martedì 15 giugno 2021

Egitto, Fratelli Musulmani dalla prigione alla forca

Mohamed Beltagy prima di entrare nel Parlamento egiziano, incarico che ha ricoperto dal 2005 al 2010, dunque durante l’ultima presidenza Mubarak, era un medico. Oltre alla professione, l’attenzione per questioni sociali l’aveva già spinto verso l’attivismo politico aderendo alla Fratellanza Musulmana. Da deputato attento alle questioni internazionali Beltagy nel maggio 2010 era a bordo della Mavi Marmara in rotta verso Gaza. Quella missione, organizzata dalla Confraternita turca İnsani Yardım Vakfı e denominata Freedom Flotilla, trasportava aiuti umanitari alla popolazione della Striscia posta sotto assedio e conseguente embargo da Israele. La nave subì l’arrembaggio dei reparti speciali di Tel Aviv che uccisero nove attivisti umanitari. Non è stata l’unica violenza osservata da vicino dal medico-deputato. Nel luglio 2013 dopo il colpo di mano militare, sostenuto anche da partiti laici, contro il presidente Mohamed Morsi, Beltagy già defraudato dei suoi beni posti sotto sequestro da un procuratore nominato dalle Forze Armate, vide morire Asmaa, sua figlia diciassettenne, che partecipava al sit-in di protesta davanti alla moschea Rabaa al-Adawiyya. La ragazza fu uccisa con colpi d’arma da fuoco che la colpirono al petto e alle spalle. Morì come centinaia di altri giovani e adulti, una strage passata sotto silenzio, di cui solo pochi media parlarono. Il crimine, perpetrato con l’uso di armi leggere, mise a tacere un numero spaventosamente alto di cairoti. La Brotherhood denunciò la morte di duemila persone, passate per le armi nella piazza e nelle vie circostanti, Human Rights Watch ne ha accertato un migliaio, ma le autorità impedirono ogni sopralluogo internazionale e usarono seppellire molti cadaveri in fosse comuni, bloccando ogni cerimonia funebre. 

 

Era in atto quello stato d’assedio di cui la capitale, e il Paese intero, non si libereranno più, col passaggio del feldmaresciallo Abdel Fattah Sisi da ministro della Difesa, qual era all’epoca della strage, a Presidente della Repubblica. Beltagy, come altri politici islamici non potè piangere sua figlia. Venne arrestato poco dopo dalle Forze della Sicurezza di Giza. Rimase in prigione fino alla sentenza che nell’aprile 2015 gli inflisse vent’anni di reclusione. In questi giorni la condanna è tramutata in pena capitale. Coivolge lui e altri esponenti del Partito della Libertà e Giustizia, tutti detenuti. Fra i più noti Osama Yassin, già ministro della Gioventù durante il governo Qandil, l’esecutivo che rimase in piedi per circa un anno prima del citato golpe bianco. Lo stesso Yassin è un medico, ma durante la rivolta del gennaio-febbraio 2011 era noto come “capo della sicurezza” fra la gioventù islamica che partecipava agli scontri di piazza Tahrir. Era vicino alle posizioni d’un altro leader forte della Fratellanza Khairat al Shater, il carismatico imprenditore in predicato a diventare presidente, che il partito mise da parte preferendogli Morsi. Al-Shater, come altre figure di spicco della Confraternita, venne condannato a morte nel 2015, una pena bloccata a favore dell’ergastolo. Verso gli attuali condannati - oltre a Beltagy e Yassin, anche Essam Sultan e Asfwat Hijazi sono stati colpiti dalla pena capitale - si potrebbe registrare la catena dei rinvii, quella sorta di “fine pena mai” che coinvolge nomi, loro malgrado, diventati noti, come lo specializzando all’università di Bologna Patrick Zaky. Mentre per lui le speranze di libertà non scompaiono, e sebbene di recente qualche detenuto sia stato rimesso in libertà, per i citati esponenti della Fratellanza, su cui oscilla lugubremente il cappio militare, sarebbe già un obiettivo minimo bloccarne l’esecuzione capitale.

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