Fatto fuori l’ex primo ministro Nawaz Sharif per vie
legali, con una condanna a dieci anni per corruzione, il Pakistan, bomba
geopolitica del Grande Medio Oriente, si avvia al voto del prossimo 25 luglio.
Il forte partito di governo, la Lega musulmana, presenta fra gli altri un
candidato recentemente graziato Shahid Abbasi, a conferma d’un andirivieni
dalle galere. Ma ciò che gli osservatori sottolineano è la variegata presenza
di gruppi e leader estremisti, vicini al jihadismo d’ogni tipo, dai talebani
dissidenti che rinfocolano il Daesh centrasiatico (Tehreek-i Labbaik), a
formazioni vicine a Lashkar-i-Jhangvi, considerate terroriste non solo dal
cartello internazionale che dice di combatterle, ma da se stessi, vista la
quantità di attentati contro la popolazione civile che vanno a compiere. Il
principale obiettivo di questi gruppi sono i fedeli della minoranza sciita,
spesso però sotto le esplosioni di camion-bomba e kamikaze restano anche tanti
cittadini pakistani, che per oltre il 90% appartengono alla Umma sunnita. A una
figura controversa, tempo addietro arrestato proprio per prossimità col
jihadismo sanguinario filo qaedista, è stato concesso di presentarsi alle
elezioni.
E’ Aurangzeb Farooqi, capo del raggruppamento Ahe Sunnat Wal Jamaal
considerato appunto la maschera politica dei miliziani di Lashkar-i-Jhangvi. Un
partito ammesso alle urne nonostante persegua una campagna di radicalismo
confessionale caratterizzata da aperte manifestazioni d’odio verso le altre
fedi. Tendenza che va molto al di là dell’impegno coranico verso i cosiddetti
kafir. I passi che hanno portato la Commissione elettorale a chiudere entrambi
gli occhi davanti a simili presenze ufficiali vanno ricercati nella continua
ingerenza nella vita politica del Paese di quelle eminenze grigie che sono
l’esercito e soprattutto l’Intelligence Isi. Entrambi perseguono da decenni
interessi spesso contrapposti, appoggiando politici diversi pur di ottenere la
conservazione d’un eccezionale potere di corpo, a seconda dei casi in accordo o
in contrasto fra loro. Difficile dire se siano più potenti le Forze Armate o i
Servizi di Islamabad, di fatto dall’epoca del golpe del generale islamista
Zia-ul Haq la sfera politica coi vari Bhutto, Musharraf, Sharif ha
rappresentato solo la facciata dietro la quale agisce, in maniera indipendente,
l’apparato della forza.
Che ha propri interessi politico-economici, agendo da lobby,
seppure lascia alla politica spazio per quell’affarismo di clan familiari che
spesso conduce figure di primo piano (l’ultimo è Nawaz Sharif, ma pensiamo a
mister 10% Ali Zardari, marito di Benazir Bhutto) ad avere seri problemi con la
giustizia per colossali ruberie. Ai danni d’una popolazione in crescita
esponenziale, oggi supera i 200 milioni di abitanti, con sacche amplissime di
povertà e problemi sociali d’ogni genere. Su queste purulente piaghe
s’inserisce la propaganda del radicalismo religioso che riesce a superare la
stessa opposizione di organismi internazionali che provano a contrastare
finanziamenti a tali componenti, anche quando passano come sostegni per
iniziative culturali e religiose. Non è un segreto che le madrase del
deobandismo pakistano sono una fucina per quella tipologia di argomenti ripresi
anche da candidati come Farooqi, ma tant’è. La politica interna ammette la sua
e altre discutibili candidature e, come su tutto, potrebbe tranquillamente
esserci lo zampino dei militari. Costoro, in certe fasi, hanno compiuto lotte
serratissime al jihadismo, e per questo sono stati oggetto di attentati
indiretti, come quelli odiosi attuati nel 2014 a Peshawar nella scuola
frequentata dai pargoli degli ufficiali.
Ma l’ondivago e più ampio gioco di potere vede in altre fasi,
accordi, protezioni, sostegno e addestramento di talebani - come accade nei
territori delle Fata - soprattutto in funzione disgregativa verso il vicino e
di per sé caotico Afghanistan, su cui i governanti pakistani hanno mire di
subordinazione, molto più dei taliban. Pur con l’aperta presenza di fondamentalisti
dichiarati, la corsa alla carica di primo ministro pone in testa tre figure
‘perbene’ che piacciono all’Occidente, due delle quali appartengono agli
immarcescibili clan gestori della vita pubblica. Il fratello del premier
incriminato, Shehbaz Sharif, ricco di famiglia e comunque forte dell’industria Ittefaq,
colosso dell’acciaio e della metallurgia, che dirige in prima persona. Il
figlio d’un altro corrotto o mister corruzione, il citato tangentista Zardari.
La nemesi storica non deve inficiare il presente di Bilawal Bhutto Zardari, ma
clan e interessi di famiglia incombono. Quindi il candidato che sembrerebbe più
free: Imran Khan, ex campione di cricket, già asceso sulla scena politica
attorno al 2011. Analisti giudicarono i suoi programmi un guazzabuglio di idee,
fra riforme para classiste, ben viste solo dalla destra conservatrice, e un
vago populismo. Più l’ombra, mai smentita, dell’appoggio dei militari. Che
danno e ovviamente prendono, con tutti, in ogni occasione.
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