martedì 3 settembre 2019

Afghanistan, continua la guerra alla gente


Mister Khalilzad non solo sa, ma ha ampiamente messo in conto che mentre annuncia l’ormai certo ‘accordo di pace’ coi leader dei talebani dialoganti, i miliziani della stessa famiglia proseguono gli attentati per far salire le proprie quotazioni. La tre giorni di Kunduz-Balkh-Kabul (ieri sera un camion-bomba nell’area della capitale definita Green Village ha dilaniato sedici persone e ne ha ferite oltre un centinaio) non è frutto dello Stato Islamico del Khorasan. E’ opera dei turbanti di Doha che vogliono molto di più di quel che chiedono. Hanno compreso come l’accordo gli restituisce quanto l’invasione dell’Enduring Freedom gli aveva tolto, non solo quale presenza sugli scranni di Kabul, ma nei rapporti internazionali. Dall’altra parte del tavolo i servitori del cinico Trump, che pensa esclusivamente alle sue elezioni, gli confezionano un piano per l’elettorato: anziché svenarsi nella polvere afghana, interessi e spese americane vengono riconvertiti. E’ un giochino di prestigio, perché occhi e mani statunitensi restano in loco pur se diminuiscono i numeri. Infatti già si conteggiano 5.000 marines in meno, ma di fatto questo percorso rilancia il lavoro che da tempo la Cia pratica con la formazione di reparti antiterrorismo. Questi venivano addestrati già nei primi anni d’occupazione del Paese, ne facevano parte militari Nato di diversa nazionalità, fra cui nostri incursori del ‘Col Moschin’.
Quindi gli addestratori di Langley si sono spesi nell’organizzare milizie parallele di afghani le cui azioni andavano dal semplice pattugliamento di massima sicurezza per i capi militari Nato presenti in loco, a missioni  segretissime nei santuari del jihadismo e negli stessi territori della Fata, oltreché di ‘extraordinary rendition’. Da qualche tempo alcune di queste unità sono finite sotto la direzione dell’Intelligence afghana, seppure gli addetti ai lavori sostengano che simili interventi si sviluppano sempre e solo sotto la supervisione della Cia. I taliban hanno continuato a colpire questi reparti, disprezzandone gli appartenenti locali, fino a ucciderne alcuni responsabili di primo piano. Un caso clamoroso accaduto circa un anno fa è stato l’eliminazione del generale Raziq, freddato assieme al capo della sicurezza dell’Afghanistan meridionale in un compound di Kandahar, dov’era in corso un incontro di vertice. Il colpo fu realizzato da una guardia del corpo, un talebano infiltratosi nientemeno che fra i super agenti dell’Intelligence locale. Raziq era considerato, dalla popolazione che aveva subìto i suoi trattamenti, un torturatore seriale. E per questo era odiato. Attualmente  Trump sostiene la linea di diminuire la presenza delle truppe, incrementando il lavoro dell’Intelligence, ma i vertici militari insistono che occorre una precisa definizione di tempi e modi, non di una parata di numeri.
Anche perché secondo alcuni analisti un ritiro rapido delle truppe produrrà un collasso sulla sicurezza del Paese anche in quelle province, e sono un terzo del Paese, teoricamente sotto il controllo delle forze governative. Lo dimostra la crescente perdita quantitativa delle Afghan National Army, incapace di tenere il terreno senza il supporto dei marines e dell’aviazione americana. I taliban lo sanno e conseguire un accordo che li renda vincenti sui tavoli diplomatici è gioia anche maggiore dell’ampliamento del controllo di vallate e vie di comunicazione in ogni punto cardinale. Eppure una delle posizioni statunitensi, che ovviamente propende per il ritiro, sostiene che attacchi tramite droni, F35 e bombe supertecnologiche - come quella fatta esplodere nell’aprile 2017 nell’area di Nangarhar - siano sufficienti a garantire gli attuali interessi americani, appunto legati al mantenimento delle basi aeree per l’offesa e la supervisione dall’alto. Ciò che accade a terra è affare afghano, da risolvere fra coloro che devono “guidare” il Paese, nel modo conosciuto in due decenni coi presidenti Karzai e Ghani oppure alla maniera dei talebani, trasformati da nemici a interlocutori e mascherati con modi più congeniali alla diplomazia dalle loro dichiarazioni di apertura a una società dove ‘le donne possono studiare e occuparsi anche della vita civile’. Ma l’unica attenzione che gli studenti coranici, buoni e cattivi che siano, mostrano per la comunità sta nell’assegnarle un ruolo di vittima designata alle proprie bombe, al proprio progetto di dominio, al proprio fanatismo mai messo in discussione da nessun interlocutore a Doha e a Mosca.

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