Evet
vince ma non libera Erdoğan dall’incubo di un immenso hayır che diventa un muro di ventitre milioni e mezzo di contrari,
il 48,67% del voto finale di un elettorato che ha raggiunto l’alta partecipazione
dell’86%. Così il margine fra la Turchia che approva riforma e quella che la
voleva respingere s’assottiglia a un milione duecentocinquantamila elettori, pochissimi
se si pensa alla prosopopea con cui il governo ha sostenuto il referendum e s’aspettava
una maggioranza schiacciante. E’ stata invece confermata la proiezione che,
nell’ultimo mese, dava il no in netta rimonta sul fronte del consenso, sia fra la
base nazionalista ribellatasi agli inciuci di Bahçeli, sia in taluni settori
dei fan dell’Akp. I kurdi poi hanno risposto all’unisono contro il presidente,
perché l’altra faccia del quesito referendario riguardava l’autoritarismo, che
nelle province del sud-est assume il contorno di spietata repressione, come
mostra la carcerazione preventiva di centinaia di attivisti dell’Hdp con in
testa i co-segretari Selahattin
Demirtaş e Figen Yüksekdağ, accusati di terrorismo.
A questo punto il referendum che ha polarizzato il Paese, passa per una
manciata di voti e già si parla di
brogli, tema che renderà accesissima la fase non solo di commento ma di
attuazione di una riforma così perentoria per la vita nazionale.
Il sì cede nelle città simbolo, a Istanbul e Ankara, dov’era
in vantaggio e ha visto spegnersi il primato ed essere superato da chi rifiuta
il presidente-padrone. Certo si tratta d’un divario dell’1% o poco più, ma è il
medesimo che il sì vanta sul territorio nazionale per un progetto che cambia il
modello della Repubblica e mette il Paese nelle mani di un solo uomo. Gli conferisce un
potere assoluto, più di quanto ne avessero il padre della Turchia novecentesca
Atatürk e più dello stesso sultano, che in fondo ammetteva la presenza del Gran
visir. Invece la modifica costituzionale azzera la figura di primo ministro,
introduce decreti presidenziali che possono scalzare leggi parlamentari,
designa un buon numero di giudici della Corte Suprema, ponendo potere
esecutivo, legislativo, giudiziario e ovviamente militare al super presidente.
Erdoğan vorrebbe restare in carica sino al 2029, guidando i festeggiamenti del
centenario della Turchia moderna (2023) e puntare a un ulteriore mandato, visto
il nuovo sistema glielo consente. Però il lasciapassare nel Paese che ha
plasmato a tal punto da farlo tornare al passato, potrebbe annebbiarsi con
questo successo appena accennato.
Nelle urne di Adana e Antalya il rifiuto è
pesante: il no vice col 59% e 58% a Izmir addirittura col 68%, per tacere di
Mardin, Dıyarbakır e altri centri refrattari a ogni mossa governativa. Prevedendo
un ampio consenso fra i concittadini, alla vigilia del voto Erdoğan parlava di
popolo che “cammina verso il futuro”.
Nella smania d’innovazione accentratrice, che ha fatto dire anche a
commentatori super partes come in Turchia i princìpi pluralisti e democratici
siano ormai a rischio, il presidente dovrebbe prendere atto che il voto referendario
ha rafforzato gli oppositori, molto più che lui stesso. Nell’aria c’è una
reazione oltre che a un piano autoritario, anche contro la sua persona. Se la
matematica non è un’opinione questa ha già organizzato una fronda fra gli
islamisti considerati reprobi, che nelle settimane scorse avevano rifiutato di
farsi vassalli del sultano. Non si tratta di gülenisti. Sono quegli uomini di
primo piano della politica nazionale e internazionale (due nomi per tutti Gül e
Davutoğlu) messisi da parte o estromessi dall’uomo che non vuole attorno né
avversari né compagni d’ideali. L’unico ideale inseguito è personalistico,
sebbene la platea e il consenso sembrano restringersi e gli applausi nei comizi
che saluteranno la vittoria dell’evet
non saranno così ottimistici.
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