“Noi non apriamo i
nostri confini a duecento rifugiati,
come i Paesi occidentali” ha affermato ieri Erdoğan in un intervento fra le fila del
suo partito riunito ad Ankara. Il riferimento risuona come monito per il
presente e futuro, ma anche per le promesse che in passato i vicini europei non
hanno mantenuto. Promesse pecuniarie, innanzitutto. A metà del 2016, quando
l’emergenza migranti via terra e via mare angosciava il vecchio continente, la
cancelliera Merkel a nome dell’Unione Europea accordò 6 miliardi di euro per finanziare
i campi profughi che Ong turche organizzavano oltre i propri confini
sud-orientali. Della cifra fu promessa nell’immediato la metà, dopo tre anni
non solo mancano i restanti tre miliardi, ma pure una buona fetta di quelli che
dovevano giungere dopo alcuni mesi dall’accordo. Gran parte del flusso migratorio
di chi cercava riparo dallo spettro dello Stato Islamico erano siriani (circa 4
milioni risiedono attualmente in Turchia), ma fuggivano, e tuttora fuggono,
tanti afghani dai disastri della propria terra marchiati dai talebani e da quei
dissidenti che ora s’etichettano jihadisti del Khorasan. E poi iracheni,
pakistani e altri popoli. Le migrazioni create dai conflitti e dall’instabilità
economica sono la contraddizione con cui la politica globale s’interfaccia, e un
uomo di mondo come il presidente turco lo utilizza e lo pone come merce di
scambio.
Non che a Bruxelles abbiano fatto diversamente e meglio. Anzi. Così il
sultano, che ha ingoiato pesanti sconfitte interne alle amministrative di marzo
perdendo tutte le maggiori municipalità, con lo smacco ripetuto a giugno a
Istanbul, cerca di gestire la questione che produce criticità su vari fronti.
La linea dell’accoglienza scelta dall’Akp non ha pagato. Diversi analisti
sottolineano come proprio nella ripetuta elezione sul Bosforo la posizione
populista di İmamoğlu sui siriani che “devono tornare a casa loro” abbia
trovato seguito e voti fra tanti istanbulioti, compreso l’elettorato islamista di Fatih dove i siriani
accolti dalla Mezzaluna Rossa sfiorano il milione. Erdoğan sulla questione non
cambia posizione né faccia, ma chiede quel sostegno economico e politico che
l’Europa ha promesso e non ha dato. Peraltro nel discorso di ieri ha ricordato
come finora lo Stato turco abbia elargito più che incassato. Il denaro dedicato
ai siriani ha superato i 40 miliardi di dollari e poiché negli intenti
umanitari del governo di Ankara c’è il desiderio di offrire una condizione
dignitosa ai profughi che vivono nelle aree di confine, tuttora nelle tendopoli,
il suo progetto prevede di costruire e adibire per loro case in zone di
sicurezza. Per questo piano servirà accordarsi oltreché con Germania e Gran
Bretagna, anche con Stati Uniti e Russia.
Trattandosi di territori sensibili, dov’è ancora in atto
il conflitto, come a Idlib, e anche di aree che vedono la presenza organizzata
di forze quali le unità combattenti kurde del Rojava, il tutto risulta un tema
delicatissimo di geopolitica mondiale. Il presidente turco, diversamente da
omologhi occidentali, non mette la testa sotto la sabbia. Al contrario, le
sfide più complesse ne stimolano le mai celate manìe di grandezza. In aggiunta
il cinismo tipico dei giocatori d’azzardo lo conduce a rilanciare, tendendo la
mano e minacciando. Dice alla Ue di poter continuare a tenere tanti profughi,
ma vuole nuove condizioni per evitare il malcontento dei turchi più bisognosi
che si sentono trascurati del governo. Perciò occorrono denaro per le case
d’accoglienza e territori su cui costruirle. Lui suggerisce chi dovranno essere
i pagatori e in quali punti collocare il rimpatrio di milioni di siriani. L’Unione
Europea, vissuta per anni fra necessità ed emergenze, egoismi e spaccature
interne, viltà e indecisioni, non sembra attenta alla gravità della situazione.
Eppure una nuova rotta balcanica è già in atto da due anni, coi profughi sempre
delle stesse nazionalità, bloccati e parcheggiati prevalentemente in Bosnia, in
condizioni di abbandono ed emergenza. I
volontari e le Ong marginali che s’occupano di costoro spesso sono privi di
quei fondi che i politici di Bruxelles maneggiano con una cura rivolta solo ai
propri confini, tranne angosciarsi se vengono “violati”. La neo commissaria
europea e pupilla della Merkel, Ursula von der Leyen, e i suoi retribuitissimi
colleghi dovrebbero operare col pragmatismo richiesto da un simile dramma.
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