“… A nessun potere
straniero sarà permesso
d’interferire internamente ed esternamente con gli affari afghani, e se dovesse
accadere sono pronto a tagliargli la gola con questa spada”. Con tali parole re
Amanullah si rivolgeva ai dignitari di Kabul, e agli stessi agenti britannici
presenti, pochi mesi prima che il Paese dell’Hindu Kush strappasse una propria
dignità nazionale all’Impero di Giorgio V,
ottenendo ufficialmente l’indipendenza il 19 agosto 1919. Quel giorno venne
firmato il trattato che poneva fine alla terza guerra afghana contro l’esercito
britannico, durata in realtà solo un mese. Ora che la popolazione patisce
guerre che si succedono da decenni quella dichiarazione risuona come amara se
non addirittura beffarda. Eppure il regno (1919-29) di Amanullah Shah, sovrano
illuminato, molto amato dai sudditi dell’epoca - e favorevolmente valutato da
storici e attuali attivisti democratici che ne visitano la tomba a Jalalabad - dev’essere
considerata una fase d’innovazione anche nel Terzo millennio che non mostra
toni progressisti e non pacifica ancora nulla. Anzi. Amanullah, pur ricoprendo
la carica di emiro, scontentò chierici e capi tribali. I passi riformatori intrapresi
con la promulgazione nel 1923 d’una Costituzione paritaria per i generi, un
codice di famiglia garantista che vietava matrimoni fra anziani e giovanissime,
la creazione d’un tribunale per eventuali torti subìti dalle donne,
rappresentano un riferimento positivo successivamente smarrito. Il sovrano, coadiuvato
dalla consorte che ripetutamente si mostrava in pubblico senza velo, pur riconoscendo
la religione islamica, mirava a porre la nazione e la sua gente al passo con la
contemporaneità. L’inserimento femminile nel piano per una diffusa istruzione
popolare, confermavano quell’impressione progressista che lo stesso Lenin ebbe
di lui, intrattenendo un breve rapporto epistolare.
In realtà l’interesse del leader comunista sull’operato
di Amanullah riguardava l’opposizione afghana all’Impero britannico, da lì la
simpatia che il bolscevico e russo Vladimir Ilic nutriva per chi contrastava il
principale avversario di Mosca, in quel frangente sostenitore delle Armate
bianche e per oltre un secolo nemico numero uno nel cosiddetto “Grande Gioco”
asiatico. Il re dell’indipendenza afghana non può essere annoverato fra i
rivoluzionari, ma metteva di buon umore Lenin quando, nel 1921, firmava un
trattato che “appoggiava la lotta dei popoli d’Oriente”. Per quanto, in
occasione d’una rivolta sostenuta dai sovietici contro l’emiro del Bukhara,
Amanullah ospitò a Kabul il suo omologo spodestato. Come pure diede rifugio ai
ribelli islamici basmachi fuggiti dall’area di Bukhara e del Turkestan dopo la
repressione dei loro moti. Il contatto con un innovatore seppur autoritario come
Kemal Atatürk avvenne nella dinamica dei nuovi assetti mediorientali
caratterizzati da spinte e ‘spine’ autoctone delle nascenti nazioni e delle leadership che si
confrontavano. L’ispirazione del movimento dei “Giovani afghani”, di cui
Amanullah fece parte, erano le idee moderniste e panislamiche propugnate dai
“Giovani turchi”. Se si vuol cercare un comune denominatore fra i due politici,
lo si trova nella reciproca volontà da fedeli islamici di perseguire un modello
di Stato laico. Ma ulema naqshabandi e pashtunwali erano decisamente più forti
del clero e delle tradizioni ottomane e Amanullah ne subì le conseguenze
finendo spodestato da un crescente moto di protesta guidato da un tajiko, detto
figlio del portatore d’acqua (Baccà-ye Saccaò). Il re progressista fuggì in
Europa e lì rimase. Riparò in Italia e
morì nel 1960.
Occorre ricordare che, differentemente dai “Giovani turchi” dotati
d’una struttura paramilitare e rodati dalla pratica, gli afghani riformatori
non godevano di simile organizzazione. Comunque il rivoltoso Baccà-ye ebbe vita
breve, fu rimosso da un parente di Amanullah, Nadir Khan, più accomodante verso
gli ulema e fautore nel 1931 d’una nuova Carta costituzionale. Chi lo seguì, il
diciannovenne figlio Zahir Shah (1933-73), riprese il percorso modernizzatore
di Amanullah sul terreno di scolarizzazione e diritti civili, occupandosi poi
delle carenze citate: esercito e burocrazia che negli anni Cinquanta vennero
rafforzati. E’ il periodo ricordato dagli storici interni quale nuova ondata riformatrice,
che con la Costituzione del 1964 legalizzava partiti politici e libera stampa.
Pur definendo l’Islam sacra religione dell’Afghanistan, limitava il riferimento
ai princìpi della Shari’a come
elementi fondanti delle leggi parlamentari. E’ di quella fase la divisione
bicamerale, con una camera bassa (Wolesi
Jirga) che eleggeva ogni quattro anni i suoi rappresentanti e un senato (Meshrano Jirga) i cui membri erano
scelti nei consigli distrettuali e per un terzo venivano nominati dal sovrano.
In quella circostanza le donne ebbero il riconoscimento di far parte
dell’elettorato. Ovviamente non era tutto rose e fiori, le elezioni dell’anno
seguente furono accolte con freddezza dalla popolazione. La percentuale di
votanti fu scarsa, la partecipazione delle donne bassissima, pochissime furono
le elette. I gruppi etnici sulla spinta di capi tribali e ulema continuavano a
orientare i comportamenti delle persone inserite nelle comunità. L’assenza di
lavoratori tipici del capitalismo avanzato, gli operai di fabbrica, per
mancanza d’industrializzazione, gli strati rurali spesso ribelli e repressi creavano
una profonda dicotomia fra vertice e base della nazione.
Anche la formazione del Partito popolare democratico dell’Afghanistan, ispirato da princìpi socialisti, che
poteva trarre spunti dal riformismo illuminato della monarchia e poi del
sistema repubblicano, rimase vittima della schematica rigidità d’una tarda
visione “terzo-internazionalista” ingessata nelle sue teorie, ben distanti dal
materialismo dialettico dei padri del comunismo teorico. Mentre prendeva piede il
movimento islamico, sull’onda delle predicazioni di Sayyid Qutb (l’egiziano
condannato a morte da Nasser) e del teologo pakistano Abul Maudidi, fondatore
egli stesso di quella Jamiat-e Islami
in cui si ritrovarono Burhanuddin Rabbani, e pure Massud e Hekmatyar, prima
della divisione che li portò a combattersi nella guerra civile, seguita al
ritiro sovietico dopo otto anni d’invasione. Il travagliatissimo quarantennio
della Repubblica Islamica Afghana è indubbiamente più conosciuto rispetto ai precedenti
periodi che hanno conosciuto fasi anche di stabilità e minore tensione.
Certamente le generazioni vissute fra le due guerre mondiali, evitate
dall’Afghanistan, la prima per ragioni d’età quindi per acutezza e opportunità politica
di quello Zahir regnante per quattro decenni, hanno conosciuto un’esistenza
meno drammatica delle generazione che da metà anni Settanta sono nate nei campi
profughi conoscendo solo guerre e scempi. E il presente che, in tanti dicono di
voler pacificato, non ha risolto contraddizioni geopolitiche, etniche,
culturali, religiose che altre figure,
chiamate khan, s’erano comunque poste provando a offrire soluzioni. I
“colloqui di pace” ora in atto, le elezioni presidenziali del prossimo
settembre sembrano le maschere per continuare a proseguire massacri, sebbene
gli ultimi li stiano praticando i jihadisti del Khorasan. Ma in questo secolo i
massacratori della gente afghana sono stati tanti. E continuano a esserlo.
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