mercoledì 16 giugno 2021

Presidenziali in Iran, astensione e conservazione

L’elezione presidenziale numero diciotto dall’avvìo della Repubblica Islamica Iraniana può avere, anche prima dell’apertura delle operazioni di voto, un vincitore: l’astensionismo. Questa appare la tendenza che reporter in loco e analisti internazionali stanno offrendo da settimane, soprattutto dal giorno del giudizio espresso dal Consiglio dei Guardiani, il severo selezionatore dei candidati. Dei sette ammessi: Mohsen Rezai, Saeed Jalili, Ali Reza Zakani, Hossein Ghazizadeh, Mohsen Mehralizadeh, Abdolnasr Hemmati, Ebrahim Raisi è quest’ultimo il candidato forte. Già provato nell’elezione del 2017, dove ancora una volta un pezzo di popolo sostenne il moderato Rohani, per evitare una caduta nel conservatorismo che il chierico di Mashhad si porta dietro dall’epoca della sua formazione a Qom. Studiò con l’ayatollah Motahhari, uno dei più importanti discepoli di Khomeini, cofondatore del cosiddetto ‘clero combattente’ che tanta importanza ebbe nell’orientamento teologico della Rivoluzione Iraniana. I detrattori di Raisi, soprattutto i Mujahedin del Popolo riparati da decenni all’estero, ne sottolineano le nefandezze delle condanne a morte inferte ai propri commilitoni, all’epoca prigionieri politici nel Paese dopo i conflitti interni del biennio 1979-81. Raisi insieme ad altri tre membri fu nominato dal marja Ali Montazeri, responsabile della repressione, aveva 28 anni e si distinse per rigore e risolutezza. Le pene capitali comminate furono migliaia, sebbene è tuttora aperta la controversia sul numero delle vittime: duemilaottocento per ammissione del regime, trentamila secondo gli oppositori che non erano solo Mujahedin, ma Fedayn e aderenti al Tudeh. 

 

Dopo la morte di Khomeini, l’emarginazione di Montazeri a favore di Khamenei diventato Guida Suprema, sponsor clericale di Raisi divenne l’ayatollah Yadzi (recentemente scomparso) che lo volle procuratore a Teheran. Da quel momento sotto la potente ala dei principisti la carriera di Raisi è stata tutta in ascesa: nel decennio 2004-2014 ha ricoperto l’incarico di vice capo della Giustizia, divenne poi membro dell’Assemblea degli Esperti, nel 2016 Procuratore generale del Paese e dal 2019 Presidente della Corte Suprema. E’ tuttora il più accreditato a sostituire un malandato Khamenei, in più occasioni dato per spacciato, ma coriacemente attaccato al ruolo di Guida Suprema. Un incarico presidenziale del mullah della città più tradizionalista porrebbe qualche problema alla distensione con gli Stati Uniti, che da tempo l’additano fra le nove figure pubbliche iraniane responsabili  di violazione di diritti umani. Ma l’altalena della politica estera mondiale all’occorrenza volta pagina in fretta. Certo, anche lui dovrebbe smussare posizioni di un’intransigenza fuori dal tempo, come l’affermata, e mai smentita, segregazione sessuale femminile “la maggior parte delle donne lavora meglio in certe condizioni” disse pubblicamente. Comunque, egli stesso di fronte a un possibile successo, già dimezzato dalla prevista bassa affluenza, avrebbe storto il naso sulla rigida selezione dei candidati (seicento i nominativi) attuata dal Consiglio dei Guardiani. Un parterre striminzito e privo di reali avversari non può che ridimensionare l’elezione stessa e il vincitore. Però ormai è fatta. L’ala ultraconservatrice vuole riprendersi le redini ufficiali del Paese, sebbene i settori militare ed economico li tiene ben stretti e controllati col ‘partito dei Pasdaran’. Che alle elezioni presentano un loro uomo potente ma non carismatico, Mohsen Rezai, mentre quattro anni fa schieravano il sindaco di Teheran Qalibaf, ora non utilizzato. Eppure più che esporsi direttamente con una carica visibilissima, i Pasdaran hanno impedito l’ascesa di moderati navigati e di spessore come Larjani e di para riformisti come Zarif. 

 

Quest’ultimo è stato bruciato dalla rivelazione, compiuta dall’agenzia Fars, su dichiarazioni anti Soleimani, che di per sé è una bestemmia assoluta, visto che dopo l’assassinio il generale della Forza Al-Qods più che martire è diventato un santo (cfr. https://enricocampofreda.blogspot.com/2021/04/iran-le-verita-strappate-zarif.html). In tal modo il cerchio s’è chiuso attorno a figure minime, con l’unica eccezione del tecnocrate Hemmati, che è economista e professore e pure brillante nell’eloquio. Non teme le missioni impossibili, ha guidato la Banca Centrale, organismo esposto ai marosi dell’inflazione che da anni affligge una nazione  dove anche la spesa minuta nei bazar sta diventando una piaga purulenta. Però la svalutazione del rial, da anni in caduta libera, non pone in buona luce l’uomo d’apparato. Lui, e altri esponenti del regime, punteranno l’indice sull’embargo statunitense, dichiarando peraltro una verità inconfutabile. Negli anni della stessa presunta ‘distensione’ sul nucleare per gli accordi raggiunti, l’embargo è stato responsabile d’una forma subdola di ostacolo finanziario. Impediva o limitava le transazioni, da quelle delle grandi aziende alle stesse attività minute d’un turismo brevemente rilanciato prima del gelo creato dal Covid 19. Accanto all’inflazione anche la pandemia ha colpito duro, per numero di vittime (il più copioso del Medio Oriente), per difficoltà di ottenere vaccini e inocularli (le cifre ufficiali sono ferme al 5% di popolazione) e i problemi sedimentano. Tanta gente eviterà il seggio anche per evitare i contagi, seppure il contagio più temuto dai vertici dell’establishment sia stato contenuto proprio con questa scelta limitata e scontata, volta a conservare un futuro  direzionandolo al passato.

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