Ormai formano un puzzle,
tanti volti, sorridenti nella pagina che li riunisce sui social media, ma che
possono apparire sfigurati dai trattamenti subìti nel corso degli interrogatori
dei mukhabarat. Sono gli avvocati egiziani, elementi coraggiosi, che rischiano
in proprio nel Paese sottoposto al dominio di Sisi e dei suoi fedelissimi. La
persecuzione di queste persone segue quella di oppositori e attivisti che,
unitamente ai giornalisti, sono finiti nelle grinfie della repressione di
regime già dai primi mesi del 2014. Il crescendo è stato, ed è tuttora, corposo
in una nazione che mette in prigione decine di migliaia di cittadini, ne fa
sparire centinaia per intimidirne milioni. Un governo che introduce, come ha
fatto, la galera a tempo con arresti mensili che durano un paio di settimane,
con tanto di trattamento di “favore”, consistente in una minore pressione, se riesci
a pagare gli agenti corrotti, di sfavore se non hai denaro, o peggio se vieni bollato
come terrorista. Gli avvocati dei diritti e quelli d’imputati, famosi e non,
possono finire nella stessa morsa infernale che incute paura all’incriminato e
mette nelle condizioni di ansia e precarietà gli stessi professionisti della
legge impossibilitati a difendere e difendersi.
Spezzare la già flebile rete di
solidarietà, che reclama diritti e democrazia nell’attuale Egitto sprofondato
in una tenebre peggiore di quella conosciuta ai tempi di Mubarak, rappresenta
il subdolo percorso autoritario attuato dal governo col benestare della lobby
militare. Quest’azione repressiva s’aggiunge a quella in atto da tempo verso la
cittadinanza critica e rincara la diffusione di terrore e omertà. Eppure c’è
chi sostiene come l’infatuazione fra gli egiziani conservatori e il presidente
della salvezza dall’islamismo della Fratellanza stia scemando. Anzi, addirittura
i colleghi di Sisi e della sua cerchia di potere, penserebbero a soluzioni
alternative vista la refrattarietà di quest’ultimi a mutare passo e adottare
comportamenti meno palesi, anche in fatto di accaparramenti e superpoteri. I
venerdì di protesta, lanciati dal 20 settembre scorso, potranno anche non
essere consecutivi, ma dopo circa un decennio diversi Paesi arabi dal Maghreb
algerino, fino al Mashreq egiziano e iracheno rialzano la testa davanti a
situazioni ingessate o peggiorate dopo repressioni interne e conflitti locali.
La miseria di ritorno e la corruzione dei governanti, insieme alla repressione
sono spettri che la popolazione non sopporta.
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