C’è un altro 14 maggio elettorale oltre a quello turco. L’ha raggiunto, a seguito d’una sentenza della Corte Suprema, il premier pakistano defenestrato, quell’Imran Khan da un anno in lotta per tornare alle urne. E al potere. Voleva consultazioni nazionali, bloccate al 2024, ha strappato quelle delle province del Punjab e Khyber Pakhtunkhawa, governate dal suo partito che da qualche tempo aveva sciolto i Consigli assembleari. Dunque si voterà il mese prossimo, non in autunno come auspicavano gli avversari della Lega Musulana-N. Il Punjab pakistano, coi suoi 110 milioni di abitanti (al 98% islamici, poi si contano due milioni di cristiani, 200.000 hindu, 158.000 ahmadiyya) rappresenta di per sé la metà della nazione, e questo voto è molto più d’una cartina al tornasole per le sorti politiche future. Emarginato, perseguitato (tale è l’immagine che ne danno i fedelissimi), ferito in un attentato Khan si riprende quella centralità messa in dubbio fino a qualche settimana fa quando, assediato dalla polizia nella sua lussuosa villa di Lahore, ha rischiato l’arresto per aver ‘attentato alla sicurezza nazionale’. Contro l’attuale esecutivo rilanciava le marce di protesta già messe in strada nei mesi scorsi. Una gran fetta di popolo sta continuando a prestargli sostegno, opponendosi come uno scudo umano alle forze dell’ordine che lo braccavano. Il governo Sharif ha desistito dallo scontro aperto e ora sulla questione delle elezioni locali la magistratura gli ha dato ragione. Così il partito di Khan, Pakistan Tehreek-e-Insaf, pregusta un copioso successo. Di nemici l’uomo ex (ex campione sportivo, ex seduttore, ex premier) se n’è fatti parecchi dal fulgido 2018, l’anno della salita alla guida del Paese. Uno in particolare, il potentissimo generale Bajwa, come nei classici manuali della vischiosità politica gli era fortemente amico. A tal punto che Khan premier si spese per un proseguimento dell’incarico al vertice dell’esercito, prolungandone per un anno la carriera destinata al pensionamento. Quell’anno, il 2021, è diventato un boomerang perché fra i due sono nati e si sono ingigantiti dissapori per ragioni di corruzione, pane quotidiano nello strapotere della lobby militare locale, e anche del sistema partitico pakistano. Le Forze Armate avevano visto di buon occhio il populismo con cui il Pti di Khan irrompeva sulla scena accusando i partiti-clan di Bhutto e Sharif come dispensatori di tangenti, favori, parassitismi d’ogni sorta.
I militari lo sostennero prima d’entrarci rotta di collisione. Gli attuali generali ai vertice della casta, si son tenuti fuori da contrasti e accuse fra Khan e Bajwa, ma nominati come sono stati dal governo in carica non tifano per l’ex premier. Lui ha chiaro d’aver perso la protezione delle stellette e nella campagna elettorale per il Punjab che parte in queste ore, palesa intenzioni belliciste verso la lobby. Dice che il Pakistan deve chiudere l’epoca del sovradimensionato peso dei militari nella vita politica interna, da questo momento il Pti si batterà per una nuova governance perché quel che serve al Paese è un sistema basato sullo stato di diritto. Khan riconosce ai militari un ruolo storico, ma ritiene che serva un equilibrio fra le parti, il ceto politico non può più stare sotto tutela. Afferma che del percorso riformatore s’avvantaggerà la popolazione soffocata da un’economia fortemente deficitaria. Se fino a due anni addietro il capro espiatorio era la pandemia, l’assenza di ripresa è dovuta alla mancanza d’investimenti stranieri. Che non arrivano per due motivi lampanti: l’insicurezza politica, dovuta a una troppo lunga fase di disponibilità del Paese alla cosiddetta ‘lotta al terrore’ capace d’incrementare jihadismo interno e di confine, e l’assenza d’uno stato di diritto nell’ordinamento giuridico. Il Pakistan risulta poco attrattivo per capitali che finiscono in altre aree asiatiche, tuttora le finanze nazionali continuano a venir foraggiate quasi unicamente dalle rimesse dei milioni di migranti. Si deve voltar pagina: la manodopera interna può essere un punto d’appoggio per incrementare l’esportazione se solo si potesse contare su investimenti produttivi. Questi vanno cercati, smarcandosi in politica estera dall’alleanza statunitense. Per Khan occorre imparare dall’India che commercia indifferentemente con gli Usa e la Cina, mentre ottiene idrocarburi a prezzi convenienti da Mosca, insomma la sua proposta è stare fuori da qualsiasi blocco. Gli basterà il sostegno popolare o, per riequilibrare la perduta benevolenza militare, dovrà cercare i buoni uffici dell’altro Convitato di pietra di Islamabad: l’Inter-Service Intelligence?
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