L’ammainabandiera dell’occupazione si svolge a Camp Arena,
la base Nato di Herat, casa dei militari italiani, e per vent’anni di diversi
giornalisti nostrani ‘incorporati’. Il parà che oggi saluta la mesta discesa
degli stendardi (tricolore, stelle e strisce, e l’inventato simbolo del Resolute Support) che tre generazioni di
cittadini afghani - dunque non solo i taliban - hanno considerato bandiere di
guerra, da domani all’11 settembre prossimo volerà via assieme ai commilitoni.
Trascinandosi apparecchiature di difesa e offesa, quelle armi che hanno sempre rappresentato
la smaccata contraddizione di missioni cosiddette di pace. I primi cento in
divisa giunsero dalle caserme nostrane dal dicembre 2001, due mesi dall’avvio
dell’operazione Enduring Freedom.
L’ottobre successivo i reparti furono rafforzati con centinaia di specialisti
alpini, parà, bersaglieri, carabinieri per l’Isaf
Mission, e dal 2014 per il citato Resolute
Support. Cinquantamila nostri militari si sono alternati negli anni, con
una punta massima di quasi cinquemila effettivi, sempre e comunque diretti dal
comando statunitense. E cinquantatré bare di ritorno, più quella d'un suicida. Una missione di servizio
più che alla Nato alla politica estera americana, che con George W. Bush decise
l’invasione dell’Afghanistan. La mantenne durante i due mandati di Barack
Obama, raggiungendo il massimo delle truppe sul campo: 140.000 uomini. Proseguì
con Donald Trump, seppure con l’intenzione di sganciarsi da un pasticciaccio
geopolitico che ha prodotto esclusivamente danni. Non solo per la disfatta del
sedicente progetto di democratizzazione del Paese, una gigantesca balla venduta
a un’opinione pubblica che si è voluta, e si vuole, tenere disinformata sulla
reale situazione interna. I fatti hanno svelato la corruzione dei politici
promossi dall’Occidente - prima Hamid Karzai, quindi Ashraf Ghani -; i loro rapporti
coi vecchi Signori della guerra, reintrodotti nelle Istituzioni e nei governi;
il sostegno a un fondamentalismo non inferiore a quello dei talebani che si
volevano combattere.
Balle sulla diffusione di servizi scolastici, tuttora impossibili
per ampi strati di ragazze e ragazzi che vivono in province perennemente in
guerra. E sull’implemento della giustizia civile e penale (a lungo nostri parlamentari
si sono vantati di questo), mentre la giustizia era ed è impedita da magistrati
conniventi con boss locali, con guerrafondai, coi talebani stessi. Fino
all’ulteriore gigantesca bugia della riorganizzazione d’un esercito nazionale
che, pur inquadrando fino a 350.000 uomini, ne ha continuato a perdere migliaia
per la mancanza totale di prospettive socio-politiche d’uno Stato inesistente. Ai
denari gettati al vento: 2.200 miliardi di dollari da parte statunitense, dieci
miliardi sul versante italiano, s’aggiungono le inquietanti percentuali sulle
condizioni di vita: un tasso di povertà al 55% (nel 2001 era del 33%), su
quello di disoccupazione (circa il 10% della media mondiale inalterato
anch’esso, come la condizione dei diritti civili). Mentre la produzione
dell’oppio in diciott’anni è più che raddoppiata. Cifre ufficiali dell’Unama dichiarano
duecentocinquantamila vittime, ma altre voci provenienti da ambienti contigui
ricordano come i numeri passano essere sottostimati, alla stregua di quelli dei
grandi massacri interetnici della guerra fra i warlords nel quadriennio
1992-96. Ottantamila morti dichiarati, secondo associazioni afghane per la
giustizia come il Saajs l’ecatombe fu più ampia. La fredda contabilità che dal
2017 a oggi, in una fase di attenuazione del conflitto, ha visto aumentare
stragi e vittime civili. C’è poi la penosa questione dei questuanti d’uno stato
di protezione: cinquecento fra interpreti, tuttofare e propri familiari, al
servizio dei reparti militari italiani chiedono d’essere portati via perché
temono rappresaglie talebane. I turbanti dicono che se costoro si pentiranno
d’un passato compromesso dalla prossimità con le truppe d’occupazione non gli
sarà torto un capello. Nessuno si fida e la richiesta si fa pressante. Oltre ai
profughi Roma dovrà attendere anche l’arrivo dei “collaborazionisti”.
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