Se l’è portato via il diabete, non la resistenza antisovietica degli anni Ottanta o
la guerra civile dei Novanta. Lì erano gli altri a soccombere. Mohammad Fahim, tajiko e vicepresidente
afghano, muore a 57 anni lasciando un
vuoto nell’eredità dei nuclei politici dell’Alleanza del Nord ereditati dalla
sua guida politico-militare: Ahmed Massoud. Il tuttora venerato ‘leone del
Panshir’ finì i suoi giorni nel settembre 2001 in un attentato mascherato da
intervista nel quale esplose assieme alla telecamera dei cronisti-kamikaze.
Anche Fahim aveva subìto tentativi di assassinio a Jalalabad, poi a Kunduz (nei
contrasti con l’uzbeko Dostum) da amici e nemici di potere e prepotenze, ma ne
era uscito indenne. Diversamente dall’altra figura preminente dell’etnìa
pashtun delle province settentrionali del Paese, quel Burhanuddin Rabbani stroncato
anch’egli da un’esplosione mirata, avvenuta a un decennio esatto dall’uccisione
del suo braccio armato Massoud. Strana vicenda quella della leadership
dell’Alleanza del Nord, durante l’epoca dell’occupazione sovietica
dell’Afghanistan foraggiata dagli Stati Uniti, come lo furono i talebani.
Sicuramente i loro leader erano politici capaci e ottimi combattenti, alle due
doti Massoud aggiungeva carisma rivolto ai suoi uomini e agli stessi avversari
interni e internazionali.
Le congeniali affabilità e diplomazia, il sorriso furbesco e ammaliatore, diventavano armi efficaci come la capacità
guerrigliera nelle impervie e inespugnate aree in cui operava. Diverso
dall’austerità tradizionalista di Rabbani e dal ghigno feroce di Fahim. Quest’ultimo
seguì più la via di altri famigerati Signori della guerra (ma gli stessi
Massoud e Rabbani lo erano) puntando al controllo del territorio e imponendo
con la forza la sua volontà a concittadini-sudditi che sono aiutati, se ne accettano
volere e imposizioni, oppure stroncati dalle bande paramilitari. Queste non
sono mai venute meno anche con l’avvìo della seconda occupazione, quella Nato
definita Enduring Freedom. Fahim
aveva trovato nel secondo mandato di Hamid Karzai un formidabile trampolino di
lancio per la grande politica diventando, in coppia con un altro veterano della
guerra civile per bande, l’hazara Karim Khalili, il vicepresidente della Repubblica
Islamica. Entrambi erano stati vicini a Karzai dal precedente mandato, Fahim
come ministro della Difesa. Fu però la seconda ondata amministrativa, con la
quale il presidente ha cercato di allargare i personali rapporti verso la
costellazione dei warlords a collocare il tajiko al vertice delle istituzioni.
Nel suo passato c’erano studi islamici e, talune voci sostengono, l’appartenenza
all’Intelligence del governo filovietico, per quanto egli risulti uno dei più
illustri mujaheddin resistenti all’Armata Rossa.
Dopo il ritiro russo e la guerra civile propose al presidente deposto Najibullah una sorta di
custodia, ma questi rifiutò. Il leader comunista venne poi catturato e
orribilmente ucciso dai Taliban. Fahim vantava una ferrea preparazione militare
e capacità tattico-strategiche rodate nei decenni di studi teorici, battaglie
attive e confronto con figure di spicco dell’arte della guerra, tanto che sin
dall’inizio della missione statunitense in territorio afghano i comandi dei
‘berretti verdi’ presero contatti con lui (Massoud era appena scomparso). Negli
anni dell’Isaf si rapportarono a lui generali e politici della difesa
occidentali dal britannico Mc Coll all’americano Rumsfeld. Poi col nuovo corso
russo lo stesso Putin, per quanto sotto la veste politica. L’Afghanistan che si
prepara a eleggere un nuovo presidente lo celebra come un magnifico patriota,
indicendo tre giorni di lutto nazionale in cui si ferma ogni mossa della
macchina elettorale. La salma viene esposta e già giungono condoglianze ed epinici
che i seguaci gli preparano. I candidati Abdullah, Rassoul, Ghani, Arsala hanno
spedito messaggi alla famiglia e allo stesso Karzai. Fra le vere vittime dell’ultimo
travagliatissimo trentennio, questa salma è certamente nota. Ma l’uomo pubblico
Fahim non è stato certo privo della responsabilità dei troppi lutti distribuiti
a tanti afghani.
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