenza di passato e futuro

Mentre si presentano le candidature alla presidenza iraniana - c’è tempo sino a domani quindi entro il 26 aprile il Consiglio dei Guardiani esporrà il suo parere - l’unica figura di spicco sicura al giudizio delle urne è il presidente uscente Rohani. Una sua rielezione è probabile. Dal 1981 l’elettorato ha sempre offerto un secondo mandato a chi veniva scelto nel quadriennio precedente e l’eterna sfida fra riformisti e conservatori,  rilanciata anche stavolta, ha vissuto momenti alterni. Hassan Rohani appartiene a una categoria che, comunque, ha una tradizione nell’Iran khomeinista, quella dei pragmatici. Che ha avuto in Rafsanjani un campione di diplomazia divisa sul fronte dell’osservanza ai dogmi khomeinisti, aperture a una certa privatizzazione di attività commerciali e imprenditoriali e pure patteggiamenti coi riformisti radicali, quei Mousavi e Karoubi, che quattro anni fa grazie ai suoi buoni uffici hanno condotto il voto riformista e giovanile verso Rohani. Allora venne battuto il candidato dei Pasdaran Qalibaf. Da quell’esperienza il fronte conservatore ha imparato una lezione: evitare le divisioni, tant’è che scommetterà su uno o due elementi. Per ora Qalibaf ha rinunciato, gli oltranzisti saranno rappresentati Rajsi, custode del santuario Imam Reza a Mashad e Baqaei, che fu capo staff di Ahmadinejad. La notizia che quest’ultimo ha lanciato una nuova candidatura sembra una mossa sviante, perché nessuna ‘istituzione’ l’accetterà. Nel 2013 i tradizionalisti frammentarono il voto attorno a tre figure, più o meno conservatrici, laiche e clericali. Credevano che i quorum elettorali fossero più bassi, vista la dichiarazione di astensione proclamata fino alla vigilia dai riformisti di quella che era stata l’Onda verde. Invece la convergenza dei consensi radicali sul ‘centrista’ diplomatico Rohani li mise all’angolo.
Ora la partita si riapre e il presidente uscente, che ha avuto momenti di ampio successo e credito soprattutto per l’uscita dalla nerissima fase delle sanzioni (non è terminata perché sulle finanze del Paese pende il blocco delle transazioni bancarie) viene giudicato pure sul versante economico. E’ vero che il Pil è in ripresa e segna un invidiabile 7.2% ma diversi analisti, anche i non detrattori verso il regime degli ayatollah, descrivono la situazione attuale come malaticcia. C’è molta progettualità, diverse pianificazioni che riguardano, ad esempio, pure il nostro Paese che ha proposto investimenti nelle infrastrutture di trasporti e sanità. Sono  progetti firmati col governo Renzi per la creazioni di linee e treni superveloci (se ne occupano Gavio e Trenitalia) su tratte d’interesse turistico fra Teheran, Qom, Esfahan, Mashhad, e l’edificazione di strutture ospedaliere affidate alla Pessina costruzioni, società del gruppo imprenditoriale coinvolto nella recente querelle di presunti favori con l’ex premier: appalti in cambio di finanziamenti al quotidiano L’Unità. Ma questi sono “affari” tutti italiani. Sulle urne iraniane potrà pesare il malcontento dei ceti a basso reddito - non solo i mostazzafin da decenni serbatoio di voto per il partito dei pasdaran - che dopo quindici mesi dalla caduta dell’embargo non vedono sbocchi lavorativi, con una disoccupazione cronicizzata al 12%. E per i tanti giovani le percentuali salgono al 30%, come in Occidente. Sulle politiche economiche in caduta, o comunque, non nella ripresa sperata s’è anche pronunciato Khamenei, e quando parla la Guida Suprema giunge automatica la promozione o la bocciatura d’ogni iniziativa. Però la massima autorità della nazione, dopo l’esperienza estremista di Ahmadinejad, diffida di personaggi sconosciuti. Soprattutto se conducono mosse azzardate contro il clero sciita, come quella di promuovere un superpotere laico che mettesse ai margini “il governo del clero”. Di lì la lista nera in cui è finito l’ex presidente.
Così nelle apparizioni pubbliche che conducono alle presidenziali si sono sentiti pronunciamenti di Khamenei favorevoli a una scelta d’un Capo di Stato esperto, per evitare avventure con politici inadatti. S’è sentito anche un Rohani battagliero che quasi infiammava i sostenitori delle posizioni più dure quando ha detto che “L’Iran è il Paese dei leoni, nessuno può cercare di avvantaggiarsi di questa magnifica nazione”. Concetti rivolti alle minacce dello staff di Trump che potevano stare in bocca al ministro della Difesa, una Guardia della Rivoluzione. Nel conseguente cerchiobottismo, sembra che Khamenei e Rohani, stiano trovando una quadratura delle spigolose contraddizioni che continuano ad attanagliare un pezzo di Iran. Una parte dell’opposizione riformista di area intellettuale, critica la mancanza di coraggio dell’ayatollah-presidente attorno alla repressione di pensieri e costumi; questione additata dai tradizionalisti come un cavallo di Troia del pensiero lassista e corrotto dell’Occidente lanciato contro i tratti salienti della Rivoluzione islamica. Tanto che le manifestazioni popolari del 2009, concentrate soprattutto a Teheran, che avevano riavviato scontri di piazza fra basij e studenti furono bollate come contestazione organizzate dall’esterno (s’accusava la Cia) per operare un colpo di Stato alla stregua di quello antico contro Mossadeq. Fantasmi di regime? Forse. Certamente i contrasti anche interni non sono secondari, in tutti i fronti menzionati. Ma un aspetto che gli avversari di ideuzze aggressive devono meditare è il senso d’appartenenza degli iraniani. Davanti a possibili attacchi esterni tutti s’unificano: clericali e laici, apparati, correnti politiche e generazioni. S’innesca quello spirito leonino, menzionato da Rohani, che risponde diventando un’unica diga contro i nemici della patria e di ciò che rappresenta. 

venerdì 14 aprile 2017

La Guerra fredda di Stranamore-Trump

“… Beh, insomma, è successo questo: uno dei nostri comandanti di base ha... ha... ha... ha avuto come... beh, insomma, gli è girato il boccino. Beh, sai, è diventato un po'... strano, e... Insomma, ha fatto una sciocchezzuola... Ecco, adesso ti dico cosa ha fatto: ha ordinato ai suoi aerei di venirvi a bombardare…”
(Il dottor Stranamore, Stanley Kubrik, 1964)

Stranamore-Trump lancia l’ennesima sfida al mondo. Fa sganciare la superbomba Moav verso Momand Dara, distretto di Achin, fra Jalalabad e Peshawar a ridosso delle turbolente Fata. Il motivo è la presenza di tunnel dove i combattenti jihadisti trovano rifugio, sebbene in tutta una vastissima area talebani di varie componenti, compresi i dissidenti del Khorasan che da oltre un anno si rapportano all’Isis, girano alla luce del sole e controllano quello e altri territori. Anche in quest’occasione il presidente statunitense compie un gesto simbolico, fra l’avvertimento e la sfida, lanciato verso Pyongyang e al suo dispotico leader maximo. Un avvertimento che coinvolge lo stesso colosso cinese che di quel Paese è un tutore a distanza, seppure imbarazzato dalle manìe di grandezza di Kim Jong-un. Ma rispolverare la Corea nell’immaginario geopolitico statunitense ha un valore preciso che si coniuga con due concetti mai tramontati nella testa di chi pensa che l’America sia non sono first, cioè in cima ai pensieri del suo conduttore del momento, ma anche la potenza indiscussa del mondo. Quei concetti riguardano militarismo e imperialismo e fanno parte dello spirito statunitense da diverse generazioni. Quelle passate appunto per il 38° parallelo, e poi ereditando le ex guerre coloniali e inventandone di nuove: Viet-nam, Afghanistan, Kuwait, Iraq e dovunque tutto ciò possa incentivare l’uso delle armi (prima industria mondiale) nell’uso pratico o in quello di deterrenza.

Ovviamente gli Usa sono in buona compagnìa perché altre potenze per tutto il ‘Secolo breve’ hanno seguìto la sciagurata via dell’aggressione. Ma il Paese dei coloni che sono diventati padroni del mondo, passando dalle colt alle bombe atomiche grazie a un uso criminalmente mirato della rivoluzione industriale e di una tecnologia rampante diventata tecnocrazia, rappresenta una realtà storica con cui la Storia deve fare tuttora i conti, specie se i rigurgiti d’un cieco egocentrismo tornano a indirizzare le menti. Che il politico Trump fosse un agitatore e non uno statista, era chiarissimo sin dal momento in cui l’out-sider su cui nessuno puntava un dollaro cominciava a farsi strada e far fuori i candidati ufficiali e “presentabili”. Nel proprio schieramento e in quello avversario. Ovviamente quest’ultimo termine è l’eufemismo con cui la democrazia americana si dà un alibi di alternanza e differeziazione. Anche ora, come in tante altre occasioni, le lobbies economiche e le caste militari conducono le danze della politica statunitense interna e internazionale. Non solo quando servono riferimenti concreti di carattere tecnico, ma quando questi scavalcano altre considerazioni e diventano motore portante. Basti pensare a quel che è accaduto negli ultimi anni sul fronte energetico con la pratica del fracking, devastazione ambientale messa al servizio del profitto. Ora nel poligono di tiro che continua a essere la tormentata terra afghana, altri signori della guerra, e delle armi, mostrano la propria potenza fatta di undici tonnellate di tritolo. Cavalcano la bomba, rilanciano la Guerra fredda. Sembra che se settant’anni siano davvero trascorsi invano.

martedì 11 aprile 2017

Turchia davanti al referendum di Erdoğan

S’approssima il voto popolare sul presidenzialismo turco. Nel fine settimana Erdoğan s’è recato nella tana del lupo: l’Istanbul riottosa, laica, ribelle, colei che con la rivolta del Gezi park ha segnato l’avvìo della terza fase politica del percorso del premier e ora presidente, caratterizzata dallo scontro e dal dominio. Incondizionati. Quella, comunque, è anche la sua tana. Lì ha iniziato l’ascesa al potere, vestendo i panni di sindaco e negli anni una grossa fetta della metropoli cosmopolita s’è fortemente islamizzata. Gli istanbulioti e le tantissime giovani istanbuliote che hanno partecipato alla manifestazione per il sì hanno dato energia alla prova di forza voluta lì predisposta. Ragazze orgogliosamente velate agitavano cartelli con l’immagine del presidente, per nulla preoccupate del soffocamento democratico che lamentano i sostenitori del no. Sul Bosforo i repubblicani, la gioventù laica di sinistra, la comunità kurda, oppositori storici dell’autoritarismo militare o islamista, secondo i sondaggi opporranno una resistenza in ogni urna, ma rovesciare i pronostici che danno vincente il sì risulterebbe un miracolo. Il padre-oratore ha infiammato i sostenitori dicendo che col voto occorre “Far tremare i cuori di coloro che hanno contaminato quella città 99 anni fa”. Il riferimento è parzialmente criptico. Andando al primo conflitto mondiale l’oggetto è straniero: quella Germania e Olanda che, di recente hanno impedito ai ministri di Ankara d’incontrare i connazionali che sono elettori al referendum di domenica prossima. L’immensa platea ha risposto a tono: “Erdoğan è il nostro eroe, ha risollevato la nazione e il popolo”. “Le trasformazioni in corso rendono il Paese più forte”. “Con un governo forte saremo più tutelati e sicuri contro il terrorismo”. Per il sultano una magnifica conferma che la linea securitaria trova conforto e sostegno fra la gente. E visto che l’offensiva paga, e forse anche le offese, il presidente ha lanciato un rush finale scoppiettante. Ieri ha rivolto un’esplicita accusa a Kılıçdaroğlu, affermando che nella notte del golpe fallito il leader repubblicano avesse patteggiato coi gülenisti una fuga per abbandonare Istanbul sotto attacco del manipolo putschista.

Dal quartier generale del Chp non sono giunte reazioni esasperate. Avranno pensato che di fronte a sondaggi che vedono in ripresa il fronte del no, è meglio non cedere alle provocazioni per non interrompere il trend con una rissa anche solo verbale. L’entourage erdoğaniano non aspetta altro. Oggi risponde con un’intervista esclusiva ad Al Jazeera uno degli esponenti del no, Sezgin Tanrikulu. Sostiene che il processo riformatore è nato male: Le costituzioni devono avere la condivisione di cittadini e forze politiche, noi andiamo al referendum in un clima di polarizzazione, non di compromesso”. “Anche il Chp vede certi difetti del sistema parlamentare, ma le proposte dell’Akp riescono ad acuire i problemi anziché risolverli. Mentre si abolisce il sistema parlamentare, si va a introdurre un modello maniacale senza precedenti. Il sistema parlamentare non è qualcosa d’intoccabile e sacro, però le questioni che la Turchia attraversa non dipendono da esso, ma dal percorso politico che il Paese ha intrapreso. Ad esempio c’è un problema di rappresentanza con una soglia elettorale al 10% che entrò in vigore dopo il golpe del 1980. Questo difetto è stato ampiamente utilizzato dal partito di governo a discapito di rappresentanze minori”. E aggiunge: “Nella scadenza elettorale l’Akp sta riversando la ricerca del consenso per la propria linea senza affrontare alcune contraddizioni della fase attuale. Punta a un sì incondizionato, nonostante il conflitto coi kurdi sia tornato a infiammare il Paese; nonostante siano riapparsi palesi orientamenti antidemocratici degli apparati statali. Anche i contrasti con Germania e Olanda appartengono a polemiche fra destre politiche che si alimentano a vicenda, sperando di ottenerne vantaggi nell’urna”. Intanto s’è avviata la consultazioni dei turchi all’estero. Su tre milioni ha votato meno della metà, i dati ufficiosi ne contano poco più di 1,2 milioni.  

lunedì 10 aprile 2017

L’infinita domenica delle salme

La domenica delle salme celebrata in Egitto, scegliendo data e simboli precisi: un giorno speciale per il mondo cristiano che agita le palme della pace e luoghi di culto di una comunità religiosa di frontiera qual è quella copta, offrono conferme dei nuovi scenari battuti dall’Isis. Se ne discute da tempo: strappare territori occupati per due anni dallo Stato Islamico, produce ritorsioni e aperture di nuovi fronti di guerra. E’ un copione che somiglia ad altre fasi storiche, sottolineano vari analisti, quello attuato agli inizi del terzo millennio dalla struttura madre del terrorismo islamico, quel qaedismo che colpiva nei territori di suo interesse (Medio Oriente) e in casa del nemico occidentale. Tutto ciò riaccade dall’inizio del 2015 con l’attentato alla redazione del Charlie Hebdo primo stadio dell’attacco portato al cuore della vita occidentale che ha avuto, e drammaticamente potrà avere, ulteriori episodi sanguinosi che ne destabilizzano la quotidianità. Ma la struttura del Daesh attacca e s’inserisce in ogni terreno fertile per poterne ricavare adesioni e ingigantirne disorientamento e paura. Dalla Siria, Iraq, Libia, aperti campi di battaglia di conflitti tuttora irrisolti e difficilmente risolvibili, viste le ingerenze e gli interessi dei colossi della geopolitica mondiale, s’aggiungono aree dove instabilità e malcontento risultano cronici e ingigantiti dalle pseudo soluzioni in corso.
Pensiamo all’Afghanistan dei governi fantoccio introdotti e sostenuti dagli Stati Uniti, e all’Egitto diviso fra il desiderio di cambiamento che potesse risollevare le condizioni di disagio e miseria di un’ampia fetta della popolazione e l’incertezza della soluzione del governo islamico presto affossata dal golpe militare di Sisi. Due situazioni che nascondono le grandi bugie dei rispettivi establishment propugnatori d’un processo “democratico” in corso con presunzione di sicurezza e stabilità. Falsità smentite dagli episodi di cronaca, imposti dagli oppositori armati, siano essi talebani o jihadisti locali che proseguono attacchi e attentati, oppure introdotti dal disegno dell’Isis d’inserirsi in ogni crepa dei regimi con cui l’Occidente continua a controllare certi Paesi. Il passo verso l’ennesima sicurezza di facciata annunciato dal presidente Sisi coi tre mesi di stato d’emergenza, che peraltro seguono misure specialissime già in atto dai mesi successivi alla sanguinosa repressione e persecuzione della Fratellanza Musulmana, è solo una sceneggiata. Proprio quel sangue e quella galera hanno fornito una prima manciata di adesioni al jihadismo locale, su cui il brand del Jihad firmato Isis ha potuto mettere le mani, com’è accaduto nelle situazioni di conflitto aperto. Probabilmente anche i più estremi teorizzatori della pratica di morte applicata alla politica, su ogni fronte, considerano il terrore un’arma con cui soggiogare l’avversario non il fine ultimo.

Sebbene la grande Storia, anche recente, abbia offerto smentite. Una su tutte: il nazismo. Il Daesh degli sgozzatori e dei kamikaze deflagratori, è parso appartenere a queste aberrazioni del pensiero distruttivo ammantato di finalità ideali o religiose. Trova, però, appiglio nelle mille contraddizioni del panorama geopolitico internazionale, un sistema che continua a fornire la materia prima per una guerra all’apparenza insensata. Assurda solo a occhi superficiali o colpevolmente complici oppure unilaterali nelle valutazioni, alla stregua dei combattenti della ‘guerra santa’ e dei loro mentori. Perché ciò che accade e continua a succedere attorno a noi, è una trita ripetizione di scelte inadeguate per un’esistenza condivisa fra sistemi economici, ceti sociali, etnìe, fedi. Le iniquità, le marginalizzazioni individuali e collettive rappresentano l’asse portante della collera con cui pezzi di mondo si scontrano. Le stesse religioni, che tanti soggetti e comunità riscoprono e indicano come via di comprensione e dialogo, al di là dei buoni uffici di chi in certe fasi come l’attuale le rappresenta, non sembrano poter incidere né sulle scelte del fondamentalismo e fanatismo offerte dalle fedi medesime o da chi si reputa un adeguato esegeta, né sulle linee strategiche di nazioni e culture ispirate da croci, mezzelune o altro. Anche questo fenomeno non è nuovo, l’umanità ha attraversato periodi bui con le guerre di religione. La fase che viviamo lega vuoti ideali, a certezze radicatissime basate su profitto, sopraffazione, egoismi che fomentano frustrazioni aggressive più che alternative risolutrici.