giovedì 17 giugno 2021

Hazara: genocidio, autodifesa, conflitto etnico

Che gli hazara afghani siano l’etnìa più colpita dal fondamentalismo islamico è da anni sotto gli occhi di chiunque segua e voglia capire dove sta andando il Paese del ‘Grande Gioco’ imperialista e dei mille e uno Signori della Guerra. A tal punto che negli ultimi tempi un buon numero di questi rifugiati in diversi angoli del mondo sta facendo rete e lancia un richiamo inequivocabile: è in atto un genocidio verso l’etnìa che in territorio afghano conta circa nove milioni di abitanti. Se si va indietro di alcuni secoli i testi storici parlano di una maggioranza di questa gente che vive concentrata in un’area nota come l’Hazarajat, a cavallo fra gli attuali Iran e Afghanistan. Se si cercano le origini, storici e antropologi dibattono contrastandosi. Una teoria fa degli hazara i discendenti dei mongoli di Gengis Khan, un’altra li identifica come popolo autoctono di origine uiguro-turca insediato nella regione di Bamiyan, quella dei famosi Buddha distrutti dai talebani prima della loro uscita da Kabul nel 2001. Mentre uno studio recente fra gruppi di hazara presenti in Pakistan riporta i loro cromosomi alla stirpe del famoso condottiero mongolo. Dna permettendo, lo spirito collettivo dell’attuale comunità è in gran parte rivolto ad altri mestieri più che all’arte della guerra, di cui invece subisce i colpi nelle situazioni più varie. Nei giorni scorsi un’ennesima strage ha investito una decina di lavoratori impegnati come sminatori con l’Ong britannica Halo Trust. La quale afferma di voler a ogni costo mantenere l’impegno di bonifica nell’area di Baghlan, ma occorrerà vedere se potrà farlo, poiché per l’ennesima volta l’attentato evidenzia l’impotenza dell’esercito locale sul fronte della sicurezza. 

 

Autori del raid assassino i miliziani dell’Isis Khorasan, attuali sterminatori del ceppo sciita, gli stessi che hanno freddato studentesse e studenti presso le scuole di Kabul, in diverse circostanze colpite con agguati sanguinosissimi. E poi autobomba nel quartiere di Dasht-e Barchi della capitale e kamikaze nelle moschee sciite. Una persecuzione a tutti gli effetti che secondo il tam tam messo in atto dai cittadini riparati all’estero (Canada, Australia, Ragno Unito, Svezia) è un tutt’uno col genocidio avviato a fine Ottocento dal leader pashtun Abdul Rahman, le cui stragi dimezzarono l’etnìa. Fra gli attuali hazara ‘spaesati’ una fetta ancor più consistente vive in Pakistan, paradossalmente proprio a Quetta, la patria dei talebani ortodossi, e nell’Iran orientale, nell’area della città santa di Mashhad, che almeno sul versante religioso dovrebbe proteggerli in quanto devoti alla fede sciita. Proprio questo credo, che il sunnismo intransigente addita come infedele, ridiventa l’alibi per i cruenti e reiterati spargimenti di sangue perpetuati. L’incognita che l’Afghanistan sta attraversando in questi mesi è focalizzata su quale governo s’insedierà dopo il ritiro delle truppe Nato, i contrasti fra il fallimentare esecutivo Ghani e i taliban sono così palesi che due anni di mediazioni non hanno avvicinato i due fronti d’un millimetro. L’incubo che attanaglia la popolazione è quello di ritrovarsi schiacciata fra la prova di forza, e di guerra, dell’Afghan National Forces Army e le milizie talebane. Una situazione peraltro conosciuta e pagata col sangue da anni. Dunque, non cambierà nulla? Per chi crepa per strada, no. E da quanto s’è visto negli ultimi tempi il conflitto sarebbe di facile appannaggio per i turbanti. Più intricata, seppure anche questa già vista, sarebbe una conflittualità ridivisa per etnìe. Simile, seppur non identica a quella che afflisse il Paese a inizi anni Novanta. Allora a scontrarsi erano Warlords che dietro avevano gruppi etnici e truppe di riferimento: leader pashtun contro tajiki, uzbeki, hazara. 

 

Proprio un odierno hazara, Ghani Alipur, noto come il ‘comandante spada’ ha strutturato gruppi di autodifesa nella provincia di Wardak e, con minore efficacia, nella zona ovest di Kabul, che ha continuato a essere tempestata da attentati. Un comportamento pragmatico riesce a vender cara la pelle davanti a nemici che si scontrano in campo aperto, ma poco o nulla può verso le bombe celate in automezzi, Ied e cinture esplosive. D’altro canto armarsi in un luogo di guerra infinita come l’Afghanistan, non appare un controsenso e la logica di Alipur sembra essere quella della difesa attiva. Ma la scelta propende per quello scontro fra bande che fu dei Signori della guerra, mentre una parte della società civile idealizza un Afghanistan che possa uscire dal vicolo cieco delle contrapposizioni etnico-religiose. Probabilmente questa è un’utopia, visto che ogni gruppo socio-politico, anche chi ha fallito seguendo il modello imposto dagli occidentali, ha chiaro come per sopravvivere occorra mostrare i muscoli, seguendo un mix di difesa-offesa. Soluzioni collaborative e pacificate all’orizzonte non se ne vedono, poiché ogni fazione ripropone visioni antiche oppure rilancia nuove supremazie a danno d’altri. E’ anche vero che certa geopolitica sparsa dappertutto, dunque non solo in Medio Oriente, fa della deterrenza una tattica utile a non far precipitare situazioni delicatissime. Al di là di ritrovarsi compressi fra i due vicini intriganti e ingombranti - Iran e Pakistan - che attuano ogni genere d’ingerenza sul fantasma statale afghano, gli hazara pensano a due percorsi: la via della solidarietà internazionale per evitare il genocidio, propugnata dagli elementi della diaspora; la difesa con ogni mezzo, praticata dai locali, d’una vita negata da nemici faziosi e dall’impossibilità di avere una comunità afghana interetnica e interreligiosa.


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