Da un mese a questa parte nella ‘città proibita’
di Kabul il marchio dell’Enduring Freedom
è diventato Freedom’s Sentinel. Il
drappo della missione resta colorato di verde come i vessilli islamici, il
motto cambia passando dall’assistenza e cooperazione all’attuale:
addestramento, assistenza, consigli. Arrotolata la precedente bandiera, la
forza Nato restante in Afghanistan dispiega la nuova, che ovviamente recita: ta’alimat, kumak, mashwerat tanto per
avvicinare, almeno nel linguaggio, quel popolo che non ama le divise dell’occupazione.
Fra i 13.000 militari occidentali e i 300.000 uomini del ricostruito esercito
locale si dovrà stabilire la massima collaborazione. Quali saranno i fini non è
affatto chiaro, o meglio sospetti e indizi orientano verso una funzione diversa
dalla propagandata autodeterminazione nazionale sul terreno della sicurezza e
della lotta al terrorismo. Infatti il comando statunitense, oltre ad addestrare
reclute e reparti speciali, avrà la supervisione e di fatto la guida sia del “Resolute support” sia delle operazioni
di anti guerriglia.
Alcune valutazioni di analisti sottolineano come
i vertici Isaf abbiano in varie occasioni offerto una lettura erronea dei fatti
e delle previsioni considerandone, o giustificandone, i fallimenti degli ultimi
anni come una questione tecnica. Insomma si cerca di svicolare dai nodi reali:
il deterioramento del progetto di stato falsamente democratico, che ha visto in
Karzai un artefice servile e chiaramente ripagato con l’affarismo familiare, e
la nuova figura del “normalizzatore” Ghani, fidato esecutore di interessi
stranieri, seppur in funzione bipolare fra l’occupazione statunitense e un’ingombrante presenza cinese.
Prettamente strategico-militare il primo, economico il secondo, per quanto nel
mondo globale nulla finisce per risultare definitivo. Dai primi passi compiuti
nelle cinque settimane che aprono la nuova missione appare una discrepanza di
tempi e scopi. Obama ha indicato il 2016 come data finale dell’operazione, il
Gotha della Nato lascia un portone aperto a possibili estensioni temporali.
Come in altre circostanze valutazioni
politico-amministrative e strategie militari non collimano su scenari esteri e
interni. Nel caso dell’attuale presidente americano prosecutore, inizialmente
prudente dell’avventura bushana, poi addirittura più spericolato e confuso del
predecessore tanto da doverne registrare un corposo flop politico –militare, si
delinea l’ennesimo giro di walzer in funzione della propria carriera. L’anno
venturo chiudendo il mandato Obama offre al Paese una versione ulteriormente
riveduta e corretta della presenza militare in Asia. Le differenze coi
guerrafondai dei tea-party sono più formali che sostanziali; chiunque dovesse
prevalere nella prossima tornata elettorale, Casa Bianca e Pentagono
misureranno il bisogno di controllare il cuore dell’Asia. E più che aprire
nuovi fronti, sempre passibili di censure nell’opinione pubblica oltre che
d’incertezze, è meglio conservare avamposti e conoscenze acquisite. Così l’exit strategy stabilmente convertita in stay strategy può continuare a essere
rappresentata dal vessillo di quella “libertà” portatrice di “addestramento,
assistenza, consigli”. Rivolti a vari soggetti afghani, non alla popolazione.
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