giovedì 12 settembre 2019

Egitto fra morti improvvise e vite sospese


L’Egitto delle morti improvvise, da parecchi ritenute sospette - come quella di Abdullah Morsi, figlio più giovane del defunto presidente, stroncato anche lui da un infarto - propone da tempo rapimenti e sparizioni. Talune tragiche, alla maniera di Giulio Regeni, altre meno inquietanti visto che non si concludono con l’assassinio del sequestrato, però egualmente violente, vessatorie, angosciose. E da oltre un anno il sistema repressivo messo su dal presidente golpista Sisi ha introdotto arresti a tempo. La persona, in genere giovane con un passato movimentista o d’opposizione, viene prelevata dalla propria dimora oppure fermata per via con motivazioni vaghe e pretestuose. Viene condotta in un commissariato di polizia per accertamenti e comunicazione di addebiti, se gli va bene finisce davanti a un giudice che impone una reclusione breve - quindici giorni, un mese - che il soggetto subisce e al tempo stesso accetta perché la vede come ‘un male minore’. Finendo, però, in un circolo perverso, narrato da alcuni ex attivisti che ormai entrano ed escono di prigione con una periodicità impressionante. Certo, l’importante è uscirne, ma gli avvocati dei diritti che si sono occupati dei casi, avvocati sempre meno numerosi poiché rischiano accuse di complicità con gli assistiti, riferiscono di sevizie, privazioni, deperimenti dovuti a carenza di cibo, malattie contratte nei luoghi malsani di prigioni ufficiali e ufficiose. Per non parlare dello stato di prostrazione vissuta da alcune vittime che si sentono sospese in questa condizione di reclusione e libertà vigilata divenute le costanti della loro esistenza.

L’inferno psicologico è l’ulteriore meccanismo di paura diffuso nel grande Paese arabo da un regime cui il mondo lascia fare ciò che vuole verso cittadini, lusingati con una forzata scelta di consenso oppure terrorizzati da quello che gli potrà accadere. Addirittura individui al di sopra d’ogni sospetto, che mai hanno manifestato segni di repulsione contro lo Stato forte imposto da militari, poliziotti e magistrati iniziano a segnalare crescenti anomalie quotidiane. Accadono, ad esempio, a insegnanti rei d’essere stranieri. L’ultimo episodio ha per protagonista e vittima una docente francese, sposata a un palestinese con madre egiziana, che s’è vista arrestare il marito impegnato in politica. Contemporaneamente è stata fatta rimpatriare senza poter rivolger al proprio Consolato alcuna protesta. E’ stata bollata come persona non gradita, e le è andata bene. Se tanto accade a elementi del ceto medio-alto, che tramite contatti familiari riescono a lanciare pubblici appelli d’aiuto, figurarsi la condizione di donne e uomini senza risorse economiche, senza il possibile sostegno di partiti d’opposizione e neppure delle associazioni dei diritti, da quattro anni a questa parte messe al bando con una diretta persecuzione di responsabili e attivisti. E’ accaduto al Centro El-Nadeem, al Centro Nazra, all’Istituto cairota per gli studi sui diritti, a decine di Ong locali meno note. Le sessantamila detenzioni, la cancellazione di trentamila siti web sono conosciute, eppure non accade nulla. Mentre s’impone l’Egitto dell’esistenza appesa a un filo, oscillante fra i giorni penzolanti verso una quotidianità posta sotto controllo e quelli bloccati dal respiro messo sotto chiave. Un Paese  definito normale.



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