Mentre s'avvicina l’atto terzo dei colloqui fra le delegazioni
americana e talebana, previsto per il 25 febbraio sempre a Doha, nei giorni
scorsi un comunicato del palazzo presidenziale di Kabul notificava la visita
del gran cerimoniere di quegli incontri con Ashraf Ghani. Per lenire la
solitudine presidenziale mister Khalilzad ha condotto con sé un codazzo di
politici, giovani, studenti, membri della società civile, rappresentanti di non
meglio identificati settori privati afghani. Un parterre itinerante ma non dialogante
con gli americani. Il mediatore evidenzia come il processo di pace non sta
finalizzando gli interessi di un solo Paese o di una sua parte etnica, cerca di
appagare gli interessi di ciascuna componente presente nella regione. Il
riferimento va esplicitamente al Pakistan, da sempre convitato di pietra di ciò
che accade oltre i suoi confini occidentali. Ancora una volta a quel tavolo mancherà
l’attuale governo afghano, tenuto fuori per volere talebano e non reclamato
dagli statunitensi, tantoché non si sa cosa accadrà alle presidenziali del
prossimo luglio, difese dall’uscente Ghani e osteggiate dai turbanti,
disponibili all’ipotesi d’un governo ad interim. E disposti a parlarne con gli
occupanti occidentali, non coi loro servitori locali. Bisogna ricordare che le
parti a confronto si son date un tempo massimo di 18 mesi per sottoscrivere l’accordo.
Otto sono già trascorsi.
Ora si riprende dai princìpi di non ritorno. Sul fronte
talebano in testa c’è il ritiro dell’esercito occupante. Che riguarda certo le
14.000 presenze della Nato (per metà statunitensi, per altra parte divise fra i
38 Paesi delle coalizione coi 900 militari italiani), ma può riguardare anche i
“contractors” che all’epoca del grande esodo del 2014 erano calcolati in 30.000
unità. Fra una chiacchiera e l’altra i funzionari Usa hanno detto che per
ragioni di sicurezza di ambasciate e altro, almeno mille marines armati di
tutto punto, dovranno comunque restare. Resta anche l’incognita delle basi
aeree cui il Pentagono non rinuncia e che non saranno vuote. E allora? Allora
tutto si patteggia e si mercanteggia. In fondo la “liberazione” del Paese ha
prezzi da pagare e cifre da riscuotere e una volta saliti al rango d’interlocutori
primari i taliban trattano sulle contropartite. Finora la rete di analisti
locali ha individuato le seguenti: rimozione talebana dalla lista nera del
terrorismo mondiale, rilascio di prigionieri (se ne calcolano almeno 10.000),
apertura definitiva dell’ufficio di Doha, fine della velenosa propaganda contro
l’Emirato dell’Afghanistan. Altra richiesta cocente risulta una nuova
Costituzione poiché l’attuale, che i talebani considerano copiata da un modello
occidentale, non garantisce un sistema islamico indipendente. La nuova Carta
dovrebbe essere realizzata da religiosi, intellettuali, giuristi, studenti
coranici.
Da parte americana si chiedono garanzie per escludere spazi
territoriali a gruppi jihadisti come Qaeda e quelli attivi nella regione:
Lashkar, Taiba, il movimento islamico uzbeko e il bombarolo Islamic State
Khorasan Province, attivissimo negli attentati nella capitale per tutto il
2018, e comunque visto dai turbanti ortodossi come un indesiderato rivale. In
realtà la collaborazione fra Osama bin Laden e talebani, sulla base del passato
combattentistico del mullah Omar come mujaheddin antisovietico, è terminata da
tempo. Non solo per la scomparsa dei due leader, ma per differenti prospettive assunte
dai seguaci. Proprio l’invasione americana dell’Afghanistan e la cacciata degli
studenti coranici dal governo di Kabul ha rilanciato questo movimento che si
accredita della resistenza all’occupante e in 18 anni ha accresciuto
reclutamento e presenza sul territorio. I finanziamenti che bin Laden elargiva
grazie alle casse saudite col tempo non ha più allettato i talebani diventati
autosufficienti grazie a traffico di oppio, tasse riscosse nelle province
governate e dazi doganali nei trasferimenti di merci lungo le vallate che essi
controllano. Altro tema scottante e attinente alla sicurezza è cosa fare
dell’enorme (e grandemente inefficiente) apparato dell’esercito locale, cui per
un decennio sono stati destinati “aiuti” e attenzioni occidentali. Andrà
rilanciato? E le milizie talebane saranno disarmate o integreranno quella
struttura?
Bisognerà anche capire chi sottoscriverà gli accordi visto che,
come ricordavamo, una parte della politica ufficiale afghana è tagliata fuori
dai colloqui. Da parte sua Ghani sostiene che a breve ci sarà una Loya Jirga
delle donne, che converranno da 34 province. A suo dire ciò che serve per
consolidare il processo di pace sono azioni condotte da cittadini, non dalle élite.
Ma, al di là della boutade populistica, di quest’assise il presidente non può
garantire neppure la sicurezza, seppure in questa fase i taliban colloquianti
abbiano sospeso ogni azione militare. Però non è detto che chi dissente dalla
Shura di Quetta non possa farsi vivo a suon di bombe, e non parliamo solo dei jihadisti
dell’Iskp. La Loya Jirga che promette lo spiazzato presidente è, dunque, un
moto personale o un desiderio per rientrare in gioco. I suoi sponsor per ora
l’hanno ignorato. Mentre sul tavolo moscovita (c’è anche questo), accanto ad
alcuni potentati locali sempre attivi, è apparso l’immarcescibile Karzai che
sembra trovare udienza nei mediatori russi. Davanti a un’oggettiva debolezza
nelle trattative della questione di genere e dei diritti civili, i talebani hanno
proposto una propria bozza dei diritti affinché “venga garantita a tutta la cittadinanza l’accesso a educazione, lavoro,
salute”. Il tutto allargato alle donne, secondo i rigidi princìpi della
legge islamica. Forse i fondamentalisti potrebbero diventare un po’ più morbidi
barattando una maggiore flessibilità con una legge d’amnistia.
Infatti propongono un’immunità giudiziaria per il passato politico
e militare, a eccezione di vicende individuali con offese personali e, bontà
loro, anche criminali. Fra le richieste circolanti sui tavoli degli incontri,
menzionate da Khalilzad, ce ne sono alcune sostenute da politici si dice vicini
a Ghani che pongono clausole imprescindibili per il modello di Paese futuro: unità
e sovranità nazionali, integrità territoriale, un forte governo centrale e
fondamentali diritti dei cittadini. Ma gli attori del tavolo di Doha non pongono
questi temi al centro del dialogo, né s’interessano della libertà d’espressione
rivendicata da un gruppo di giornalisti e da componenti della società civile. A
far zoppicare le richieste, palesi o celate, dell’entourage di Ghani ci si
mettono proprio alcuni esperti della comunicazione che hanno detto, e scritto,
che il presidente ostracizzato dai talebani vorrebbe sedere a quel tavolo non
per ricercare una via d’uscita pacifica alla crisi, bensì per rilanciare se
stesso e il suo futuro politico che sembrano decisamente offuscati. Tratti
personalistici che, del resto, molti commentatori
occidentali attribuiscono a Trump, interessato a sostenere i colloqui per
rivenderne i risultati nella campagna presidenziale americana del 2020. Nella politica
globalizzata nessuno fa niente per niente e gli interessi risultano sempre
soggettivi.
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