Il Sinai, regione egiziana dalla storia antica, da quella biblica alle
travagliate vicende dell’occupazione israeliana con la ‘guerra dei sei giorni’,
è un volto marginale ma ampiamente realistico dell’Egitto voluto dal generale Sisi.
Un Paese spaccato e represso che mostra scenari contrapposti e contraddittori,
come la sua desertica penisola perla del turismo. Circa mezzo milione di
abitanti, fra stanziali e beduini, divisi nei 25.500 kmq dell’area
settentrionale che s’affaccia sul Mediterraneo con 339.000 abitanti, e i 150.000 residenti della più ampia fascia
meridionale (33.000 kmq). L’area è da tempo afflitta dalla presenza di gruppi
jihadisti di vecchia e nuova formazione. S’iniziò, subito dopo il golpe del
luglio 2013 e soprattutto del massacro della moschea Rabaa Al Adawiya (dalle
mille alle duemila vittime in un solo giorno, mai rivelata la cifra esatta) con
una parte della Fratellanza Musulmana lì uccisa, quindi criminalizzata, che
passava alla lotta armata contro l’esercito. Sebbene il jihadismo,
fondamentalista e non, abbia accresciuto le milizie in quella zona, per vie
proprie.
Per sostenere l’immagine di forza e sicurezza lanciata a
sostegno della sua persona, il generale diventato presidente, ha proposto in
più occasioni un repulisti ‘antiterroristico’ del Sinai, riportando ripetuti
fallimenti. Certo, in vari casi si sono registrate catture e uccisioni di miliziani
reali o presunti, che comunque non hanno prodotto l’estirpazione dei fenomeni
violenti rivolti contro l’esercito, con azioni armate, e la popolazione
attraverso attentati. Nell’ultimo biennio, seguendo il copione apparso in più
aree mediorientali, anche il Sinai conta un gruppo di un neocreato Isis locale,
spina nel fianco del regime, poiché ne evidenzia i limiti di efficacia militare
e ne sbugiarda la presunzione di controllo del territorio. La strage del
novembre 2017 nella moschea di El Rawda, nel Sinai settentrionale a 45 km dal
capoluogo El Arish, compiuta con bombe all’interno e mitragliatrici esterne, ha
rappresentato una carneficina senza precedenti (300 civili uccisi). L’attentato
rientra nella strategia del terrore attuata dal Daesh che mette Sisi davanti
all’incapacità di esercito e polizia di filtrare la regione. Visti i
comportamenti conseguenti, resta pur sempre il dubbio che la volontà di
tamponare il terrorismo non sia così piena come si enuncia, la repressione
riguarda altre figure e situazioni.
Un terrorismo vivo consente al generale di
perpetuare lo stato d’assedio lì e in tutto il territorio nazionale. Per il
Sinai Sisi ha varato dallo scorso febbraio ‘l’operazione 2018’ con cui ha
infarcito ogni sua pubblica apparizione durante la campagna elettorale di
primavera. Una consultazione vinta col 92% dei consensi, a fronte d’una
presenza alle urne del corpo elettorale inferiore al 30% e soprattutto senza
avversari, visti lo scoraggiamento e l’eliminazione di sei candidati.
L’operazione Sinai 2018 nulla ha potuto contro nuovi attentati, quello
all’aeroporto di El Arish, a 50 km dalla Striscia di Gaza, ma tanto sta facendo
contro la popolazione civile e lavoratrice. Le località di Sheikh Zuweid, El
Arish e Rafah, questa a ridosso del confine palestinese, continuano a
registrare demolizioni di abitazioni e fattorie, il 90% delle quali sono state
rase al suolo. In più agricoltori e la gente del Sinai settentrionale devono
fare i conti col blocco dei Tir (per ragioni di sicurezza, nel timore
trasportino esplosivo) che comporta da mesi carenze di approvvigionamento
alimentare. In tanti casi i contadini hanno creato, negli anni a loro spese, le
strutture ora distrutte dai militari e non riceveranno risarcimenti.
I media di regime non trattano granché la questione,
né riferiscono sui reiterati raid aerei dell’aviazione israeliana e di quella
degli Emirati Arabi Uniti che “aiutano” le demolizioni dal cielo, a suon di
bombe. Organizzazioni umanitarie hanno denunciato tali operazioni e le vittime
civili che producono; da parte sua Il Cairo copre ogni cosa, sostenendo si
tratti di guerra al terrorismo e all’improrogabile necessità di creare una zona
cuscinetto sul sempre infuocato confine di Gaza. L’informazione locale, rieducata
dal modello Sisi, considera tali iniziative un dono al benessere nazionale
(sic). All’interno di questa tendenza ‘benefattrice’ si pone il faraonico piano
del capo di Stato che, come altri omologhi della grandiosità autocratica, ha
già prodotto il secondo canale di Suez e prevede una nuova capitale a sud-est
dall’attuale. In più s’interfaccia al funambolico sviluppo di città nel deserto
previsto sulla lingua di mare del golfo di Aqaba: i sauditi di Bin Salman in
quei luoghi hanno progettato Neom, a metà fra la metropoli d’affari e la
località turistica e mondana.
Una giostra di grattacieli e fantasmagorie per riconvertire i
petrodollari e fargli intraprendere percorsi affaristici differenti. Il
principe Saud prevede d’estendere la città anche sulla sponda del dirimpettaio
e ha già impegnato 500 miliardi di dollari. Programmati hotel e villaggi
turistici iper lussuosi per vip e ricconi d’alto bordo da far sorgere su
entrambe le coste, il lato egiziano s’estenderebbe a nord di Sharm El Sheikh.
Eppure c’è chi dubita dell’effettiva realizzazione del progetto in terra
d’Egitto e chi crede che introdurrà un’ulteriore ingerenza saudita nel Paese, com’è
accaduto con la vicenda delle isole Tiran e Sanafir, finite, in cambio di
denaro, agli sceicchi che ne fanno luoghi di svago e porti franchi, con
conseguenti paradisi fiscali. Fra nord e sud del Sinai, dunque, gli
orientamenti divergono. Il mal comune degli abitanti locali è rappresentato,
come per il resto degli egiziani, da nuove tasse, raddoppio del prezzo del
carburante, azzeramento dei sussidi governativi per i ceti meno abbienti. Più
tutte le incertezze economiche presenti, nonostante e ben oltre queste opere,
spesso private e inavvicinabili per lo stesso cittadino medio, figurarsi per il
terzo della popolazione (30 milioni di persone) che vive in povertà.
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