Che gli hazara afghani siano l’etnìa più colpita dal
fondamentalismo islamico è da anni sotto gli occhi di chiunque segua e voglia
capire dove sta andando il Paese del ‘Grande Gioco’ imperialista e dei mille e
uno Signori della Guerra. A tal punto che negli ultimi tempi un buon numero di questi
rifugiati in diversi angoli del mondo sta facendo rete e lancia un richiamo
inequivocabile: è in atto un genocidio verso l’etnìa che in territorio afghano
conta circa nove milioni di abitanti. Se si va indietro di alcuni secoli i
testi storici parlano di una maggioranza di questa gente che vive concentrata
in un’area nota come l’Hazarajat, a cavallo fra gli attuali Iran e Afghanistan.
Se si cercano le origini, storici e antropologi dibattono contrastandosi. Una
teoria fa degli hazara i discendenti dei mongoli di Gengis Khan, un’altra li
identifica come popolo autoctono di origine uiguro-turca insediato nella
regione di Bamiyan, quella dei famosi Buddha distrutti dai talebani prima della
loro uscita da Kabul nel 2001. Mentre uno studio recente fra gruppi di hazara
presenti in Pakistan riporta i loro cromosomi alla stirpe del famoso
condottiero mongolo. Dna permettendo, lo spirito collettivo dell’attuale comunità
è in gran parte rivolto ad altri mestieri più che all’arte della guerra, di cui
invece subisce i colpi nelle situazioni più varie. Nei giorni scorsi
un’ennesima strage ha investito una decina di lavoratori impegnati come sminatori
con l’Ong britannica Halo Trust. La
quale afferma di voler a ogni costo mantenere l’impegno di bonifica nell’area
di Baghlan, ma occorrerà vedere se potrà farlo, poiché per l’ennesima volta l’attentato
evidenzia l’impotenza dell’esercito locale sul fronte della sicurezza.
Autori del raid assassino i miliziani dell’Isis Khorasan, attuali
sterminatori del ceppo sciita, gli stessi che hanno freddato studentesse e
studenti presso le scuole di Kabul, in diverse circostanze colpite con agguati
sanguinosissimi. E poi autobomba nel quartiere di Dasht-e Barchi della capitale
e kamikaze nelle moschee sciite. Una persecuzione a tutti gli effetti che
secondo il tam tam messo in atto dai cittadini riparati all’estero (Canada,
Australia, Ragno Unito, Svezia) è un tutt’uno col genocidio avviato a fine Ottocento
dal leader pashtun Abdul Rahman, le cui stragi dimezzarono l’etnìa. Fra gli attuali
hazara ‘spaesati’ una fetta ancor più consistente vive in Pakistan,
paradossalmente proprio a Quetta, la patria dei talebani ortodossi, e nell’Iran
orientale, nell’area della città santa di Mashhad, che almeno sul versante
religioso dovrebbe proteggerli in quanto devoti alla fede sciita. Proprio
questo credo, che il sunnismo intransigente addita come infedele, ridiventa l’alibi
per i cruenti e reiterati spargimenti di sangue perpetuati. L’incognita che
l’Afghanistan sta attraversando in questi mesi è focalizzata su quale governo s’insedierà
dopo il ritiro delle truppe Nato, i contrasti fra il fallimentare esecutivo
Ghani e i taliban sono così palesi che due anni di mediazioni non hanno
avvicinato i due fronti d’un millimetro. L’incubo che attanaglia la popolazione
è quello di ritrovarsi schiacciata fra la prova di forza, e di guerra, dell’Afghan
National Forces Army e le milizie talebane. Una situazione peraltro conosciuta
e pagata col sangue da anni. Dunque, non cambierà nulla? Per chi crepa per
strada, no. E da quanto s’è visto negli ultimi tempi il conflitto sarebbe di
facile appannaggio per i turbanti. Più intricata, seppure anche questa già
vista, sarebbe una conflittualità ridivisa per etnìe. Simile, seppur non
identica a quella che afflisse il Paese a inizi anni Novanta. Allora a
scontrarsi erano Warlords che dietro avevano gruppi etnici e truppe di
riferimento: leader pashtun contro tajiki, uzbeki, hazara.
Proprio un odierno hazara, Ghani Alipur, noto come il ‘comandante
spada’ ha strutturato gruppi di autodifesa nella provincia di Wardak e, con
minore efficacia, nella zona ovest di Kabul, che ha continuato a essere
tempestata da attentati. Un comportamento pragmatico riesce a vender cara la
pelle davanti a nemici che si scontrano in campo aperto, ma poco o nulla può
verso le bombe celate in automezzi, Ied e cinture esplosive. D’altro canto armarsi
in un luogo di guerra infinita come l’Afghanistan, non appare un controsenso e la
logica di Alipur sembra essere quella della difesa attiva. Ma la scelta propende
per quello scontro fra bande che fu dei Signori della guerra, mentre una parte
della società civile idealizza un Afghanistan che possa uscire dal vicolo cieco
delle contrapposizioni etnico-religiose. Probabilmente questa è un’utopia,
visto che ogni gruppo socio-politico, anche chi ha fallito seguendo il modello
imposto dagli occidentali, ha chiaro come per sopravvivere occorra mostrare i
muscoli, seguendo un mix di difesa-offesa. Soluzioni collaborative e pacificate
all’orizzonte non se ne vedono, poiché ogni fazione ripropone visioni antiche
oppure rilancia nuove supremazie a danno d’altri. E’ anche vero che certa
geopolitica sparsa dappertutto, dunque non solo in Medio Oriente, fa della
deterrenza una tattica utile a non far precipitare situazioni delicatissime. Al
di là di ritrovarsi compressi fra i due vicini intriganti e ingombranti - Iran
e Pakistan - che attuano ogni genere d’ingerenza sul fantasma statale afghano,
gli hazara pensano a due percorsi: la via della solidarietà internazionale per
evitare il genocidio, propugnata dagli elementi della diaspora; la difesa con
ogni mezzo, praticata dai locali, d’una vita negata da nemici faziosi e
dall’impossibilità di avere una comunità afghana interetnica e interreligiosa.
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