Mister Khalilzad non solo sa, ma ha ampiamente messo in conto che
mentre annuncia l’ormai certo ‘accordo di pace’ coi leader dei talebani
dialoganti, i miliziani della stessa famiglia proseguono gli attentati per far
salire le proprie quotazioni. La tre giorni di Kunduz-Balkh-Kabul (ieri sera un
camion-bomba nell’area della capitale definita Green Village ha dilaniato
sedici persone e ne ha ferite oltre un centinaio) non è frutto dello Stato
Islamico del Khorasan. E’ opera dei turbanti di Doha che vogliono molto di più
di quel che chiedono. Hanno compreso come l’accordo gli restituisce quanto
l’invasione dell’Enduring Freedom gli
aveva tolto, non solo quale presenza sugli scranni di Kabul, ma nei rapporti
internazionali. Dall’altra parte del tavolo i servitori del cinico Trump, che
pensa esclusivamente alle sue elezioni, gli confezionano un piano per l’elettorato:
anziché svenarsi nella polvere afghana, interessi e spese americane vengono
riconvertiti. E’ un giochino di prestigio, perché occhi e mani statunitensi
restano in loco pur se diminuiscono i numeri. Infatti già si conteggiano 5.000
marines in meno, ma di fatto questo percorso rilancia il lavoro che da tempo la
Cia pratica con la formazione di reparti antiterrorismo. Questi venivano
addestrati già nei primi anni d’occupazione del Paese, ne facevano parte
militari Nato di diversa nazionalità, fra cui nostri incursori del ‘Col
Moschin’.
Quindi gli addestratori di Langley si sono spesi
nell’organizzare milizie parallele di afghani le cui azioni andavano dal
semplice pattugliamento di massima sicurezza per i capi militari Nato presenti
in loco, a missioni segretissime nei
santuari del jihadismo e negli stessi territori della Fata, oltreché di
‘extraordinary rendition’. Da qualche tempo alcune di queste unità sono finite
sotto la direzione dell’Intelligence afghana, seppure gli addetti ai lavori
sostengano che simili interventi si sviluppano sempre e solo sotto la
supervisione della Cia. I taliban hanno continuato a colpire questi reparti,
disprezzandone gli appartenenti locali, fino a ucciderne alcuni responsabili di
primo piano. Un caso clamoroso accaduto circa un anno fa è stato l’eliminazione
del generale Raziq, freddato assieme al capo della sicurezza dell’Afghanistan
meridionale in un compound di Kandahar, dov’era in corso un incontro di
vertice. Il colpo fu realizzato da una guardia del corpo, un talebano
infiltratosi nientemeno che fra i super agenti dell’Intelligence locale. Raziq
era considerato, dalla popolazione che aveva subìto i suoi trattamenti, un
torturatore seriale. E per questo era odiato. Attualmente Trump sostiene la linea di diminuire la
presenza delle truppe, incrementando il lavoro dell’Intelligence, ma i vertici
militari insistono che occorre una precisa definizione di tempi e modi, non di
una parata di numeri.
Anche perché secondo alcuni analisti un ritiro rapido delle
truppe produrrà un collasso sulla sicurezza del Paese anche in quelle province,
e sono un terzo del Paese, teoricamente sotto il controllo delle forze governative.
Lo dimostra la crescente perdita quantitativa delle Afghan National Army,
incapace di tenere il terreno senza il supporto dei marines e dell’aviazione
americana. I taliban lo sanno e conseguire un accordo che li renda vincenti sui
tavoli diplomatici è gioia anche maggiore dell’ampliamento del controllo di
vallate e vie di comunicazione in ogni punto cardinale. Eppure una delle
posizioni statunitensi, che ovviamente propende per il ritiro, sostiene che attacchi
tramite droni, F35 e bombe supertecnologiche - come quella fatta esplodere
nell’aprile 2017 nell’area di Nangarhar - siano sufficienti a garantire gli
attuali interessi americani, appunto legati al mantenimento delle basi aeree
per l’offesa e la supervisione dall’alto. Ciò che accade a terra è affare
afghano, da risolvere fra coloro che devono “guidare” il Paese, nel modo
conosciuto in due decenni coi presidenti Karzai e Ghani oppure alla maniera dei
talebani, trasformati da nemici a interlocutori e mascherati con modi più
congeniali alla diplomazia dalle loro dichiarazioni di apertura a una società
dove ‘le donne possono studiare e occuparsi anche della vita civile’. Ma
l’unica attenzione che gli studenti coranici, buoni e cattivi che siano,
mostrano per la comunità sta nell’assegnarle un ruolo di vittima designata alle
proprie bombe, al proprio progetto di dominio, al proprio fanatismo mai messo
in discussione da nessun interlocutore a Doha e a Mosca.
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