Fa un certo effetto ascoltare Maḥamūd Ahmadinejad,
due volte presidente iraniano, poi caduto in disgrazia più che per i brogli
elettorali del giugno 2009, per dissidi col suo sponsor Khamenei nel corso della
seconda contestata amministrazione. Fa effetto vederlo davanti alle telecamere
della Rai, che a seconda dei casi accoglie o emargina personaggi. Quando l’uomo
era ai vertici della nazione, e avrebbe avuto senso intervistarlo, seppure sostenesse
posizioni di aperta conflittualità con l’Occidente, non godeva dell’attenzione
del più potente media italiano. Ora l’inviata Rai va a cercarlo e ne registra
svariate perplessità. La chiacchierata pur breve è controcorrente e, comunque,
interessante. Ahmadinejad era caduto in disgrazia nel corso del suo mandato per
il doppio peccato di aver brigato contro un certo clero, sostenendo le velleità
dei laici del partito Pasdaran - cui anche le organizzazioni Basij, da cui lui
proviene, si schieravano - e aver sostenuto il movimento religioso Hojatiye. Il primo attrito col tempo s’è
attenuato, i laici Guardiani della Rivoluzione, occupando attraverso bonyad direttamente controllate un bel
pezzo dell’economia (sebbene questa continui a soffrire per l’embargo
occidentale) non contrastano più, come stava accadendo nei primi anni del
Millennio, figure del clero per il ruolo presidenziale. Fra i due gruppi di
potere vige un compromesso, perciò come negli anni Novanta i contrasti sono
ricondotti alle posizioni socio-politiche riformiste e conservatrici. I
moderati dopo aver perso il padre nobile Rafsanjani, scomparso nel 2017, hanno
avuto negli otto anni di presidenza Rohani uno scarso impatto nelle evoluzioni
interne, nonostante le aspettative degli accordi sul nucleare.
L’altro peccatuccio di Ahmadinejad, affermare le teorie
mistiche Hojatiye, è venuto meno non solo per la scomparsa
sei mesi or sono del grande sostenitore di questa corrente, l’ayatollah Yazdi, che
fu suo padrino politico, e negli ultimi anni ha lanciato Ebrahim Raisi. A
smentire che nello stesso clero conservatore tutto sia inamidato, c’è stata l’accettazione
da dell’ayatollah Khamenei d’un nuovo pupillo di Yazdi, sia per la carica
presidenziale, sia di futura Guida Suprema. Insomma Raisi diventerà nuovo leader
iraniano per decisione presa dagli apparati più che dalle urne, desertificate prima
che dal timore dei contagi Covid che comunque corrono, dalla diffusa
disillusione verso ogni linea attualmente presente dentro e fuori il Majles. E
l’ineffabile Ahmadinejad, che quattro anni addietro provava a ricandidarsi ma
venne stoppato da Khamenei e dal Consiglio dei Guardiani? Stavolta non solo è
rimasto fermo per qualsivoglia passo politico, ma ha snobbato le urne. Sotto i
riflettori Rai annunciava il suo disimpegno elettorale, come fosse uno dei tanti
ragazzi intercettati da inviati stranieri e cronisti locali che riportavano il
comune sentire della cittadinanza: astensione. Eppure l’ex basij s’è tolto qualche
sassolino dalla scarpa, che un tempo da studente lanciava sull’effige del
presidente Carter, durante la famosa occupazione dei 444 giorni dell’ambasciata
Usa. Nel tragico 2009, beh non si dovevano arrestare tutti quei manifestanti né
tantomeno i suoi diretti antagonisti, Mussavi e Karrubi, dice oggi. Magari il
presidente-basij era consapevole degli ‘aiuti’ ricevuti col voto, ma la gestione
della repressione era roba d’altri e lui fu una semplice pedina. Come quando
venne scelto per il ruolo di duro, dopo gli otto anni di libere speranze impresse
da Khatami.