Nella macro politica di Kabul il tema che tiene banco
anche più di sicurezza e Tapi (il gasdotto transnazionale) è l’apertura politica
ai talebani, divenuta la vera ossessione del presidente Ghani. Se la prima
questione mette a nudo l’incapacità governativa di controllare alcunché, e la
seconda l’ennesimo mega progetto da cui la popolazione trarrà benefici nulli,
l’ipotesi del dialogo coi miliziani coranici è l’incompiuta difficile da
compiere. E neppure tanto nuova. Rifà il verso a quanto già si era tentato otto
e sette anni addietro, quando la Cia di mister Panetta e l’allora presidente
Karzai proposero ai talebani tavoli d’incontro, separati e unitari, da cui ci
si aspettava un’uscita dalla palude in cui erano finite la muscolare Enduring Freedom e l’ambivalente Isaf mission. Già all’epoca le posizioni
della galassia talebana erano diversificate, ma accanto agli irriducibili della
rete di Haqqani, l’Alto Consiglio della Pace, creato per l’occasione, colloquiando
coi turbanti doveva prendere atto di alcune loro richieste irrinunciabili:
ritiro delle truppe d’occupazione, revisione della Costituzione considerata
insufficientemente islamica, cancellazione dalla lista nera del terrorismo
mondiale, rilascio di prigionieri in mano ad americani e governo afghano. La
posta talebana era alta, altissima, come la personale considerazione di non
pensarsi partito elettorale.
Quindi, nel 2012, tutto si bloccò per l’oscuro episodio omicidio
di Burhanuddin Rabbani, un’esecuzione avvenuta nella sua abitazione kabuliota,
e mai chiarita. Si ventilò l’ipotesi della mano della dissidenza talib, oppure
dell’Intelligence pakistana che poco gradiva un inserimento “istituzionale”
talebano a Kabul fuori da proprie ingerenze. Molto pragmatico apparve uno dei
leader talib della Shura di Quetta (Mansour) che avrebbe voluto proseguire gli
incontri nonostante il lutto, invece tutto di fermò. Comunque già all’epoca i
talebani puntavano a essere riconosciuti come parte del conflitto, più che come
partito. Dalla sua nascita il movimento degli studenti coranici armati incarnava
il ruolo di resistenti contro il caos prodotto dai signori della guerra, e si
dichiarava non interessato al potere. Certo, una volta conquistata la capitale
(nel 1996) e instaurato l’Emirato islamico la musica cambiò e mutò tragicamente
per la stessa popolazione che aveva creduto nella buona fede dei taliban che
ostacolavano lo strapotere vessatore dei warlords. Studiosi di quelle frange fanno
notare come nella gestione, pur contraddittoria dell’amministrazione statale, i
talebani mutarono approccio a tal punto che, dopo la sconfitta (ottobre 2001) e
nei periodi precedenti la formazione di nuovi governi (Rabbani, poi Karzai),
pur concentrati quasi esclusivamente sulla sua ristrutturazione militare,
tenevano in vita una sorta di governo-ombra.
Comunque, insediati al potere o lontani da esso, i talebani non si
comportavano come un partito, non seguivano gli schemi rappresentati in altre
aree dall’islam politico. E fuori da tale prospettiva essi non si sentono attratti
da processi elettorali per conquistare consenso fra la popolazione. Acquistano seguito nel ruolo di difensori
della legge islamica, magari autocelebrandosi come resistenti ai soprusi
occidentali e degli infedeli oppure l’ottengono con la coercizione, incutendo
timore fra la gente. La prospettiva del voto non gli appartiene, differentemente
dalle molte formazioni islamiste che in varie fasi uniscono kalashnikov e
scheda nell’urna, meglio se taroccata o macchiata da violenze e brogli. Come
peraltro fanno quei gruppi politici cui Stati Uniti e Unione Europea inventano un’anima
democratica. Perciò lo scenario che da oltre un anno Ashraf Ghani espone, non
solo non è nuovo e può risultare infruttifero come già fu, ma cerca solo un alibi
alle prossime consultazioni per: tenere congelati il sistema dell’occupazione
strisciante, gestire i mercati delle armi nel Grande Medioriente, controllare i
traffici dell’oppio in combutta coi signori degli affari locali e mondiali,
reiterare la sagra degli aiuti umanitari miliardari, conservare il controllo
militare geostrategico nel cuore dell’Asia. Non si tratta di robetta da poco.
Per la cronaca, che diventa storia, i talebani, proprio nella fase
seguente all’avvìo degli incontri del 2011, s’erano ‘occidentalizzati’ aprendo
una sede diplomatica presso una delle più scaltre e intraprendenti
petromonarchie del Golfo: il Qatar. Poi, come ricordato, i colloqui scemarono,
ma l’ufficio a Doha non venne chiuso. E da quella sede nel 2014, quando le
fazioni di Ghani e Abdullah si fronteggiavano l’un contro l’altra armate,
accusandosi reciprocamente di brogli elettorali, il portavoce talebano
esprimeva tutto il disprezzo per quella finta democrazia basata su elezioni
(truccate) e Parlamento (costellato di signori della guerra, di affaristi e di
corrotti). I turbanti sceglievano di stare fuori da quella Loya Jirga. Tuttora
non si pronunciano su questioni come riforma del Parlamento e pluralismo
politico, restando il Convitato di pietra del panorama politico nazionale. Non
esibiscono monopoli politici, accettano tatticamente anche dialoghi con
interlocutori che disprezzano, come Ghani, con le ambascerie di chi non amano
(Hekmatyar). Diventano attori quando mostrano un pentimento, parlando di giusta
via per i diritti umani (sic), di educazione per le donne. Comunque la loro
organizzazione e il fine restano prettamente militari, anzi spererebbero di
ripristinare l’Emirato Islamico d’Afghanistan con le armi, cosa che i
geostrateghi ritengono difficile. Così nel Paese dell’Hindu Kūsh tutto resta in
bilico, immerso nel conflitto logorante e latente, davanti a un abbandono definitivo
americano che non arriva e a un sogno di pacificazione solo immaginato.
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