L’Egitto delle morti improvvise, da parecchi ritenute
sospette - come quella di Abdullah Morsi, figlio più giovane del defunto
presidente, stroncato anche lui da un infarto - propone da tempo rapimenti e
sparizioni. Talune tragiche, alla maniera di Giulio Regeni, altre meno
inquietanti visto che non si concludono con l’assassinio del sequestrato, però
egualmente violente, vessatorie, angosciose. E da oltre un anno il sistema
repressivo messo su dal presidente golpista Sisi ha introdotto arresti a tempo.
La persona, in genere giovane con un passato movimentista o d’opposizione,
viene prelevata dalla propria dimora oppure fermata per via con motivazioni
vaghe e pretestuose. Viene condotta in un commissariato di polizia per
accertamenti e comunicazione di addebiti, se gli va bene finisce davanti a un
giudice che impone una reclusione breve - quindici giorni, un mese - che il
soggetto subisce e al tempo stesso accetta perché la vede come ‘un male
minore’. Finendo, però, in un circolo perverso, narrato da alcuni ex attivisti
che ormai entrano ed escono di prigione con una periodicità impressionante. Certo,
l’importante è uscirne, ma gli avvocati dei diritti che si sono occupati dei casi,
avvocati sempre meno numerosi poiché rischiano accuse di complicità con gli
assistiti, riferiscono di sevizie, privazioni, deperimenti dovuti a carenza di
cibo, malattie contratte nei luoghi malsani di prigioni ufficiali e ufficiose. Per
non parlare dello stato di prostrazione vissuta da alcune vittime che si
sentono sospese in questa condizione di reclusione e libertà vigilata divenute le
costanti della loro esistenza.
L’inferno psicologico è l’ulteriore meccanismo di paura diffuso nel
grande Paese arabo da un regime cui il mondo lascia fare ciò che vuole verso
cittadini, lusingati con una forzata scelta di consenso oppure terrorizzati da
quello che gli potrà accadere. Addirittura individui al di sopra d’ogni
sospetto, che mai hanno manifestato segni di repulsione contro lo Stato forte
imposto da militari, poliziotti e magistrati iniziano a segnalare crescenti
anomalie quotidiane. Accadono, ad esempio, a insegnanti rei d’essere stranieri.
L’ultimo episodio ha per protagonista e vittima una docente francese, sposata a
un palestinese con madre egiziana, che s’è vista arrestare il marito impegnato in politica. Contemporaneamente
è stata fatta rimpatriare senza poter rivolger al proprio Consolato alcuna
protesta. E’ stata bollata come persona non gradita, e le è andata bene. Se
tanto accade a elementi del ceto medio-alto, che tramite contatti familiari
riescono a lanciare pubblici appelli d’aiuto, figurarsi la condizione di donne
e uomini senza risorse economiche, senza il possibile sostegno di partiti
d’opposizione e neppure delle associazioni dei diritti, da quattro anni a questa
parte messe al bando con una diretta persecuzione di responsabili e attivisti.
E’ accaduto al Centro El-Nadeem, al Centro Nazra, all’Istituto cairota per gli
studi sui diritti, a decine di Ong locali meno note. Le sessantamila
detenzioni, la cancellazione di trentamila siti web sono conosciute, eppure non
accade nulla. Mentre s’impone l’Egitto dell’esistenza appesa a un filo,
oscillante fra i giorni penzolanti verso una quotidianità posta sotto controllo
e quelli bloccati dal respiro messo sotto chiave. Un Paese definito normale.
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