Di notte.
Al buio.
Una bara circondata da poliziotti e mukhabarat che vigilano perché nessuno,
proprio nessuno accompagni un giovane dal cognome ingombrante. Qualcuno invece
c’è, pur tenuto a distanza e infila due scatti che girano sul web. Mostrano l’inumazione
tenuta segreta di Abdullah Morsi, il figlio dell’ex presidente egiziano, morto
come il padre per infarto, ma a venticinque anni. La notizia del decesso data
dalle agenzie, segnalata da Al Jazeera
e commentata soprattutto sui social - con grosse limitazioni nel Paese arabo
dove la paura prima della stessa censura ha frenato tanti dal manifestare
pensieri - ha anche visto parecchi sollevare dubbi su questa morte giunta
improvvisamente a una verde età. In un ragazzo che, a detta dei familiari, non
manifestava patologie cardiocircolatorie. La polizia non sembra aver
predisposto indagini di nessun genere. Invece s’è organizzata per agli stessi
parenti della vittima, di accompagnarla per l’ultimo saluto. Il rito funebre s’è
svolto in piena notte e la mano pietosa e anonima che ha scattato quelle
immagini, l’ha fatto a suo rischio, celandosi dietro altre persone. Se qualche
funzionario avrà visto, ha lasciato correre, poiché l’intento governativo era
stato raggiunto. Come per tante vicende egiziane la finalità di regime è volta
a nascondere e cancellare, a realizzare quell’oblìo che vuol far dimenticare
morti ammazzati e torture seriali, arresti di massa e persecuzioni personali.
Va avanti
così da sei anni
e la comunità internazionale non mostra imbarazzi. Ma dall’insinuarsi indebitamente
nei cosiddetti “affari interni” d’una nazione, alla scelta d’ignorare la linea repressiva e la ripetuta violazione dei diritti umani che i militari
del Cairo perseguono, ce ne passa. Se nessun Paese proferisce parola su quanto
accade in quella società, e non lo fa neppure l’Italia il cui concittadino
Giulio Regeni è finito martoriato con palesi e gravissime responsabilità
dell’establishment al potere, la questione è preoccupante. Invece il nostro mondo
politico è tutto infoiato dagli affari che si possono avviare e concludere con
quel Paese governato da assassini. C’è una chiamata diretta che coinvolge due
figure del neo formato governo: il premier Conte e il ministro degli Esteri Di Maio.
Entrambi erano presenti nel precedente governo, il primo col medesimo incarico,
il secondo allora come ministro dello Sviluppo Economico. Insieme all’intero
Esecutivo uscente non hanno certo brillato per sostegno politico al lavoro
giudiziario dei procuratori Pignatone e Colaiocco che indagavano sull’omicidio
del ricercatore friulano. Da Conte e Di Maio, e da tutto un governo che afferma
di nascere nel segno d’una “discontinuità”, i cittadini che domandano giustizia
sul caso Regeni s’aspettano passi concreti: rottura diplomatica ed economica
con un regime che sparge sangue innocente. E ostacola che un giovane infartuato
che si chiama Morsi possa avere l’estremo saluto di parenti e amici.
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