La bomba sotto le sedie che raccoglievano i militanti del Jamiat Uleme-e Islam Fazal, gruppo politico pakistano neppure tanto seguìto, domenica scorsa ha fatto 54 morti e oltre 200 feriti nel distretto di Bajaur. Fra quest’ultimi si contano casi disperati che faranno salire il numero delle vittime. Torma la prassi del terrore in un’area di confine che si trascina da oltre un secolo una storia imposta dall’alto. L’attuale provincia pakistana del Khyber Pakhtunkhwa è nota anche come Sarhad, che in pashtu vuol dire frontiera. La regione si chiamava anticamente Gandhara e anche Afghania, cosa che non accontenta l’etnìa pashtun lì insediata in maggioranza. Costoro non amano la denominazione coloniale frutto dell’accordo di fine Ottocento fra il segretario del Raj britannico Mortimer Durand e l’emiro Mohammed Khan, a seguito del quale venne tracciata la linea di demarcazione che prende il nome del diplomatico inglese e ha dato vita all’Afghanistan moderno. In tal modo si divise inesorabilmente la popolazione pashtun, per una parte insediata a ovest e per un’altra a est dei 2.640 km di quel confine. Certo, questo è un passato storico, di vicende ne sono accadute molte: l’inesistente Pakistan è sorto nel 1947, la monarchia afghana è diventata repubblica e poi territorio di guerra, civile e di conquista. Eppure le radici ideologiche dell’attentatore di domenica e dell’Isis Khorasan che ha rivendicato l’attacco stanno nella visione califfale della Umma islamica, contro il ruolo degli stati nazionali, repubblicani o monarchici, sposato dalla formazione Jamiat, e interno al sistema pakistano. Visioni antitetiche e conflittuali. A questo si può aggiungere la guerra strisciante che l’Isis-K ha avviato dal 2018 contro i talebani afghani, promuovendo già all’epoca del governo Ghani una soluzione risultata perdente, ma ricca di spargimento di sangue fra la gente. Per mostrare chi fosse più potente si facevano detonare ordigni nei luoghi più frequentati: piazze, mercati, moschee, scuole.
Anche l’attentato a Bajaur ha la funzione ‘vitale’ per l’Isis-K di mostrare presenza e capacità d’attacco in un territorio da sempre sotto l’influenza di forze fondamentaliste che non si son fatte scrupolo di colpire anche l’istituzione della forza per eccellenza: l’esercito pakistano. Una lobby potentissima che condiziona la politica locale e nazionale. La crisi politica, che da oltre un anno condiziona la vita interna, ha visto proprio elementi della gerarchi militare sostenere e poi scagliarsi indirettamente contro l’ex premier Khan e il suo partito. L’autunno si prospetta particolarmente caldo perché entro l’anno si dovranno tenere le elezioni con cui la linea populista e anticorruzione del partito Tehreek-e Insaf di Khan cercherà di fare il pieno alle urne come nel 2018. E se le maggiori formazioni, il Partito Popolare dei Bhutto e la Lega Musulmana-N, dei fratelli Sharif (Shahbaz è l’attuale primo Ministro) daranno battaglia alle urne, l’altra battaglia che si teme porta il nome di altri Tehreek i Taliban Pakistan, fraterni sodali dei talebani afghani. Come quest’ultimi i pur violenti e attentatori TTP perseguono un progetto differente dallo schema califfale dell’Isis-K. Non accettano il fanatismo con cui quest’ultimo vuol dettare legge in fatto di “purezza” teologica con la quale giudicano e marchiano come infedele chiunque non segua le loro posizioni. Così l’epiteto takfir si spreca all’interno della propaganda dell’Isis rivolta alla stessa comunità islamica che può venir colpita fino alle estreme conseguenze, come mostra l’attentato di domenica. Anche per questo gli analisti prevedono una campagna elettorale insanguinata per mano di chi non partecipa alle elezioni, ma può condizionarne i risultati e vuole, comunque, interferire col futuro del Paese. E il fattore insicurezza non può che giocare a a favore dei poteri forti interni: Forze Armate, polizia, Intelligence che, come da decenni, offrono sponda ai partiti per manovrarli meglio.
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