giovedì 16 febbraio 2017

Il referendum che conquista l’anima turca

L’aria che tira in Turchia va oltre quanto testimoniano i non molti giornalisti e militanti d’opposizione rimasti fuori di galera. Dopo l’approvazione parlamentare del presidenzialismo, che non riesce a mascherare il palese autoritarismo dovuto al controllo d’ogni potere (legislativo, esecutivo, giudiziario) da parte del Capo di Stato, il partito di governo attende con una certa apprensione la legittimazione democratica del voto popolare. Il referendum è fissato per il prossimo 16 aprile, molti pronostici danno in vantaggio l’assenso semplicemente sommando il voto degli elettori dell’Akp e, se non di tutto, almeno d’una parte dei nazionalisti del Mhp, che si sono prestati a sostenere i 18 emendamenti costituzionali. Più della lotta politica interna sono lo scontro armato col Pkk e la repressione delle popolazioni kurde del sud-est con centinaia e centinaia di vittime ad agitare gli animi, quindi gli attentati destabilizzanti condotti da una fazione dissidente della guerriglia kurdi (Falconi della libertà) e dall’Isis che punisce le ultime scelte di Erdoğan spargendo sangue di civili. Per tranquillizzare una nazione ampiamente polarizzata il presidente ha suggerito di non infiammare la campagna referendaria. Lui stesso, incredibile a dirsi, sta tenendo un basso profilo per cercare di recuperare anche il voto dei concittadini islamici traumatizzati dalla lotta fratricida contro i gülenisti che ha prodotto migliaia di arresti, decine di migliaia di licenziamenti e dismissioni fra dipendenti pubblici dei più svariati settori: amministrazione statale e locale, scuole, polizia, uffici giudiziari. Per perfezionare ciò che gli avversari definiscono un golpe istituzionale Erdoğan ha bisogno d’un clima non arroventato, che leghi e colleghi tutti i turchi che vogliono difendere patria e sicurezza, lavoro e affari, tradizione e innovazione.
Se son veri i sondaggi che rivelano come il 70% dei cittadini sia d’accordo a tenere in galera i deputati d’opposizione del Partito democratico del popolo (Demirtaş ha inoltrato richiesta di liberazione ma non ha ricevuto risposta), il referendum potrebbe diventare un plebiscito favorevole a questo genere di presidenzialismo autoritario. Eppure i fantasmi di una bocciatura delle urne vagano fra le fila di deputati fidatissimi. Così Ozam Erden, onorevole dell’Akp del distretto di Manisa, mentre interveniva a Soma (la località dove nel 2014 avvenne il disastro minerario con 301 morti e imputazioni per gravi inadempienze sulla sicurezza per Alp Gurkan, imprenditore e finanziatore del partito erdoğaniano), ha messo sul piatto paure e desideri più che personali di settori del partito-regime. E ha dichiarato che un’eventuale bocciatura del referendum porterebbe diritti a uno scontro aperto, una sorta di guerra civile. La cosa non è piaciuta ai vertici dell’Akp che hanno immediatamente censurato il collega. Il premier Yıldırım ha telefonato al responsabile della provincia per far dimettere dall’incarico quest’uomo d’apparato che dice quel che pensano molti paladini delle maniere forti e spicce. Eppure era stato proprio Yıldırım, premier che a breve non sarà più premier perché le modifiche costituzionali aboliscono quest’incarico, a infiammare un po’ gli animi in un intervento pubblico. “Chi s’oppone al referendum è di fatto un terrorista” aveva detto, un punto di partenza per stimolare Erden nel suo desiderio di guerra civile. Il resto lo fanno il clima d’accerchiamento, la paura di nemici interni ed esterni, che in effetti esistono, ma se capaci di golpe, come i goffi reparti di luglio, è tutto da verificare. 

Nel frattempo da mesi va di scena, quello che anche i repubblicani più morbidi definiscono un contro colpo che impaurisce anche il cittadino meno politicizzato e lo disorienta sui comportamenti da tenere. Chi vive anche nella cosmopolita Istanbul riferisce un diffondersi dell’anonimato, torna il gioco del silenzio e delle parole pronunciate a mezza bocca, come durante i regimi militari che tanti attivisti marxisti e anche islamisti hanno conosciuto a loro spese, venendo perseguitati, incarcerati, torturati, uccisi. Altri tempi ma metodi simili, soprattutto per la gente comune non implicata in appartenenze partitiche. Eppure nell’impatto ideologico che ha distinto l’attuale governo per l’azzeramento di tutte o quasi le voci libere del campo mediatico, con persecuzioni a 360°, l’ultima coinvolge l’editorialista Kadri Gürsel  accusato in contemporanea d’essere sostenitore dei fethüllaçi e del Pkk (sic). Ma la martellante propaganda sulla cospirazione che “un Occidente ostile starebbe orchestrando contro la nazione turca” continua a fare proseliti, anche in ambienti laici. C’è l’idea che un fronte geopolitico voglia mettere all’angolo la Turchia del miracolo economico e ostacolarne anche la funzione guida nelle relazioni fra Oriente e Occidente. Cavalcando questo risentimento, che si ricollega all’umiliazione della caduta dell’Impero Ottomano e alle stesse magnifiche sorti e progressive della nazione kemalista, Erdoğan rilancia la sfida che fu di Atatürk, e infatti punta a festeggiare in sella il centenario del 2023. Sebbene per applicare tale disegno dovrà negoziare con un forte giocatore in Medio Oriente che è l’Iran e con la supervisione di Mosca su tutta l’area, la mossa nostalgica può portargli nell’urna ulteriori consensi kemalisti. A quel punto l’investitura popolare al suo progetto di dominio su gente e cose sarà completa.

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