Messaggia Trump: “E’ ora
di uscire da questa ridicola guerra tribale infinita e portare i nostri soldati
a casa…”. Così gli americani iniziano il ritiro dal nord della Siria, non è
chiaro se con un manipolo simbolico o con tutte le truppe lì presenti. Su quel terreno per
tre anni avevano sostenuto i combattenti del Rojava kurdo nell’azione di
contrasto e riconquista dei territori occupati dai jihadisti dell’Isis. Tutti
ricordano le controffensive delle Ypg per riprendersi non solo l’enclave di
Kobanê, ma anche la città di Raqqa, divenuta nei progetti dell’autonominato
califfo Al Baghdadi la capitale dello Stato Islamico. Questo ritiro offrirebbe
all’esercito turco campo libero per eventuali azioni di pulizia militare contro
le milizie delle Unità di Protezione del Popolo, mal sopportate anche da
Damasco e considerate da Erdoğan un ramo del Pkk, che la Turchia combatte
militarmente e perseguita legalmente, come nel caso del leader Öcalan
prigioniero da vent’anni. Da mesi il presidente turco ripete che il suo
esercito può intervenire senza preavviso in quei luoghi perché non può tollerare
gruppi ‘terroristi’ ai confini. Per accattivarsi consensi interni e
internazionali fra le sue proposte c’è quella di creare nelle zone da occupare
strutture dove convogliare una parte (si pensa a due milioni) dei tre milioni e
mezzo di profughi siriani attualmente accolti in territorio turco. Per il
governo di Ankara quest’area dovrebbe essere lunga 480 km e profonda diciannove
miglia (30 km).
Le unità kurde sono allertate doppiamente, sia per la
battaglia da sostenere contro la possibile invasione dell’esercito della
mezzaluna, sia per un ritorno di fiamma dei miliziani dell’Isis. Insomma si
corre il rischio di vanificare almeno in parte i successi conseguiti contro i
jihadisti, tanto che un annuncio ufficiale del fronte kurdo ha definito l’uscita
statunitense “una pugnalata”. I russi, protettori di Asad e da tempo in buoni
rapporti con Ankara, hanno comunque dichiarato che un aspetto prioritario resta
quello di preservare l’integrità territoriale siriana. E nel gioco delle parti
nessuno dello staff erdoğaniano sostiene di mettere in discussione tale unità
territoriale, visto che le principali aree d’intervento riguarderebbero i
territori del Rojava kurdo, lì dove i lealisti di Asad non mettono piede. Eppure la Turchia ribadisce l’intento di
ridisegnare il nord del Paese confinante anche con azioni militari unilaterali,
qualora le aspettative generali non coincidessero con le proprie. Secondo una
lettura di taluni osservatori la smania turca di fare e strafare coincide con
la comprensione che l’amministrazione Trump cerca di allentare l’impegno
militare in varie aree mediorientali, dall’Afghanistan verso ovest. C’è poi la
questione dei prigionieri jihadisti. Solo Turchia e Stati Uniti si sono posti
il problema, l’Unione Europea latita. Si potrebbe rimpatriarli? Ma le dinamiche
non sono chiare e poi molti di costoro sono detenuti dai kurdi che, abbandonati
da tutti, dovranno programmare soluzioni.
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