Non è servito neppure il discorso in diretta televisiva del
presidente della Repubblica Aoun, che pure incarna un pezzo della storia del
Libano degli anni Ottanta, doppiamente difeso dall’invasione israeliana e dall’ingerenza
siriana, oltre che dalle pratiche stragiste dei maroniti della famiglia
Gemayel. Anche Aoun è maronita, ma nell’epoca in cui vestiva la divisa da
generale s’è speso per l’unità del Paese dei cedri e per quest’unità ha
lavorato dal 2005, dopo il rientro dall’esilio parigino durato quindici anni. Però
sono i quindici anni successivi che le odierne piazze libanesi gli contestano,
ponendolo alla berlina assieme al premier Hariri e alla trasversale unione
politica che guida la nazione fra il compromesso e la cogestione. Contestati
anche il Partito di Dio e Amal, due componenti che tanto si sono spese per la difesa
del Libano dalle reiterate invasioni di Israele, ma che come le altre vivono reiterando
il clanismo. Il filo conduttore della protesta, che ormai monta da nove giorni
consecutivi e blocca ogni attività, è proprio il sistema proposto dai salvatori
della patria che usciva dalla guerra
civile.
Un meccanismo basato sulla molteplice rappresentanza etnica che ha
diviso le Istituzione come la logistica nella capitale: maroniti alla
presidenza della Repubblica e a Beirut nord, sunniti alla guida del governo e a
Beirut ovest, sciiti alla presidenza del Parlamento e nella cintura meridionale.
Tutto per garantire la convivenza. Questo sistema delle appartenenze s’è
trascinato dietro protezioni, padrinaggi, clientele per coloro che vanno in
chiesa e in moschea e per chi non ci va. Un sistema totalizzante che però non
include tutti, e che ora sta implodendo sia al cospetto e alle aspettative
delle generazioni del dopoguerra, sia nella pazienza dei tanti tenuti buoni con
lo spettro del passato - e sicuramente tremendo - conflitto civile che fece
150.000 vittime. Come ciascun politico
del mondo, leader pluridecennali che si chiamano appunto Aoun, Hariri, Berri, Jumblatt,
Nasrallah una volta trovata la quadratura del cerchio hanno pensato che tutto
sarebbe rimasto immobile. Invece devono fare i conti con la voglia di dinamismo
in uno spazio vitale ristretto che alle contraddizioni già sedimentate (campi
profughi, disoccupazione), aggiunge il malcontento per carovita, assenza di
prospettive per chi non accetta la ‘protezione’ di quei clan politici che ormai
la piazza definisce senza paura corrotti e mafiosi. Nei giorni scorsi qualcuno
ha provato a intimorire i manifestanti: militanti di Amal, a Tiro, ne hanno
strattonato e insultato alcuni, s’è anche parlato di aggressioni a colpi di
bastone.
Poi nel partito devono aver compreso l’effetto controproducente
del metodo squadrista e non ci sono stati altri episodi. Certo, ad Amal ed
Hezbollah, i partiti patriottici, finiti anche loro nella contestazione della
piazza e invece abituati al sostegno, se non proprio all’adulazione da parte
dei cittadini, questo rovesciamento dei ruoli non fa piacere affatto. Il
carismatico leader Nasrallah sta cercando la via diplomatica: ha offerto
solidarietà a cortei e sit-in, trovando giuste molte critiche, ma anche detto
che il governo non deve dimettersi perché può cambiare indirizzo. In tutta
fretta Hariri, a inizio settimana, ha varato un pacchetto di riforme-tampone su
cui spiccava il dimezzamento degli stipendi di politici e funzionari
ministeriali. Non ha incantato nessuno. Più determinati che mai i manifestanti
hanno chiesto il suo abbandono del palazzo, e hanno bocciato pure l’appello
presidenziale. Chiedono un cambiamento totale. E hanno iniziato a montare tende
nell’immensa piazza dei Martiri di Beirut, come fosse la loro Tahrir. Mercoledì
per via sono comparsi i blindati dell’esercito. Ma in subbuglio è un’intera
nazione, fatta di giovani soprattutto ma ora anche le famiglie. Quelle povere e
un ceto medio che teme di finire sul lastrico. Soluzioni draconiane da parte
del governo sarebbero una sciagura per tutti.
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