giovedì 5 luglio 2018

Ghani, il partito talebano e il sogno di pacificazione


Nella macro politica di Kabul il tema che tiene banco anche più di sicurezza e Tapi (il gasdotto transnazionale) è l’apertura politica ai talebani, divenuta la vera ossessione del presidente Ghani. Se la prima questione mette a nudo l’incapacità governativa di controllare alcunché, e la seconda l’ennesimo mega progetto da cui la popolazione trarrà benefici nulli, l’ipotesi del dialogo coi miliziani coranici è l’incompiuta difficile da compiere. E neppure tanto nuova. Rifà il verso a quanto già si era tentato otto e sette anni addietro, quando la Cia di mister Panetta e l’allora presidente Karzai proposero ai talebani tavoli d’incontro, separati e unitari, da cui ci si aspettava un’uscita dalla palude in cui erano finite la muscolare Enduring Freedom e l’ambivalente Isaf mission. Già all’epoca le posizioni della galassia talebana erano diversificate, ma accanto agli irriducibili della rete di Haqqani, l’Alto Consiglio della Pace, creato per l’occasione, colloquiando coi turbanti doveva prendere atto di alcune loro richieste irrinunciabili: ritiro delle truppe d’occupazione, revisione della Costituzione considerata insufficientemente islamica, cancellazione dalla lista nera del terrorismo mondiale, rilascio di prigionieri in mano ad americani e governo afghano. La posta talebana era alta, altissima, come la personale considerazione di non pensarsi partito elettorale.
Quindi, nel 2012, tutto si bloccò per l’oscuro episodio omicidio di Burhanuddin Rabbani, un’esecuzione avvenuta nella sua abitazione kabuliota, e mai chiarita. Si ventilò l’ipotesi della mano della dissidenza talib, oppure dell’Intelligence pakistana che poco gradiva un inserimento “istituzionale” talebano a Kabul fuori da proprie ingerenze. Molto pragmatico apparve uno dei leader talib della Shura di Quetta (Mansour) che avrebbe voluto proseguire gli incontri nonostante il lutto, invece tutto di fermò. Comunque già all’epoca i talebani puntavano a essere riconosciuti come parte del conflitto, più che come partito. Dalla sua nascita il movimento degli studenti coranici armati incarnava il ruolo di resistenti contro il caos prodotto dai signori della guerra, e si dichiarava non interessato al potere. Certo, una volta conquistata la capitale (nel 1996) e instaurato l’Emirato islamico la musica cambiò e mutò tragicamente per la stessa popolazione che aveva creduto nella buona fede dei taliban che ostacolavano lo strapotere vessatore dei warlords. Studiosi di quelle frange fanno notare come nella gestione, pur contraddittoria dell’amministrazione statale, i talebani mutarono approccio a tal punto che, dopo la sconfitta (ottobre 2001) e nei periodi precedenti la formazione di nuovi governi (Rabbani, poi Karzai), pur concentrati quasi esclusivamente sulla sua ristrutturazione militare, tenevano in vita una sorta di governo-ombra.
Comunque, insediati al potere o lontani da esso, i talebani non si comportavano come un partito, non seguivano gli schemi rappresentati in altre aree dall’islam politico. E fuori da tale prospettiva essi non si sentono attratti da processi elettorali per conquistare consenso fra la popolazione.  Acquistano seguito nel ruolo di difensori della legge islamica, magari autocelebrandosi come resistenti ai soprusi occidentali e degli infedeli oppure l’ottengono con la coercizione, incutendo timore fra la gente. La prospettiva del voto non gli appartiene, differentemente dalle molte formazioni islamiste che in varie fasi uniscono kalashnikov e scheda nell’urna, meglio se taroccata o macchiata da violenze e brogli. Come peraltro fanno quei gruppi politici cui Stati Uniti e Unione Europea inventano un’anima democratica. Perciò lo scenario che da oltre un anno Ashraf Ghani espone, non solo non è nuovo e può risultare infruttifero come già fu, ma cerca solo un alibi alle prossime consultazioni per: tenere congelati il sistema dell’occupazione strisciante, gestire i mercati delle armi nel Grande Medioriente, controllare i traffici dell’oppio in combutta coi signori degli affari locali e mondiali, reiterare la sagra degli aiuti umanitari miliardari, conservare il controllo militare geostrategico nel cuore dell’Asia. Non si tratta di robetta da poco.
Per la cronaca, che diventa storia, i talebani, proprio nella fase seguente all’avvìo degli incontri del 2011, s’erano ‘occidentalizzati’ aprendo una sede diplomatica presso una delle più scaltre e intraprendenti petromonarchie del Golfo: il Qatar. Poi, come ricordato, i colloqui scemarono, ma l’ufficio a Doha non venne chiuso. E da quella sede nel 2014, quando le fazioni di Ghani e Abdullah si fronteggiavano l’un contro l’altra armate, accusandosi reciprocamente di brogli elettorali, il portavoce talebano esprimeva tutto il disprezzo per quella finta democrazia basata su elezioni (truccate) e Parlamento (costellato di signori della guerra, di affaristi e di corrotti). I turbanti sceglievano di stare fuori da quella Loya Jirga. Tuttora non si pronunciano su questioni come riforma del Parlamento e pluralismo politico, restando il Convitato di pietra del panorama politico nazionale. Non esibiscono monopoli politici, accettano tatticamente anche dialoghi con interlocutori che disprezzano, come Ghani, con le ambascerie di chi non amano (Hekmatyar). Diventano attori quando mostrano un pentimento, parlando di giusta via per i diritti umani (sic), di educazione per le donne. Comunque la loro organizzazione e il fine restano prettamente militari, anzi spererebbero di ripristinare l’Emirato Islamico d’Afghanistan con le armi, cosa che i geostrateghi ritengono difficile. Così nel Paese dell’Hindu Kūsh tutto resta in bilico, immerso nel conflitto logorante e latente, davanti a un abbandono definitivo americano che non arriva e a un sogno di pacificazione solo immaginato.

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