Fra assalti vincenti, ritirate tattiche, accordi in corso, vecchi
piani e nuovi affari, i talebani restano al centro della politica afghana. Recenti
episodi di cronaca riguardano la provincia meridionale di Helmand i cui 14
distretti sono in totale subbuglio. Sei risultano controllati dai turbanti,
altri sette sembrano destinati a cadere nelle loro mani, minacciati come sono
da ogni tipo di agguato. Nelle ultime settimane ne hanno attuati taluni a
sorpresa contro postazioni dell’esercito, introducendosi dentro siti
pattugliati tramite tunnel scavati sotto il terreno. Conseguenze non tragiche,
con conflitti a fuoco caratterizzati più da ferimenti che da uccisioni, però i
dati dell’anno che si è chiuso mostrano un ulteriore aumento delle perdite
dell’Afghan National Security Forces, le truppe che da anni gli Stati Uniti
assemblano e addestrano per la sicurezza d’un territorio che risulta sempre più
insicuro. Nel 2016 i soldati di Kabul morti sfiorano quota settemila, con una
crescita di duemila rispetto dell’anno precedente. Il premier Abdullah, che giorni
addietro è stato scortato per far visita e sollevare il morale delle truppe in
alcuni distretti contesi del sud-ovest, fra i maggiori c’è Lashkar Gah, ha
dichiarato che l’esercito controlla il 57% del territorio nazionale. Ciò
significa che il restante 43% è in mano a quei nemici che lui stesso spera
diventeranno amici o perlomeno alleati.
Percentuali benevoli o contestabili a parte è da un anno e
mezzo che fra Talib e amministrazione
Ghani va in scena il copione del conflitto e delle trattative senza che una
delle due strade prevalga sull’altra. Si ha quasi la sensazione che nessuno
voglia forzare più di tanto, anche perché il governo cerca un accordo non
disonorevole per sé, i talebani pensano di riuscire a prevalere con la forza e
continuano a sommare, villaggio dopo villaggio, la supremazia su un numero
crescente di distretti. In effetti senza i raid aerei e gli attacchi coi droni
condotti dagli statunitensi le milizie talebane potrebbero essere nuovamente a
Kabul. Solo grazie a questi alleggerimenti e a controffensive attuate da
marines e contractors che vestono le uniformi Nato, la coppia Ghani-Abdullah
prosegue la pantomima di un regime con tanto di ufficialità internazionale. La
nuova amministrazione della Casa Bianca non ha fatto giungere segnali, presa
com’è da frizioni ideologiche con un’eco già dirompente. Ma se l’islamofobia
che caratterizza l’intero staff trumpiano continuerà a essere uno degli assi
portanti di quella politica, forse le mosse di avvicinamento verso i turbanti
che la diarchia afghana cerca per rendere praticabili non troveranno più
l’appoggio di Washington. Certo, non accordarsi vorrà dire proseguire il
conflitto e il dissanguamento conseguente, in effetti la via fondamentalista ha
molte fisionomie e non solo barbute: l’ultima ha trovato il ciuffo biondo del
presidente-tycoon.
Eppure c’è un oppure. Il suo proporsi in maniera dirompente sulla
scena internazionale, proprio coi divieti d’ingresso negli States ai musulmani
di varie nazioni, non ha riguardato quei luoghi dove i business di Trump e di
suoi amici hanno agganci. Cosicché la linea americana in Afghanistan, che è
geostrategica e militare con la creazione delle nove basi aeree, di
sfruttamento di taluni minerali del sottosuolo per produzioni di alta
tecnologia, può ritrovare collaborazione proprio con la galassia talebana.
Venti anni fa, prima dello stesso intervento militare dell’Enduring Freedom, gli affari avevano avvicinato Casa Bianca e lobby
petrolifera statunitense al fondamentalismo politico afghano, e i talebani
risultavano interlocutori più solidi di certi signori della guerra come
Massoud, che pure controllava un pezzo della nazione. E’ la storia di Unocal (azienda californiana, unitasi
alla Chevron evoluzione della Standard Oil del west, una delle
potentissime Sette Sorelle) che sotto la presidenza Clinton e per un tratto
dell’amministrazione di Bush junior, nonostante l’invasione e la guerra,
patteggiavano affari coi Talib. Se li portarono anche in casa, a Sugar Land in
Texas, una foto di gruppo del 2005 li ritrae in amichevole conciliabolo. Si
discuteva dell’attuazione del progetto Tapi, il gasdotto che per 1800 km
avrebbe dovuto portare il gas turkmeno nella bisognosa India in corsa per
l’industrializzazione.
Il gasdotto, finanziato con 10 miliardi di dollari da alcune “sorelle”
come Chevron, ExxonMobil, Shell, British Petroleum, ha un tratto (773 km) che dovrebbe
correre in territorio afghano, scendendo da nord su Herat, puntando su
Kandahar. Da lì ancora più a sud, traversando il confine pakistano per giungere
a Quetta. Il piano, ripreso nel 2010 con una firma fra i quattro Stati
coinvolti, rappresenta tuttora uno dei grandi programmi energetici globali che
impegna le strategie di quelle riserve poste in correlazione con la geopolitica
(altri progetti sono il Nord Stream, il bacino di Levante nel Mediterraneo, due
piani, anzi tre, che riguardano la Turchia: il cosiddetto Corridoio sud, il
Turkish Stream, il passaggio dal Turkmenistan attraverso Azerbaijan e Georgia).
In tutte gli Stati Uniti cercano, direttamente o meno, di porre lo zampino,
perché in un riaperto confronto mondiale lo strumento energetico, che è uno dei
punti forti della Russia putiniana, conterà parecchio. Avere governi ufficiali
e poteri reali a sostegno dei propositi in questione è uno dei passi
irrinunciabili che la politica estera deve trovare soprattutto quando si tratta
di colossi e potenze. In tal senso il trumpismo potrà continuare a riservare
sorprese fra l’opinione pubblica, potrà praticare la politica dei due binari
fra quel che fa nei confini blindati d’Oltreoceano e quanto realizza in giro
per il mondo dove vuol conservare una supremazia di sicurezza e di mercato.
Ovviamente rivolte verso se stessa. In tal senso l’America First non verrà
smentita, ma non lo era neppure coi mister Clinton e mister Bush.
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