Carezza la testa dei suoi ragazzi il primo
ministro turco Davutoğlu, recatosi con la consorte in visita al capezzale dei
quattro militari feriti in uno scontro a fuoco registrato due giorni fa ad Ağri,
la provincia che i kurdi chiamano Qerekose verso il confine iraniano. Nel
conflitto armato cinque militanti del Pkk sono fra le vittime. Secondo il
premier l’attacco “aveva come obiettivo
la Turchia democratica e le prossime elezioni”. Che il clima preelettorale
si fosse arroventato da giorni con gli attentati del gruppo marxista
combattente Dhkp-c, era apparso sotto gli occhi di tutti; che s’accendesse una
schermaglia con uso propagandistico e manipolatorio delle conseguenze sulla
sicurezza era un ulteriore passo atteso. Il partito della Giustizia e Sviluppo,
secondo parecchi osservatori, pone una nuova ipoteca sul risultato elettorale (per
mancanza di consistenza del fronte avversario) ma rischia di subire una
flessione delle percentuali che per tredici anni si sono accresciute, una
consultazione via l’altra. Stavolta fare l’en plein dei seggi è particolarmente
importante perché, seduto sullo scranno che fu di Atatürk, Recep Tayyip Erdoğan
considera giunta l’ora della svolta presidenzialista della nazione.
Una questione formale e sostanziale, che
riguarda l’assetto di sistema da lui creato col partito-regime, sostenitore di
un’affaristica versione del capitalismo islamico, e un suo personalissimo
potere con cui s’incorona primo cittadino della popolosa nazione, come faceva
nel 1923 il giovane turco poi padre della patria, Mustafa Kemal. A quella
ricorrenza altamente simbolica punta l’attuale kemalista-islamico che, dopo gli
strabilianti successi da leader e premier, dalla più alta carica statale cerca di
accrescere ulteriormente il potere. Per farlo in sicurezza dovrebbe cercare
sponde, che sia il reduci kemalisti del Chp, sia gli ipernazionalisti del Mhp
non gli concedono, anzi lo contrastano con vigore. L’appoggio alternativo
rappresentato da un partito dato in crescita di percentuali come il filo kurdo
Hdp, può però venire meno per le tensioni che stanno accompagnando negli ultimi
due mesi le relazioni fra le parti, con la mancata risposta alle richieste di
Öcalan e con la riavviata conflittualità nell’est turco, come mostra l’epidosio
di Ağri, il più grave da un paio d’anni a questa parte.
Il co-leader di Hdp Demirtaş ha denunciato la
violenza dell’esercito turco, sostenendo
com’essa fosse pianificata a tavolino e puntasse allo spargimento indiscriminato
di sangue, visto che una delle vittime è un passante che non militava né nel
suo partito né nel Pkk. La voce che gli ha fatto eco è stata direttamente
quella presidenziale: “I soldati che
conducono operazioni di sicurezza contro il Pkk sono i nostri figli. I
militanti del Pkk lo sono altrettanto, non vogliamo che nel Paese continui
spargimento di sangue”. Alle mani tese seguono le bacchettate rivolte
all’Hdp che “con discorsi su democrazia e
diritti cerca di speculare su simili condotte e fatti”. La pace, secondo
Erdoğan, non si costruisce col killeraggio. Ma alla fine tutto resta uno
slogan. Dietro lo scontro di sabato ci potrebbe essere la volontà di recuperare
voti fra i nazionalisti duri e puri che odiano i kurdi e le problematiche che
sollevno. In tal senso la coperta islamista è corta: se si guadagnano simpatie
e consensi su quel fronte si compromette una possibile intesa – tutta da
verificare – d’un voto kurdo al progetto presidenzialista. Sul fronte
governativo c’è chi insinua (il deputato Akdoğan, impegnato nella delegazione
che segue il processo di pace) che rilanciare la violenza e l’uso delle armi è
una chiara forzatura al confronto. “Chi
gioca col fuoco perderà”. Frase sibillina. Rivolta solo al Pkk?
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